Šuša e i prigionieri di guerra del Nagorno Karabakh: continua il braccio di ferro (Asianews 10.05.21)

Mosca (AsiaNews) – Il 7 maggio il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliev (foto 1), ha dichiarato la città di Šuša “capitale culturale” del Karabakh azero, dopo averla strappata agli armeni nel conflitto dello scorso novembre. Ma anche gli armeni rivendicano l’appartenenza storico culturale di Šuši (nella loro variante linguistica) alla regione montuosa dell’Artsakh (Nagorno Karabakh).

La città a oltre 1300 metri sopra il livello del mare, era luogo di incontro e scontro tra armeni e azeri, cristiani e musulmani già ai tempi dell’Impero zarista russo. Situata in un crocevia decisivo per i trasporti e il commercio nella regione, Šuša mostrava la sua ecletticità fin dalla sua fondazione nel 1752, con chiese e moschee, grandi mercati e caravanserragli, musei e luoghi d’incontro di poeti e artisti di vario genere. Prima ancora di una rivendicazione bellica e politica, l’appropriazione culturale di una delle due parti è una ferita alla memoria reciproca.

In seguito agli scontri avvenuti dopo il crollo dell’Urss, Šuša era rimasta sotto il controllo armeno fin dall’8 maggio 1992. La dichiarazione di Aliev è avvenuta proprio la vigilia di quella data. L’Azerbaijan aveva dichiarato la conquista della città l’8 novembre 2020; un mese prima aveva bombardato la grande cattedrale di Ghazanchetsots, orgoglio della Chiesa Apostolica Armena (foto 2).

Il presidente azero ha dichiarato che “l’ulteriore perfezionamento dell’amministrazione governativa e legislativa a Šuša non soltanto servirà alla restaurazione e alla conservazione dell’eredità storico-culturale nella città, ma offrirà l’occasione per un suo sviluppo ininterrotto”, secondo i principi dell’identità azera e musulmana, “elevandola sull’arena internazionale come perla splendente della ricca cultura, dell’architettura e dell’urbanistica dell’Azerbaijan nel corso dei secoli”.

La questione dei prigionieri

Oltre alla disputa identitaria, gli armeni si sentono feriti per una questione molto scottante legata al conflitto bellico dello scorso autunno: la restituzione dei prigionieri di guerra.

La questione assume un profilo internazionale molto delicato, viste le pressioni di Usa e Russia su Baku per ottenere una soluzione, finora senza molto successo. Si tratta di adempiere ai reciproci obblighi approvati con la mediazione di Mosca, ma anche di permettere un più ampio accordo tra Russia e Azerbaijan per risistemare l’intera regione ex-sovietica del Caucaso, che permetta alla Russia di riconnettersi con l’Asia centrale per la via meridionale.

Il 6 maggio scorso a Erevan, Sergej Lavrov, ministro russo degli esteri, ha condotto trattative con il suo omologo Ara Aivazyan e il “facente funzioni” di primo ministro Nikol Pašinyan, chiedendo la firma di un memorandum sulla comprensione reciproca tra i governi dei due Stati in conflitto in materia di sicurezza biologico-sanitaria. Nel testo è previsto un ampio progetto di modernizzazione delle strutture sanitarie dell’Armenia, finanziato in buona parte (10 milioni di dollari) dagli Stati Uniti.

Gli armeni condizionano però ogni accordo ulteriore alla restituzione dei circa 200 prigionieri ancora nelle mani degli azeri (foto 3). Questi ne riconoscono poco più della metà, e per ora continuano a tenerli in ostaggio come arma di ricatto nelle trattative. Il 4 maggio il capo del contingente militare di pace russo, Rustam Muradov, ne aveva riportati tre a Erevan, per facilitare la missione di Lavrov, ma il gesto non è bastato ad ammorbidire la posizione dei rappresentanti armeni, che si attendono da Mosca una presa di posizione molto più decisa.

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IL DIBATTITO SUL RICONOSCIMENTO E LA NEGAZIONE DEL GENOCIDIO ARMENO (Gariwo 10.05.21)

Il riconoscimento del genocidio armeno da parte del presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha portato uno dei principali alleati di Israele ad allinearsi con gli altri 30 Paesi che nel mondo hanno riconosciuto questo genocidio. Questo ha spinto alcuni intellettuali israeliani a riflettere, particolarmente sulle pagine del quotidiano Haaretz, sulla posizione di Israele, e sul significato del riconoscimento e della negazione di questo genocidio. Negli ultimi giorni questa riflessione si è trasformata in un botta e risposta su religione e politica nel rapporto tra Israele e Turchia rispetto al genocidio armeno.

Il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Biden è stato accolto con grande soddisfazione da una buona parte della comunità ebraica. Come abbiamo spiegato di recente, il vocabolario e gli argomenti che Biden ha usato nella sua nota sul genocidio armeno sono molto legati al tema della prevenzione del genocidi per come lo aveva discusso il giurista ebreo e polacco Raphael Lemkin, che fu fautore della Convenzione per la prevenzione e la repressione dei genocidi da parte delle Nazioni Unite nel 1948, un documento certamente molto caro a Israele e che è nato proprio a seguito del genocidio della Shoah. Tuttavia, Israele persiste nel suo rifiuto di definire quanto accaduto agli armeni tra il 1915 e il 1916 un “genocidio”.

Secondo alcuni, questo rifiuto ha soprattutto ragioni politiche, e nasce dal fatto che Israele non vuole inimicarsi la Turchia, cioè il suo principale alleato musulmano in Medio Oriente. Marc David Baer, esperto di storia europea e mediorientale e docente alla London School of Economics, è intervenuto su Haaretz con un articolo intitolato “Gli ebrei che hanno fatto amicizia con la Turchia e sono diventati dei negazionisti del genocidio”. “Lo Stato ebreo dovrebbe essere il primo”, scrive Baer, “a riconoscere il genocidio, ovunque questo avvenga. Ma preferisce restare ufficialmente in silenzio anziché inimicarsi il proprio alleato economico e militare, nonostante la retorica antisemitica e antiisraeliana del suo attuale leader”. Secondo Baer, che ha scritto anche un libro su questo argomento, questo atteggiamento ha radici storiche molto antiche, risalenti a quando l’impero ottomano accolse gli ebrei espulsi dalla Spagna e dal Portogallo nel quindicesimo secolo: “nell’ottocento”, scrive Baer, “gli intellettuali ebrei ottomani riciclarono vedute pre-moderne” e “trasformarono il sultano, e per estensione tutti i turchi, in tolleranti accoglitori degli ‘ospiti’ ebrei”. Le cose, secondo Baer, non cambiarono né col massacro degli armeni né con quello degli ebrei nei campi di concentramento nazisti, fino a culminare con la Quicentennial Foundation, nata per celebrare i “cinquecento anni di amicizia” tra Turchia e Israele e basata non solo sulla negazione del genocidio armeno, ma anche dell’antisemitismo turco. Secondo Baer, infatti, per gli intellettuali ebrei che sostenevano questa idea “assumere che turchi ed ebrei avevano vissuto in pace e fratellanza per cinquecento anni significava non ammettere che i turchi potessero aver perpetrato un genocidio contro gli armeni”. Secondo Baer, la relazione tra gli armeni e gli ebrei, “naturali alleati” data la loro storia comune, è intaccata quindi, e paradossalmente, da “decenni di negazionismo.

A tal proposito, qualche giorno fa il giornalista israeliano Ofer Aderet ha pubblicato su Haaretz un approfondimento sull’ostruzionismo portato avanti dal ministero degli esteri israeliano sull’organizzazione di una conferenza accademica del 1982 che verteva sia sull’Olocausto che sul genocidio armeno. L’articolo di Aderet, basato su documenti degli archivi di Stato israeliani, riporta le parole dell’allora ministro degli esteri israeliano, che scrisse: “continueremo a diminuire e ridurre la questione armena al massimo delle nostre possibilità e con ogni mezzo possibile”. Nel suo intervento su Haaretz, Aderet ha raccontato i tentativi di sabotaggio di questa conferenza, portati avanti per due mesi consecutivi, per vederla cancellata o privata della sezione dedicata all’Armenia, la quale avrebbe gettato ombra sull’unicità della Shoah e paragonato la Turchia ai nazisti. Gli organizzatori della conferenza dicevano che la Turchia aveva minacciato ritorsioni contro Israele nel caso in cui si fosse parlato del genocidio armeno alla conferenza. In realtà, secondo Israel W. Charny, esperto di genocidi e autore di Israel’s Failed Response to the Armenian Genocide: Denial, State Deception, Truth versus Politicization of History (2021), i tentativi di sabotaggio furono opera di Israele che, senza sollecitazioni esterne, agì per motivi politici, negando il genocidio armeno per non creare tensioni diplomatiche con la Turchia. Secondo le fonti citate da Aderet, il ministero degli esteri avrebbe convinto larga parte degli invitati – tra cui lo scrittore e Nobel per la Pace Elie Weisel e lo storico Yehuda Bauer – a ritirarsi dalla conferenza, offrendo a chi faceva resistenza anche del denaro. Frances Gaezer Grossman, una giovane ricercatrice americana che aveva ricevuto una telefonata dal consolato israeliano la mattina stessa della sua partenza per Israele, disse in un’intervista: “dopo l’Olocausto e la creazione di Israele, il fatto che a un ebreo venga detto di non partecipare una conferenza per evitare ripercussioni è un affronto per la mia dignità di essere umano e di ebrea”. La campagna di sabotaggio ha coinvolto importanti diplomatici e politici locali, tra cui anche Gideon Hausner, noto per aver condotto il processo contro Adolf Eichmann. La conferenza, alla fine, si è tenuta comunque, ma con 150 persone anziché le 400 inizialmente previste, grazie alle pressioni di Israele, che sono continuate fino a poco prima dell’inizio della conferenza.

Sempre sulle pagine di Haaretz, due altri contributi hanno interpretato il rifiuto di Israele di riconoscere il genocidio armeno sulla base del rapporto tra Israele e l’Olocausto. Recentemente, per esempio, abbiamo parlato di un editoriale di Eldad Ben Aharon, docente di studi israeliani e relazioni internazionali all’università di Leiden: secondo Ben Aharon, il legame con la Turchia non è il motivo principale per cui Israele resta ancorato alla sua negazione del genocidio degli armeni. Piuttosto, Ben Aharon sottolinea che il riconoscimento del genocidio armeno obbligherebbe Israele a commemorazioni pubbliche che, secondo il calendario ebraico, cadrebbero in concomitanza con quelle dell’Olocausto. Per molti israeliani, scrive Ben Aharon criticando la costante “competizione” che Israele vive con la memoria degli altri genocidi, questo getterebbe ombra sulla memoria della Shoah.

In occasione dello scorso anniversario del genocidio armeno, Sivan Gaides, israeliana di origini armene, aveva riflettuto su Haaretz sull’oblio che circonda il genocidio armeno, soprattutto in Israele, e sulla mancanza di strumenti di memoria che la comunità armena ha dovuto affrontare rispetto alla propria storia. “Mentre l’educazione all’Olocausto è considerata il punto di riferimento per un’educazione storica responsabile in tutto il mondo sviluppato,” scriveva Gaides, che discende da sopravvissuti all’Olocausto da parte di padre e da sopravvissuti al genocidio armeno da parte di madre, “i discendenti dei sopravvissuti al genocidio armeno devono ancora lottare perché il genocidio sia riconosciuto come tale”. Secondo Gaides, in Israele questo accade perché gli israeliani rivendicano una “esclusività del trauma” in virtù della quale si rifiutano di guardare il dolore altrui, per quanto simile al loro.

Su Haaretz, la riflessione collettiva sui motivi per cui Israele nega il genocidio armeno si è trasformato in un botta e risposta sulla legittimità della definizione di “genocidio” rispetto al massacro degli armeni e sul rapporto tra religione e politica in Turchia. Secondo i due storici israeliani Benny Morris e Dror Ze’eviun genocidio armeno non esiste, mentre esiste piuttosto un genocidio dei cristiani, che fu portato avanti per ragioni religiose e non politiche e che danneggiò cristiani di diverse nazionalità. La tesi centrale dell’intervento di Morris e Ze’evi è articolata come segue: primo, il massacro dei cristiani nel territorio dell’impero ottomano non si è limitato al 1915-1916 ma è esistito prima, durante, e dopo la prima guerra mondiale, cioè negli anni Novanta dell’ottocento con il governo autocratico del sultano Abdul Hamid II, tra il 1908 e il 1918, e all’inizio del regime repubblicano di Mustafa Kemal Ataturk negli anni Venti del novecento. Secondo, il massacro degli armeni ha coinvolto gruppi diversi, dagli assiri ai greci agli armeni, non limitandosi quindi solo a questo gruppo etnico. Terzo, i motivi del massacro erano vari ma sostanzialmente religiosi più che politici, perché i turchi vedevano i cristiani, più che gli armeni, come nemici, e “in Turchia la motivazione nazionalista” era “percepita profondamente come parte di quella religiosa”. Secondo Morris e Ze’evi, prova ne sarebbe il fatto che i turchi avevano perseguitato anche gli assiri, i quali, a differenza degli armeni, non avevano alcuna ambizione nazionalista. I miliziani turchi, insomma, avrebbero agito come in una “guerra santa”, in cui la “turchizzazione” non era un progetto politico di stampo nazionalista, ma un progetto religioso che prevedeva l’eliminazione di tutti i cristiani. Sostenendo questa tesi e l’idea che la “tragedia armena durante la prima guerra mondiale non è stata un genocidio”, i due storici israeliani in questione leggono il massacro armeno con la lente di uno scontro tra culture, e sostengono quindi indirettamente la legittimità di Israele nel continuare a negare questo genocidio.

All’intervento di Morris e Ze’evi è seguita il giorno dopo la risposta di Alex Galitsky, direttore della comunicazione all’American National Committee of America, un’importante organizzazione armeno-americana che fa attivismo, formazione e informazione sulla comunità armena negli Stati Uniti e nel mondo. Galitsky ha detto che la tesi di Morris e Ze’evi è inconsistente, perché la definizione di genocidio nella Convenzione per la prevenzione e la repressione dei genocidi da parte delle Nazioni Unite nel 1948 definisce genocidio anche il tentativo di distruggere, del tutto o in parte, un gruppo religioso e non solo nazionale. Il massacro degli armeni, scrive Galitsky, è stato un genocidio, e la sua negazione corrisponde a un “doppio assassinio” e a una “consumazione” del genocidio, perché priva il presente della memoria necessaria alla sua prevenzione. Nel suo articolo, Galitsky attacca gli intellettuali israeliani che, come Morris e Ze’evi, si rendono paradossalmente partecipi di questa continuazione del genocidio, e cita uno studioche dimostra come Hitler stesso fosse ispirato dalla figura di Ataturk. Soprattutto, Galitsky ha enfatizzato nel suo articolo che la negazione del genocidio armeno da parte della Turchia nasce da motivazioni politiche legate all’ultranazionalismo di Erdogan, che non hanno nulla a che fare con la religione. A tal proposito, Galitsky cita il comportamento di Erdogan nei confronti dei curdi, che sono musulmani, e le sue numerose allusioni a ideali panturchi. Tra queste, Galitsky cita la pubblica lode di Erdogan a Enver Pasha, uno degli architetti del genocidio armeno, e la sua alleanza con l’MHP, il Nationalist Movement Party, il cui leader disse pubblicamente che la deportazione degli armeni è stata “assolutamente giusta” e che “dovrebbe accadere di nuovo, se le circostanze fossero le stesse di allora”. Nella sua risposta a Morris e Ze’evi, Galitsky cita anche Grey Wolves, un’organizzazione di estrema destra legata all’MHP e caratterizzata non solo dal negazionismo del genocidio armeno, ma anche da un marcato antisemitismo e dal cospirazionismo negazionista per quanto riguarda l’Olocausto.

L’intervento di Galitsky, l’ultimo di questa serie di contributi pubblicati su Haaretz su Israele e il genocidio armeno, enfatizza quindi il legame tra la storia armena e quella ebraica. Le Nazioni Unite non hanno mai ufficialmente etichettato il massacro armeno come “genocidio”, in parte perché si è trattato di eventi precedenti alla sua fondazione. Tuttavia, esiste un largo consenso tra gli accademici e gli esperti di genocidi, tra cui ci sono anche molti israeliani e lo stesso Yehuda Bauer, sul fatto che il massacro armeno è stato un genocidio, e le Nazioni Unite stesse lo hanno definito tale nel rapporto Whitaker datato 1985. La discussione che ha accompagnato il 106esimo anniversario del genocidio armeno spinge a riflettere sul significato tutto politico del riconoscimento e della negazione del genocidio armeno in Israele. Nel primo caso, riconoscere il genocidio significa allinearsi, soprattutto in virtù di una storia comune, con gli organi internazionali che si occupano della prevenzione dei genocidi e identificarsi in principi di democrazia e rispetto delle libertà. Nel secondo caso, negare il genocidio significa privilegiare la convenienza politica con un Paese caratterizzato da posizioni negazioniste e ultranazionaliste, che a loro volta guidano un uso strumentale della storia e della memoria rispetto al quale, secondo i contributi qui elencati, Israele dovrebbe prendere posizione.

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Nagorno-Karabakh: Lavrov, hub trasporti può migliorare rapporti fra Azerbaigian e Armenia (Agenzianova 10.05.21)

Baku, 10 mag 22:05 – (Agenzia Nova) – La creazione di un hub di trasporto nel Caucaso meridionale può diventare la base per migliorare le relazioni tra Azerbaigian e Armenia. Lo ha detto il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, in un incontro con il presidente azerbaigiano, Ilham Aliyev, a Baku. “Siamo sinceramente interessati alla normalizzazione delle relazioni tra Azerbaigian e Armenia. Crediamo che il lavoro congiunto incentrato sugli aspetti economici crei un quadro ottimale per il superamento di questo conflitto prolungato”, ha detto Lavrov. “La gente dovrebbe avvertire che questo processo è in atto, che c’è un reale miglioramento ‘sul campo’. I tre vice primi ministri di Russia, Azerbaigian e Armenia – nell’ambito del gruppo di lavoro creato dai leader dei tre Paesi – si incontrano regolarmente per discutere degli aspetti pratici legati all’accordo sullo sblocco di tutti i corridoi economici e di trasporto nel Caucaso meridionale. Si tratta di un nodo di trasporto potenzialmente molto importante, che avrà un significato che andrà ben oltre il quadro regionale”, ha aggiunto il ministro. (Rum)

Armi e petrocarburi nel Caucaso. Intrecci geopolitici tengono la pace e la libertà per l’Artsakh/Nagorno-Karabakh ancora lontane (Korazym 09.02.21)

Domenica 27 settembre 2020 l’Azerbajgian, con il supporto logistico della Turchia e l’impiego di mercenari jihadisti provenienti dalla Siria, attaccava la piccola Repubblica armena de facto di Artsakh/Nagorno-Karabakh. Questo “Blog dell’Editore” era uno dei primi a raccontarlo [Presidente Arayik Harutyunyan: non è l’Azerbaigian, è la Turchia che combatte contro l’Artsakh. Circa 4.000 jihadisti della Syria combattendo con i turchi dalla parte azera – 28 settembre 2020]. Seguirono quarantaquattro giorni di violenti combattimenti e bombardamenti, un accordo di tregua mediato dalla Russia (firmato il 9 novembre 2020 dal Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev, dal Primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan e dal Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin), la vittoria per il regime del dittatore Aliyev e la pesante sconfitta armena.

Come abbiamo riferito successivamente in numerosi articoli, nella parte occupata dagli Azeri della Repubblica di Artsakh sta avendo luogo un genocidio culturale, nell’indifferenza pressoché generale dell’Occidente e nel assordante silenzio della Santa Sede. Abbiamo parlato di un dopoguerra ancora turbolento tra violazioni dell’accordo, prigionieri di guerra armeni non riconsegnati e problemi di confine tra le due ex repubbliche sovietiche. Ancora una volta nel contenzioso nel Giardino della Montagna Nera, su questo fazzoletto di terra nel Caucaso meridionale, la diplomazia cede il passo alle armi. Intrecci geopolitici, l’ombra inquietante della Turchia di Erdogan, questioni energetiche che toccano da vicino anche l’Italia, “caviar diplomacy”, exit strategy mancate e future vie d’uscita alla ricerca di una pace ancora lontana.

Di questo tratta Emanuele Aliprandi nel suo nuovo libro Pallottole e petrolio: Il conflitto del Nagorno Karabakh (Artsakh) e la nuova guerra che ha infiammato il Caucaso. I rischi per l’Italia e il fattore … mancate e ipotesi per un futuro di pace (2021, 194 pagine), preceduta da una breve disamina storica e giuridica della questione, la cronaca drammatica e attuale di un conflitto che ci riguarda da vicino molto più di quanto potrebbe apparentemente sembrare. Con tutti i rischi del caso.

Emanuele Aliprandi da anni studia la questione armena e in particolare il caso dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh, tema sul quale ha tra l’altro pubblicato Le ragioni del Karabakh (2010).

Il sindaco Fabbri intervistato dall’agenzia di stampa armena: “Pronto a gemellaggio” (Estense 09.05.21)

“Abbiamo rispedito al mittente la lettera dell’ambasciatore turco. Una città come Ferrara, la cui storia è legata alla presenza della comunità ebraica, non può accettare il negazionismo. I tentativi di ingerenza turca, anche nelle iniziative della nostra città, e i toni assunti dalla ‘diplomazia’ di Ankara verso il popolo armeno, non sono accettabili. Mai chineremo la testa di fronte a chi intende riscrivere la storia”.

Così il sindaco Alan Fabbri intervistato questo pomeriggio da ArmenPress, l’agenzia stampa nazionale armena, ha ripercorso la vicenda delle scorse settimane quando l’ambasciatore turco Murat Salim Esenli ha invitato il primo cittadino a “correggere” e “riconsiderare” la posizione in ordine all’evento ‘‘Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni tra memoria, negazioni e silenzi’ ospitato al teatro di Ferrara il 24 aprile con, tra gli altri ospiti, Antonia Arslan.

Fabbri – intervistato dal giornalista Norayr Shoghikyan – ha accolto la proposta di un gemellaggio con una città armena e si è detto pronto a promuovere una mozione per il riconoscimento della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh), teatro della guerra lanciata dagli azeri, con l’appoggio militare dei turchi, contro gli armeni.

Il sindaco ha inoltre manifestato la sua “piena disponibilità” a una visita a Erevan e nei territori armeni: “Ne sono onorato”, ha detto rispondendo all’invito. Il giornalista ha poi chiesto conferma del conferimento delle cittadinanze onorarie ad Antonio Arslan e a Taner Akçam. “L’assegnazione ha già ricevuto il via libera dalla giunta e approderà presto in consiglio comunale – ha risposto Fabbri -. Procediamo con un’iniziativa che avevamo ipotizzato da tempo, un riconoscimento a due autorevoli e coraggiosi testimoni della verità, a cui va tutta la nostra vicinanza e la nostra stima”. Il primo cittadino ha inoltre spiegato che “il dramma del genocidio armeno è stato troppo a lungo sottaciuto, anche nel nostro Paese”. Poi ha raccontato la sua esperienza: “Ho iniziato a comprendere la portata di quella pagina drammatica della storia guardando, da adolescente, ‘Quella strada chiamata paradiso’ e ascoltando i brani, molti dei quali ispirati a questo tema, dei System of a Down, i cui componenti discendono dai superstiti del genocidio armeno del 1915”.

“Questo genocidio è stato coperto dal silenzio. Oggi – ha sottolineato – è dovere di tutti ricordarlo, farlo conoscere alle nuove generazioni. Mi impegnerò per questo e per questo sto conducendo questa battaglia”.

L’intervista completa – a video – sarà disponibile nei prossimi giorni sui canali web di ArmenPress.

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Carmine Verduci, presidente di Kalabria Experience (Retenews24 08.05.21)

A tu per tu con Carmine Verduci, presidente in carica della Pro Loco di Brancaleone e fondatore

del progetto Kalabria Experience. Un modo per valorizzare la cultura e i bellissimi paesaggi eterritori della Calabria, una regione con tantissime influenze storiche tutte da scoprire.

Salve Carmine, quali sono i progetti per la prossima estate legati a Brancaleone?

“Personalmente, ricopro da dieci anni la carica di presidente della Pro Loco di Brancaleone, ma sono anche un fondatore del progetto Kalabria Experience. Queste due realtà non sono una cosa sola, anche se si muovono parallelamente. Fondamentalmente perché Kalabria Experience prende un po’ tutto il territorio calabrese, grazie a tutta la rete di associazioni e professionisti che le ruotano attorno. Organizziamo, insomma, esperienze in tutta la Calabria, soprattutto nella fascia jonica-reggina. E’ nei nostri intenti far conoscere una Calabria diversa da quella che, solitamente, è più gettonata, come la costa tirrenica e via dicendo. Le attività si svolgono parallelamente, ma Kalabria Experience e La Pro Loco di Brancaleone sono due cose differenti, con profili social separati. L’idea è proprio quella di fungere da service di zona a livello turistico e, chiaramente, Brancaleone rientra in questo obiettivo: muovere un po’ quello che è il turismo e, soprattutto, concentrare l’attenzione sul patrimonio culturale e naturalistico che ruota attorno a Brancaleone, al territorio. I progetti sono tanti e ambiziosi. L’anno scorso abbiamo fatto un’estate pazzesca, perché c’è stata molta richiesta di servizi turistici. Quello che noi facciamo di più. Non siamo la solita Pro Loco dedita solo alle sagre o a un evento all’anno. Realizziamo dalle trenta alle quaranta manifestazioni. Contestualmente Kalabria Experience propone esperienze in natura, all’aria aperta, un po’ in tutto il territorio calabrese, che non si limitano alla semplice escursione ma sono proprio a contatto con il territorio, con la gente, con la gastronomia tipica e, soprattutto, si punta verso la condivisione delle esperienze sui luoghi, quali possono essere i borghi antichi”.

E con la pandemia com’è andata?

“Come immaginerà, con la pandemia queste cose sono state frenate, ma noi lavoriamo di marketing, gratuitamente e senza sovvenzioni pubbliche. Tutti i progetti che facciamo, così come le manifestazioni, si autosostengono. Non prendiamo contributi pubblici per poter fare questo. Stiamo agendo di marketing attraverso la pubblicazione continua di post con luoghi da vedere e visitare, con curiosità del territorio anche nel settore spiagge. Stiamo puntando tantissimo su questa cosa e i risultati si vedono. Il nostro obiettivo è il turismo destagionalizzato. Non solo concentrato nei mesi estivi, ma anche nel far vedere che cosa si può fare nei periodi autunnali, primaverili. Questo è l’obiettivo comune sia dell’associazione Pro Loco Brancaleone, sia di Kalabria Experience”.

Una valorizzazione del territorio annua, visto che ha da offrire tante cose anche oltre l’estate.

“Sì, perché i turisti si concentrano maggiormente tra luglio e agosto. L’anno scorso, con la pandemia, abbiamo avuto ovviamente delle difficoltà anche in quei mesi, ma posso dirle che ci siamo svegliati a maggio.

Molte persone, ad esempio, erano già a Brancaleone e sul territorio poiché lavoravano da remoto, in smart working come si suol dire. Ci siamo svegliati dal torpore con tantissime persone che circolavano in zona e chiedevano di poter visitare luoghi, di poter essere accompagnati, di avere un weekend organizzato nella zona per sapere cosa c’era da vedere e le curiosità legate agli stessi. Abbiamo quindi trascorso giugno, luglio e agosto pieni di persone, che ovviamente volevano vedere la Calabria. Molte persone sono venute da noi perché hanno visto i filmati che realizziamo su YouTube, che sono dei piccoli documentari, o le foto o gli spot che abbiamo lanciato in rete. Ci auguriamo che anche quest’anno sia così, che l’Italiano che non va all’estero prediliga una località come la nostra, dove la vacanza costa molto meno rispetto ad altri posti balneari più gettonati in Italia. Sia per il turismo balneare, sia per quello culturale, il nostro territorio si presta benissimo”.

Immagino che, di anno in anno, ci sia dietro una strategia di comunicazione che puntualmente studiate, no?

“Certo. Stiamo già preparando il lancio della promozione, anche grazie a Massmedia Comunicazione.

Stiamo cercando di improntare un discorso che non solo mira a puntare sul turismo dove arrivi, visiti e te ne vai. Stiamo mettendo al centro dell’attenzione il fatto che nel nostro territorio puoi realizzare anche servizi, shooting fotografici di moda, film di cinema o serie tv, che vengono fatti nella zona jonica – reggina ormai da tre anni, dato che c’è una escalation di richieste da questo punto di vista. Vogliamo offrire una narrazione diversa dall’immaginario collettivo”.

Anche perché, mi corregga se sbaglio, ha avuto diverse influenze dal punto di vista della cultura.

“Giusto. Tutti sappiamo che la Calabria, la seconda patria per i Greci, ha una particolarità: la grande stratificazione di popolazioni, i Greci in primis e poi gli armeni, che ci hanno lasciato tracce nella lingua. Abbiamo creato, con questo, un brand turistico presentato da diverse agenzie di viaggio. Molti siti internet che si dedicano al turismo invitano a visitare i nostri luoghi, dove gli armeni hanno lasciato tracce di architettura, archeologia, ma anche lingue come toponimi, nomi. Nel nostro DNA scorre, insomma, anche questo sangue.

Non dimentichiamo, inoltre, popolazioni di ebrei e albanesi, che sono concentrati sull’alta Calabria. Non vogliamo che la nostra regione si fermi solo alla grecità, ma ha tante altre influenze, che cerchiamo di valorizzare. Questo aspetto attira tantissimo”.

Trattandosi di argomenti storici, c’è anche interesse a scoprire delle cose nuove. Portate avanti una continua ricerca?

“Assolutamente. Siamo alla ricerca degli armeni, per cui abbiamo fondato da poco una comunità armena in

Calabria, dove noi ci occupiamo di realizzare eventi che richiamano, appunto, la cultura e i lasciti di questa popolazione. Essendo un popolo cristianizzato, motivo per cui parliamo del 301 d.C., si spinsero in Calabria nel VI e VII secolo a causa della persecuzione musulmana. Attraverso la rotta della Grecia, si riversarono nelle nostre coste, edificarono le grotte come ci sono in Cappadocia per via della somiglianza del nostro con quei territori. La gente da oltreoceano viene proprio a visitare questi luoghi. E’ fondamentale. Gli armeni stanno facendo scoprire un’Italia diversa. Non si ha la percezione di quello che può offrire la Calabria. Si pensa più alla Sicilia, a Venezia, a Roma e alle grandi città in generale. Quando i turisti vengono da noi li portiamo nelle grotte, nei castelli armeni, in questi paesini che sono qui nel raggio di 10 km. Si trovano tante testimonianze armene a Brancaleone, oltre quelle che ci sono in tutta la Calabria. Ci sono chiese dedicate ai Santi armeni; ad esempio, a Curinga, in provincia di Catanzaro, c’è il platano millenario, che si dice sia un orientalis piantato da un monaco armeno. Tutta la regione, diciamo, è soggetta a questo tipo di influenze. Questa zona, che il brand è Valle degli Armeni, è un rimando alla valle che si racchiude tra due promontori ed è un’area di 10 km dove si trova tantissimo di cultura armena. Questo è diventato un itinerario, con borghi antichi e abbandonati naturalmente”.

Per valorizzare così bene il territorio c’è sicuramente bisogno di figure professionali,

di persone che si intendono di questo.

“Sì. Ho creato intorno a me e a Kalabria Experience un team di esperti, quali sono guide turistiche, naturalistiche, archeologi, ricercatori, geologi, agronomi, per la cultura delle erbe e delle piante. Tutto questo deve far parte dell’esperienza che il visitatore si porta a casa, a partire dai profumi, dagli odori delle piante antiche, medicamentose. Niente è lasciato a caso, da questo punto di vista. Mi accorgo, parlandone, che siamo abbastanza forniti di figure professionali. Ultimamente, io come operatore culturale e del turismo esperienziale, sto portando avanti un progetto turistico tramite agenzia.

Quest’ultima si occupa di promuovere questo tipo di attività”.

Le piace occuparsi di tutte queste cose. Si vede da come ne parla.

“Sì, anche se il mio lavoro è tutt’altro. Mi occupo di animali domestici, però fin da bambino non amavo andare a giocare al bar per fare i videogiochi con i gettoni; piuttosto mi piaceva organizzare delle escursioni con i miei amici in bicicletta, all’aria aperta. Mi sono così appassionato di turismo. Sognavo di portarlo a Brancaleone e, ancora prima delle mie esperienze nel campo dell’associazionismo, mi era stato detto che probabilmente ero la persona più adatta a svolgere il ruolo di organizzatore di eventi, dato che ne avevo già fatti alcuni. All’epoca non sapevo tanto di associazionismo; col tempo mi sono fatto la giusta esperienza e, dal 2013, ho cominciato a fare una serie di convegni e workshop parlando di turismo esperienziale, quando in tanti pensavano che Brancaleone si fosse perso negli anni ’80, con un turismo che era più che altro balneare. In quell’anno, nel 2013, ancora non si parlava in Italia di turismo esperienziale. E’ stato quello il salto che abbiamo fatto. Se nota, oggi tutto è Experience. Quando io ho creato Kalabria Experience, nel 2015, non esisteva nulla. C’era solo Dubai Experience. Anche il nome stesso voleva rappresentarci a livello internazionale; volevamo un nome con cui attirare l’attenzione. Per me, Calabria scritto con la K rappresenta già la grecità. Experience perché l’esperienza della Calabria dev’essere viva e a 360°, attraverso la narrazione del territorio calabrese, che non è il turismo di Tropea pizzo-calabro, parlando ovviamente con tutto il rispetto, ma di cui fa parte anche un’altra parte di Calabria poco conosciuta. Volevamo proiettare questo territorio all’universalità della Calabria. Questo è quello che, in sostanza, era il mio progetto”.

Pensa di esserci riuscito?

“Sì, perché oggi Brancaleone, escludendo ovviamente il periodo della pandemia, ha tutto l’anno delle scuole, delle agenzie turistiche, delle associazioni culturali calabresi e siciliane che scelgono di fare dei percorsi.

Abbiamo anche la dimora del confino di Cesare Pavese, che è una casa museo di un privato, che ha aperto la possibilità di fruirla alle persone. Da tutto il mondo vengono così a visitare il luogo dello scrittore piemontese. Abbiamo creato una sorta di percorso urbano, che va a toccare tutti i luoghi dove Pavese scrisse qualche poesia. E’ un posto emblematico, che ha riportato nei suoi romanzi. Questo è un progetto di parco letterario, dove andrà di mezzo anche l’interesse comunale. L’associazione può solamente accompagnare questi processi culturali, che passano anche attraverso l’escursione naturalistica o culturale, come quella al parco archeologico di Brancaleone Vetus, dove abbiamo realizzato anche dei servizi fotografici. Prima, era un posto pieno di erbacce, non si poteva neanche camminare; oggi si può visitare tutto l’anno questo borgo diroccato, che però ha dei sentieri messi in sicurezza, con la segnaletica adeguata. E’ un posto che puoi fruire da solo, ma anche richiedendo il nostro supporto. Abbiamo infatti una guida esperta del luogo, che mostra tutto quello che c’è da vedere e conoscere.

Personalizziamo per ogni tipo di target: da quello di fascia di età più piccola a quello di fascia d’età più grande. Tutti i proventi vengono poi reinvestiti per la cura e la manutenzione di questo luogo, che è straordinario e conosciuto in tutto il mondo, grazie all’opera di volontari, cittadini e soci. Le tv nazionali non considerano molto questa zona della Calabria, ma ci stiamo lavorando”.

E’ un lavoro molto importante quello che fate, dato che rivitalizzate il territorio, consentendo ai vari paesaggi di rifiorire.

“Esatto. A proposito di questo, posso dirle che facciamo molto opera di riforestazione. Per esempio, le escursioni che facciamo si concludono con una piantumazione di un alberello. Oppure, nel Borgo antico di Brancaleone abbiamo reimpiantato specie autoctone, come mandorli o carrubi, che sono scomparse. Ogni albero porta un nome. Ci sono delle persone che si sono innamorate del posto e hanno voluto acquistare un albero al fine di poter imprimere la loro presenza tutto l’anno. Portiamo l’acqua alle piante, che crescono, e che un giorno saranno alberi molto belli che arricchiranno ancora di più il territorio. Questo progetto, che si chiama Renaissance Brancaleone, viene ripreso da tantissime associazioni, che avevano un borgo antico abbandonato che vogliono riprendere. Noi andiamo avanti solo così; economicamente l’associazione si mantiene grazie ai servizi. Siamo volontari senza stipendio, ma un’associazione ha comunque delle spese. Per sopperire alle stesse, non ci rifacciamo con le sagre ma con i servizi turistici. Abbiamo cambiato il modo di fare agire le Pro Loco sul territorio, dando loro supporto. Sono state costituite delle reti tra di noi, grazie alle quali ci scambiamo i turisti”.

Mi spieghi meglio questo aspetto.

“Ad esempio, a 10 km, a Casignana, c’è una villa romana bellissima del primo quarto d.C. che ha dei mosaici bellissimi. I visitatori di questa villa ricevono un invito a recarsi a Brancaleone. La stessa cosa facciamo noi con Casignana a chi viene a visitarci. Un meccanismo che si ripete anche per altri luoghi. Questo scambio è essenziale. E’ questa la vera rete. Si creano delle sinergie. Ci chiamano per programmare, ad esempio, la settimana. Ho una rete che va dall’alta Calabria, dal Pollino, fino alla nostra zona. Ho dei riferimenti su cui contare e organizzare le esperienze fatte bene. Ci sono persone e figure professionali a cui mi rivolgo e invio le richieste, in modo che loro possano gestirle. Creare lavoro, in questo senso, è anche un modo per fare rete, perché la gente si invoglia di più.

Chiaramente, ne beneficiano le attività turistiche, quali alberghiere ed extra-alberghiere, come i B&B e i ristoranti. E’ tutto un circolo che ruota intorno alla questione turismo”.

Prima ha accennato che intendete lanciare il territorio anche sul campo della moda. In che maniera?

“Sì, sia nel campo della moda, sia dello spettacolo. E’ un luogo molto più inflazionato, dove costa poco la vacanza e ci sono posti bellissimi. Oggi, la fotografia, anche nel campo della moda, si avvale tantissimo del paesaggio. Qui ti ritrovi praticamente, all’improvviso, nella California, In Cappadocia, in Grecia. E’ un posto che puoi scegliere per diverse questioni, quali può essere un cortometraggio, un videoclip musicale, uno shooting particolare. Tra mare e montagne, qui c’è un quarto d’ora di distanza.

Hai tutto vicino ed è molto comodo come cosa. Speriamo che anche le fotografie possano essere un lancio. Stiamo lavorando con MassMedia Comunicazione anche in tal senso. Nel 2022 sappiamo che il turismo internazionale sarà aperto e dobbiamo essere pronti, programmando cosa fare quando tutto sarà normale.

Lavoriamo a moltissime cose con gli operatori e le agenzie tour operator, anche attraverso le interviste video, che adesso vanno molto in voga. Si è molto interessati alla Calabria, perché si è scoperto quante cose si sono perse in questi anni ed è un bene. Attraverso immagini o racconti, in internet, le persone guardano queste cose e, spinte dalla curiosità, si organizzano e vengono. Lo scorso anno, abbiamo avuto molti blog che sono venuti, lasciando ottimi feedback”.

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Pallottole e Petrolio: la Guerra in Nagorno Karabagh, di Emanuele Aliprandi (Stilum Curiae 08.05.21)

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, nell’indifferenza pressoché generale nella parte occupata dagli azeri della repubblica armena autodichiarata dell’Artsakh sta avendo luogo un genocidio culturale, come avete potuto leggere su questo collegamento e su questo. Mentre ancora l’Azerbaijan impedisce il ritorno alle loro famiglie di prigionieri di guerra e civili armeni rimasti intrappolati nell’area invasa. 

Dopo l’aggressione azera, compiuta con l’aiuto militare della Turchia, il Canada – è notizia di questi giorni – ha deciso di bloccare alcune forniture militari alla Turchia, alleata della Nato, perché quest’ultima, contrariamente agli impegni presi, ha fornito all’Azerbaijan gli strumenti – droni in particolare – equipaggiati con tecnologia canadese che hanno permesso agli uomini di Aliyev i successi riportati sul campo.

Vogliamo condividere con voi l’uscita di un libro scritto da uno specialista di quel settore. Emanuele Aliprandi. Ecco la scheda di presentazione:

“Il 27 settembre 2020 l’Azerbaigian, con il supporto logistico della Turchia e l’impiego di mercenari jihadisti provenienti dalla Siria, attaccava la piccola repubblica armena de facto dell’Artsakh (Nagorno Karabakh).

Quarantaquattro giorni di violenti combattimenti e bombardamenti, un accordo di tregua mediato dalla Russia a novembre, la vittoria per il regime di Aliyev e la pesante sconfitta armena.

Un dopoguerra ancora turbolento tra violazioni dell’accordo, prigionieri di guerra armeni non riconsegnati e problemi di confine tra le due ex repubbliche sovietiche.

Ancora una volta nel contenzioso su questo fazzoletto di terra nel Caucaso meridionale la diplomazia cede il passo alle armi.

Intrecci geopolitici, l’ombra inquietante della Turchia di Erdogan, questioni energetiche che toccano da vicino anche l’Italia, exit strategy mancate e future vie d’uscita alla ricerca di una pace ancora lontana.

Preceduta da una breve disamina storica e giuridica della questione, la cronaca drammatica di un conflitto che riguarda da vicino l’Italia molto più di quanto potrebbe apparentemente sembrare.

Emanuele Aliprandi da anni studia la questione armena e in particolare il caso del Nagorno Karabakh.

Su tale tema ha tra l’altro pubblicato “Le ragioni del Karabakh” (2010).

Questo è il link per l’acquisto dell’opera. 

 

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Quando un armeno persiano portò a Trieste il primo bagno pubblico (Triesteallnews 08.05.21)

08.05.2021 – 08.30 – Il nome della dinastia Hermet, il cui ultimo esponente Gabrio Hermet si è spento il 6 maggio 2018, viene solitamente associata alle fortune proto irredentiste di quel “Francesco” al quale non a caso nel novecento venne intitolata una via. In realtà piace ricordare come lascito della – un tempo – nutrita comunità armena triestina un’altra innovazione, a fine settecento: i primi bagni pubblici della città, tanto di acqua dolce, quanto di mare.
In origine ugonotti fuggiti in Persia dopo la revoca dell’editto di Nantes, gli Hermet scelsero di trasferirsi nella seconda metà del Settecento da Isfahan a Trieste, dove Gregorio Hermet (1741-1803) fu tra i pochi immigrati armeni che seppe amalgamarsi bene con la popolazione, ponendo le basi di una dinastia plurisecolare.
Venne così inaugurato, nell’ultimo quarto del settecento, il primo bagno pubblico “ad uso de’ Levantini”. Si trattava di una “fabbrica decorosa, comoda e dispendiosa” costruita nella zona della casa di Piazza San Giovanni n. 6 nel 1777 da Gregorio Hermet definito nei documenti del tempo “persiano di nazione armena”. Hermet volle costruire il bagno pubblico “considerando l’utilità e necessità pubblica per tener netti ed in salute li corpi umani e secondo le orientali costumanze”.
Il giornale L’Osservatore Triestino (1786) pubblicizzava questi “bagni sia all’europea che all’orientale, forniti di ottima biancheria e de’ comodi occorrevoli” garantendo che “ciascheduno rimarrà contentissimo della servitù che gli verrà prestata”.
Il bagno pubblico di Hermet perdurò per vent’anni almeno, affiancato nel 1782 da una “Caffettaria e Osteria”.

Tra gli stabilimenti che raccolsero l’eredità di Hermet nella prima metà dell’ottocento occorre ricordare il bagno Oesterreicher che s’impose rapidamente, dopo il 1823, come uno tra i più lussuosi. Il nome derivava dal proprietario dei fondi, Federico Oesterreicher; era uno stabilimento fornito “di decenti camerini provveduti di vasche marmoree”. Oggigiorno lo possiamo collocare in Salita del promontorio n. 5, tra Via del Lazzaretto Vecchio e Androna Sant’Eufemia.
L’edificio era stato progettato dall’architetto friulano Giovanni Battista de Puppi (1769-1868) con un giardino interno con due fontanelle, dotato di “bella e deliziosa vista” sul mare; l’architettura della facciata conserva ancora, nonostante sia dal ‘900 un magazzino, tracce della perduta eleganza neoclassica. Lo stabilimento offriva bagni d’acqua dolce e marina, calda e fredda; dopo aver rilassato le membra era possibile rifocillarsi nella vicina trattoria che forniva “le più gustose vivande, squisiti vini e birra”. Qui nacque il musicista Giuseppe Rota, figlio del locandiere; secondo la leggenda musicale intratteneva i clienti col suono della fisarmonica.

Ritratto di Francesco Hermet (1811-1883), dal Civico Museo del Risorgimento

L’amore dei triestini per i bagni – che fossero di mare o in acqua dolce – era sempre stato limitato a Trieste all’insufficiente approvvigionamento idrico che venne risolto solo negli anni Trenta (acquedotto dalla Val Medeazza, 1929), non a caso periodo d’oro per tanti bagni pubblici triestini.
Tuttavia, sull’onda dei consigli di medici e salutisti, già nella seconda metà dell’ottocento la città si popolò di istituzioni balneari, solitamente annesse agli alberghi; è il caso dell’Hotel de la Ville e dell’Hotel Garni. Presso il famoso de la Ville operavano, a inizi ‘900, bagni a vapore, russi e turchi. Nelle vicinanze di Via Giulia n. 8 era invece presente uno stabilimento “idroterapeutico” con bagni a vapore russi e inglesi.

La Belle Époque – quel periodo storico oggi tanto bistrattato, ma i cui begli edifici ancora innervano il nostro tessuto cittadino – regalò a Trieste il Bagno Romano, inaugurato il 12 dicembre 1909 dal magiaro Arpad Kiss tra le vie S. Apollinare e Pondares.
La zona era stata una necropoli durante il secondo secolo d.C. e nei decenni a cavallo tra settecento e ottocento aveva ospitato il cimitero della Comunità Greco-Illirica. Gli scavi infatti svelarono importanti resti romani che prontamente fornirono il nomignolo per l’edificio. Come le terme dell’antica Roma, il Bagno costituiva una piccola cittadella a sé stante. Vi si trovavano buffet, sale di lettura, barbiere, manicure, pedicure, spogliatoio, cabine con vasche all’americana, due piscine con acqua fredda e calda in movimento, docce a pressione, un locale per il massaggio, il bagno russo con una gradinata che permetteva la gradazione delle temperature, due sale per il bagno di aria calda e infine un salottino per il riposo.
L’arredamento era particolarmente opulento, con decorazioni nelle sale e piscine di Silvio Buzzi, mobilia di Salcano e maioliche della ditta Greinitz. Chicca finale: una lavanderia a vapore garantiva un servizio di lavatura e stiratura dei vestiti del cliente, mentre questi si rilassava nelle vasche.

Nel 1930 lo stabilimento offriva anche una sezione di Cura, con attrezzature per l’idroterapia, la termoterapia (bagni di luce e di fango) e le fangature. Quest’ultime erano eseguite coi fanghi originali delle Terme Preistoriche di S. Pietro Montagnon (Padova).
Dopo una momentanea pausa per i danni inferti dalla Seconda Guerra Mondiale, il Bagno Romano riaprì il 15 febbraio 1951 rinnovato con due nuove piscine, aria condizionata e un impianto di acqua distillata e depurata. Il rinnovato bagno a vapore, le oltre 250 cabine, le sale di riposo, di lettura, di massaggi e pedicure recuperavano l’eredità primo novecentesca, mentre la sezione Cura con i bagni di luce e la marconiterapia era aggiornata con le ultime novità scientifiche.
In definitiva questo “primo istituto di bellezza e ginnastica correttiva” era giustificato nel definirsi lo “stabilimento più grande e più bello d’Italia”.
Eppure ebbe vita breve: chiuse infatti appena sei anni dopo, nel 1957.

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Zeno Saracino, La storia (dimenticata) della prima pasticceria armena di Trieste, Trieste All News, 19 settembre 2020
Zeno Saracino, Giacomo Ciamician: un armeno “triestino” profeta dell’energia solare, Trieste All News, 5 settembre 2020

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Diplomazia pontificia, le questioni Palestina e Nagorno Karabakh (Acistampa 08.05.1)

La visita del ministro degli Esteri palestinese in Segreteria di Stato vaticana lo scorso 6 maggio ha rimesso al centro il tema del Medio Oriente nell’agenda della Santa Sede. Non che il tema sia mai stato messo da parte, ma gli incontri personali hanno sempre il pregio di sollevare questioni, e sviluppare rapporti. È stato in Segreteria di Stato anche l’assistente al primo vice presidente di Azerbaijan Elchin Ambirbayov, che in una conversazione con ACI Stampa ha voluto stabilire il punto di vista azero sul conflitto in Nagorno Karabakh e sui rapporti con l’Armenia.

Altre notizie: in Turchia Erdogan ha incontrato i presidenti delle confessioni religiose presenti nel Paese; in Venezuela, il presidente Maduro ha incontrato il vertice della Conferenza Episcopale; l’Europa ha finalmente un nuovo inviato speciale per la libertà religiosa.

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FOCUS NAGORNO KARABAKH

L’Azerbaijan cerca un nuovo inizio con l’Armenia

Elchin Amirbayov è stato il primo ambasciatore di Azerbaijan presso la Santa Sede. È stato a Roma tra il 6 e il 7 maggio, come assistente al primo-vicepresidente, per una serie di incontri istituzionali in Segreteria di Stato vaticana.

Parlando con ACI Stampa, Amirbayov definisce il recente conflitto in Nagorno Karabakh come una opportunità, e anche una opportunità per ristabilire relazioni diplomatiche con l’Armenia.

“Come sa, lo scorso novembre, c’è stato il cessate il fuoco dopo 44 giorni di conflitto, ed è stato interessante per me fornire ai miei interlocutori le ultime informazioni”. Amirbayov ha potuto incontrare sia il Cardinale Parolin che l’arcivescovo Gallagher.

Amirbayov ha insistito sugli ottimi rapporti che l’Azerbaijan ha con i dicasteri vaticani, e in particolare con il Pontificio Consiglio della Cultura, con il quale ha curato il restauro di alcuni importanti mosaici nelle catacombe.

Ambirbayov ha sottolineato che l’Azerbaijan è “conosciuta per il suo grado di tolleranza religiosa, ha messo in luce varie iniziative con i Musei vaticani, ha detto che la guerra “ha lasciato il conflitto dietro di noi e si sono aperte nuove possibilità per cercare di ristabilire pace e stabilità, cercando possibilmente anche riconciliazione tra Armenia e Azerbaijan.

Amirbayov ha notato che della nuova politica economica potrebbe beneficiare anche la stessa Armenia, nonostante questa – lamenta l’ambasciatore – a volte cerchi di usare la carta religiosa.

Anche da parte azera i proclami sono stati duri: il presidente Alyiev ha visitato la cattedrale di Shusha, danneggiata dalle bombe durante la guerra, in quella che sembrava essere la rivendicazione di un trofeo di guerra, e recentemente è tornato a parlare di un possibile uso della forza per respingere gli armeni.

È davvero questa riconciliazione? Amirbayov spiega che no, il presidente non ha trattato la cattedrale di Shusha come fosse un trofeo di guerra, ma vi è andato perché ci sono edifici che sono stati danneggiati durante la guerra, e ha anche organizzato i lavori di ricostruzione.

Sul possibile uso della forza, Amirbayov sottolinea che questo deve essere contestualizzato nel discorso ad un popolo che ha sofferto 30 anni di occupazione e distruzione.

Ma ora, dice l’ambasciatore, il “destino di dà l’opportunità di stendere una mano verso l’Armenia”, comunque accusata di usare una retorica di guerra in vista di nuove elezioni.

Amirbayov nota che, nel territorio del Nagorno Karabakh, gli armeni hanno fatto una pulizia etnica durissima,

Il rappresentante del vicepresidente azero risponde anche sul tema del cosiddetto “genocidio culturale” che starebbe avendo luogo in Nagorno Karabakh. Ha detto che “non crede che alla Santa Sede apprezzino o siano preoccupati per la preservazione del materiale cristiano, quanto piuttosto per la preservazione di tutte le eredità religiose.

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