Armenia-Giordania: re Abdullah II lunedì ad Erevan, previsto incontro con presidente (Agenzianova 07.02.20)

Armenia-Giordania: re Abdullah II lunedì ad Erevan, previsto incontro con presidente
Erevan, 07 feb 16:45 – (Agenzia Nova) – Il re di Giordania, Abdullah II, si recherà in visita ufficiale in Armenia lunedì prossimo su invito del presidente Armen Sarkissian. Lo riferisce l’agenzia di stampa “Armenpress”. Stando alle informazioni diffuse, è in programma una cerimonia di benvenuto al palazzo presidenziale di Erevan, a cui seguirà un colloquio bilaterale tra i due capi di Stato. Sono previsti anche incontri con il primo ministro, Nikol Pashinyan, e con il patriarca della Chiesa armena, Karekin II.

Summiti degli Armeni di tutto il mondo a Venezia. Primo grande congresso dedicato al rapporto tra Fede ed Opere (Ilsismografo 07.02.20)

I rappresentanti delle comunità armene di tutto il mondo sono arrivati a Venezia per dare vita al primo grande congresso dedicato al rapporto tra Fede ed Opere. Si tratta di un laboratorio di idee e progetti da sviluppare, mai tentato prima, all’interno di una cornice religiosa comune. Per tre giorni sull’Isola di San Lazzaro degli Armeni vengono affrontati tutti gli aspetti inclusi nel passo biblico di Giacomo: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”. Il settore filantropico, umanitario, caritativo non possono, dunque, essere slegati, scollegati o addirittura ignoti a una dimensione spirituale.Alla conferenza prendono parte rappresentanti delle comunità armene appartenenti a diversi ambiti. Accademici, sacerdoti, volontari, giornalisti, scrittori, imprenditori, artisti nonché rappresentanti di organizzazioni pubbliche e di beneficenza. Ognuno di loro parla della propria esperienza. Le discussioni sono accompagnate da quattro sessioni tematiche, strutturate in modo da coinvolgere attivamente gli altri partecipanti nella presentazione dell’argomento. Il focus è indirizzato alla fede in epoca digitale, alla fede nelle grandi metropoli – tenendo conto che nei prossimi 20 anni lo spostamento delle popolazioni si concentrerà soprattutto nelle megalopoli. Inoltre oggi gia’ il 90% degli armeni vive in grandi contesti urbani. Infine le sessioni includono dibattiti sulle opere e la preghiera.
Il progetto nel suo complesso è stato intitolato “Fede ed Opere” poiché la fede e la sua trasmissione sara’ rafforzata e nutrita nella vita di ogni individuo solo coniugando la preghiera e, al tempo stesso, una tangibile azione caritativa.
La Congregazione Mechitarista situata sull’isola di San Lazzaro dal XVIII secolo offre un esempio pratico di come il rapporto tra “fede-opere” è stato tramandato di generazione, in generazione fino a rendere continuativa e applicabile anche oggi questa formula.
La sfida più impegnativa che le comunità cristiane hanno è riuscire ad esprimere la propria fede all’interno di società secolarizzate. Lo scopo del summit è promuovere un crocevia di idee, capace di suscitare discussioni approfondite, provocazioni, esortazioni tali da poter essere trasmesse alla società di domani mediante una visione di valori e in una ottica spirituale.
Il convegno si svolge il 7 e l’8 febbraio sotto il patrocinio della Congregazione Mechitarista e della Delegazione Patriarcale dell’Europa Occidentale della Chiesa Apostolica Armena e, per iniziativa della Fondazione “Madre di Dio” (Yerevan).
Tra gli altri partecipano:
Khajag Barsamian, arcivescovo e responsabile in Europa occidentale della Chiesa Armena
Levon Zekiyan, arcivescovo per gli armeni cattolici a Costantinopoli e rappresentante pontificio presso la Congregazione Mechitarista
Vahan Hovhannisian, vescovo armeno a Parigi
Bagrat Galstanyan, vescovo della diocesi di Tavush in Armenia
Padre Hyacinthe Destivelle, del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unita’ dei Cristiani
Professoressa Roberta Ervine, docente al Seminario Teologico Armeno a New York
Professoressa Rachel Goshgarian, storica all’università di Lafayette, Usa
Dottor Karen Baghdasarov, imprenditore e membro del board della diocesi armena di Mosca
Haroute Baghamian, responsabile della associazione giovanile del Patriarcato armeno di Gerusalemme
Arpina Nakashian, responsabile della educazione della diocesi di New York
Dottor Zaven Khanjian, direttore della Armenian Missionary Association of America
Professor Abraham Terian, teologo
Padre Shahe Ananyan, responsabile per i rapporti ecumenici della Chiesa Armena
(Fonte: cortesia di FG)

A Venezia summit delle comunità armene

(ANSA) – ROMA, 7 FEB – I rappresentanti delle comunità armene di tutto il mondo sono arrivati a Venezia per dare vita al primo grande congresso dedicato al rapporto tra Fede ed Opere. Per tre giorni sull’Isola di San Lazzaro degli Armeni vengono affrontati tutti gli aspetti inclusi nel passo biblico di Giacomo: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”. “Il settore filantropico, umanitario, caritativo non possono essere slegati, scollegati o addirittura ignoti a una dimensione spirituale”, spiegano gli organizzatori. Alla conferenza prendono parte rappresentanti delle comunità armene appartenenti a diversi ambiti. Accademici, sacerdoti, volontari, giornalisti, scrittori, imprenditori, artisti nonché rappresentanti di organizzazioni pubbliche e di beneficenza. Le discussioni sono accompagnate da quattro sessioni tematiche. Il focus è indirizzato alla fede in epoca digitale e alla fede nelle grandi metropoli. Infine le sessioni includono dibattiti sulle opere e la preghiera


Gli alunni del “Vespucci” di Molfetta premiati a Torino (Quindici Molfetta 06.02.20)

MOLFETTA – Sono stati premiati a Torino, martedì 4 febbraio, dal Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina e dalla Sindaca di Torino Chiara Appendino gli studenti Michele GesmundoIgnazio Cirillo e Leonardo De Gennaro, dell’Istituto Nautico “Vespucci” di Molfetta, guidati dal prof. Saverio Binetti e accompagnati dal Dirigente scolastico Prof. Carmelo D’Aucelli, durante le celebrazioni della terza Giornata Nazionale delle vittime civili delle guerre e dei conflitti nel mondo, presso l’Arsenale della Pace.I tre studenti hanno partecipato alla terza edizione del concorso nazionale indetto dall’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) dal titolo: “Tante guerre, un’unica vittima: la popolazione civile”, col patrocinio della Camera dei Deputati, della Commissione Europea, del Ministero degli Affari Esteri e della Città di TorinoGli studenti sono risultati vincitori nella sezione video, presentando un lavoro dal titolo: “Una terra senza pace. Un luogo di pace”, mostrando come sia triste apprendere notizie dalle aree di guerra orientali dove si confrontano gli eserciti non curanti delle popolazioni civili. Oggi il popolo curdo viene scacciato dalla sua terra, perseguitato dai suoi nemici, trascurato dai suoi alleati, nella indifferenza generale.Così questo tragico quadro umanitario ci rammenta un evento del passato, di quasi cento anni fa, ambientato nella stessa area geografica: il genocidio degli armeni ad opera del movimento dei “Giovani turchi”. Una pulizia etnico religiosa che costò la vita a quasi un milione e mezzo di civili.  Eppure di quel tragico evento, cancellato dalla memoria collettiva, esiste una luminosa eredità, ricordata da una stele eretta a pochi passi dalla Stazione Marittima della città di Bari, fatta di accoglienza e solidarietà.Nel 1926, a Bari nacque il villaggio “Nor Arax”, situato alla periferia della città, edificato con i fondi dei benefattori baresi e del governo dell’epoca, dove vennero ospitati centinaia di armeni scampati alle stragi di Smirne. La comunità armena consapevole di non poter più ritornare nella propria patria si costruì una nuova vita a Bari, creando una attività produttiva fondata sulla tradizione della tessitura dei tappeti pregiati che ancora oggi continua ad esercitare la Famiglia Timurian, integrandosi nella economia, nella società e nella cultura del luogo. Dopo il loro arrivo, alcuni profughi armeni da Bari raggiunsero altri paesi europei e tra questi anche la famiglia del famoso cantautore Charles Aznavour e la melodia di una sua famosa canzone “Ed io tra di voi” è stata scelta come sottofondo musicale.

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Card. Sandri ha ricordato san Biagio protettore dei malati (Korazym 06.02.20)

S. Biagio nacque a Sebaste in Armenia, passò la giovinezza fra gli studi, dedicandosi in modo particolare alla medicina. Al letto dei sofferenti curava le infermità del corpo, e con la buona parola e l’esempio cristiano cercava pure di risanare le infermità spirituali. Fu medico e vescovo di Sebaste in Armenia e che il suo martirio è avvenuto durante le persecuzioni dei cristiani, intorno al 316, nel corso dei contrasti tra gli imperatori Costantino (Occidente) e Licino (Oriente).

Nella sua città natale, dove svolse il suo ministero vescovile, si narra che operò numerosi miracoli, tra gli altri si ricorda quello per cui è conosciuto, ossia, la guarigione, avvenuta durante il periodo della sua prigionia, di un ragazzo da una lisca di pesce conficcata nella trachea. Inoltre san Biagio fa parte dei 14 santi ausiliatori, ossia, quei santi invocati per la guarigione di mali particolari.

Le reliquie di San Biagio sono custodite nella Basilica di Maratea, città di cui è santo protettore: vi arrivarono nel 723 all’interno di un’urna marmorea con un carico che da Sebaste doveva giungere a Roma, viaggio poi interrotto a Maratea a causa di una bufera.

In occasione della festa il card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ha celebrato la messa presso la chiesa dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari:

“L’atto del nostro credere non prende infatti principio da una nostra buona disposizione d’animo o da uno sforzo di volontà, ma anzitutto dal dono di grazia che ci fa il Signore chiamandoci all’incontro con Lui; quella stessa grazia che opera secondo i carismi e le vocazioni dentro il Corpo di Cristo che è la Chiesa, e in modo singolare con la forza che ricevono i martiri di confessare il Maestro e Signore sino all’effusione del sangue col dono della propria vita.

Del dono della fede fatto a tutti noi e del coraggio intrepido della testimonianza di san Biagio rendiamo grazie al Signore, e chiediamo di esserne sempre consapevoli e responsabili”.

Ha sottolineato la pietà popolare del santo per i miracoli: “La festa di san Biagio è però entrata nelle corde della pietà popolare per i miracoli a lui attribuiti, specialmente il più famoso che lo ha reso protettore contro i mali della gola: il gesto di compassione, come il buon samaritano, operato dal Santo Vescovo mentre era condotto sulla strada verso il martirio, che lo fece fermare dinanzi ad una madre disperata perché suo figlio stava morendo soffocato.

Nel momento in cui Biagio poteva essere preoccupato per la sua vita che stava per essergli tolta, risplende il disinteresse con cui ancora una volta si consegna, donando il proprio tempo e la propria preghiera dinanzi ad un povero e un bisognoso di salvezza”.

Infine ha sottolineato il valore della guarigione non solo esteriore, ma soprattutto interiore: “Il rimedio dei mali della gola però non è soltanto quello esteriore, soprattutto in questi tempi di virus sconosciuti che si diffondono nel mondo, realtà drammatica per la quale eleviamo la preghiera a Dio per tutte le popolazioni coinvolte e per i soccorritori, medici, infermieri e ricercatori.

Il male più grave che non può essere guarito da un vaccino è quello del veleno che può sgorgare dal cuore degli uomini, quando seminano divisioni e maldicenze, giungono a calunniare, pensando di compiere un’opera di giustizia e seminando confusione e disorientamento: la mormorazione, il dubbio instillato negli altri (soprattutto i piccoli e i semplici) ogni parola o pensiero che non costruisce la comunione, ma disperde il gregge”.

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L’Azerbaigian insabbia crimini e atrocità commesse sugli armeni. Di Victoria Baghdassarian (La Verità 04.02.20)

Il Patriarca armeno Sahak II: attendo che anche in Turchia siano riconosciute le sofferenze del nostro popolo (Agenzia Fides 04.02.20)

Istanbul (Agenzia Fides) – Sahak II Masalyan, nuovo Patriarca armeno apostolico di Costantinopoli, attende e desidera vedere presto anche in Turchia “il riconoscimento delle sofferenze del nostro popolo” superando le incomprensioni e gli equivoci di chi oggi come in passato rappresenta le comunità minoritarie presenti in Turchia come delle “élite felici e ricche, mentre questo non è affatto vero, e non è mai stato vero”. Il Patriarca, senza mai usare l’espressione ‘Genocidio armeno’, il Patriarca ha ammesso in un’ampia intervista pubblicata dal giornale turco Hurriyet che la data del 24 aprile, scelta per commemorare ogni anno i massacri di armeni perpetrati tra 1915 e 1916 nella penisola anatolica, in Turchia è stata a lungo considerato “un tabù, un evento divisivo”, fino a quando, nel 2015, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan “ci ha inviato una lettera di condoglianze, e per la prima volta siamo stati in grado di celebrare le messe nelle nostre chiese per i nostri morti”. Nella stessa intervista, pubblicata lunedì 3 febbraio, il Patriarca armeno di Costantinopoli ha sottolineato che occorre uscire dalla logica antagonistica del “noi contro loro”, riconoscendo la comune appartenenza alla famiglia umana, riscontrabile anche dal punto di vista scientifico, visto che “la nostra costituzione genetica è la stessa” e “siamo tutti degli ‘Homo sapiens’ “. Il Patriarca ha anche paragonato la recente, tragica esperienza della Siria alle lacerazioni sperimentate da tutta l’umanità durante i conflitti mondiali, quando il virus del nazionalismo “entrò nelle nostre case, e tutti volevano costruire il proprio “stato-nazione” alle spese degli altri. Tra le diverse considerazioni, il Patriarca armeno ha ribadito di considerare l’Akp – il Partito di Erdogan al potere in Turchia dal 2002 – come una formazione politica dotata di una maggiore “sensibilità verso i cristiani”, soprattutto in confronto a stagioni passate, quando “non potevamo nemmeno attaccare un chiodo nelle nostre chiese”, (GV) (Agenzia Fides 4/2/2020).

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Armenia: premier Pashinyan incontra presidente Sarkissian, focus su agenda nazionale (Agenzianova 04.02.20)

Erevan, 04 feb 13:57 – (Agenzia Nova) – Il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha avuto un incontro di lavoro con il capo dello Stato, Armen Sarkissian. Lo si apprende da un comunicato diffuso dal servizio stampa della presidenza di Erevan, in cui si aggiunge che le due parti hanno discusso i punti principali dell’agenda nazionale concordando su quanto sia importante incontrarsi regolarmente per parlare delle questioni più significative sul piano regionale e internazionale. “Sono molto felice di poter confermare gli ottimi risultati economici che sono stati raggiunti nel corso del 2019: la crescita non è mai stata così alta dal 2011, e stiamo lavorando per proseguire il processo di riforma istituzionale”, ha detto il premier, auspicando una “nuova fase di sviluppo nel corso del 2020”. (Res)

Vittime dei genocidi trasmettono il trauma ai figli, lo dicono studi compiuti su armeni ed ebrei sopravvissuti (Ilmessaggero 03.02.20)

Roma – Per decenni chi è sopravvissuto all’Olocausto ha taciuto. C’è chi si sentiva in colpa per essere uscito vivo dall’abisso, chi aveva paura di non essere creduto. Schiacciati dal peso dei ricordi i sopravvissuti hanno evitato di parlare della propria esperienza. Persino in famiglia. Un silenzio obbligato. Eppure la «congiura del silenzio» ha trasmesso ugualmente, di generazione in generazione, il trauma attraverso la potenza del linguaggio emotivo. Lo shock è passato da padre in figlio. Oggi c’è chi studia sistematicamente queste lesioni collettive che hanno accomunato i sopravvissuti al genocidio armeno (1915-1919) avvenuto sotto il dominio ottomano in Turchia, per un totale di 1 milione e mezzo di morti, sia i sopravvissuti alla Shoah, oltre 6 milioni di persone sterminate da Hitler. In Francia sono famosi i lavori di Janine Altounian mentre in Italia è Alberto Sonnino, uno degli psichiatri che lavora attorno a questo buco nero con un team focalizzato a studiare gli effetti generazionali del genocidio.

APPROFONDIMENTI

Alcuni giorni fa, al Quirinale per la Giornata della Memoria, lei ha spiegato perchè i sopravvissuti non sono riusciti a parlare subito. Lo hanno fatto solo dopo decenni. Perché?
«C’è una lunga letteratura ormai. Se riascoltiamo le testimonianze si avverte un dato di sottofondo: queste persone non si sentivano ascoltate o credute, altre si sentivano in colpa per essersi salvate rispetto a chi non ce l’aveva fatta. Parlare significava riprendere contatti con una vicenda traumatica. Forse non avevano nemmeno interlocutori disponibili; a volte è difficoltoso affrontare i ricordi persino con medici specializzati. E’ un vissuto incandescente che necessita di empatia. Dori Laubn, un neuropsichiatra israeliano, anch’egli scampato alle camere a gas ha lasciato importanti studi a riguardo. In particolare su alcuni sopravvissuti ricoverati in istituti psichiatrici che avevano iniziato a parlare dopo trent’anni. Alla domanda: guardi che dalla sua cartella clinica questo non risulta, perché non ne ha parlato prima, i pazienti rispondevano la stessa cosa. Perché nessuno ce lo ha mai chiesto».
Sembra paradossale, visto che la Shoah è stata la più grande ferita del Novecento…
«Se in genere è difficile liberarsi di uno shock in una situazione normale, figuriamoci in una realtà abnorme e crudele come quella. Gente sradicata dalle proprie case, spogliata dell’identità, deportata in luoghi di morte, tutti testimoni dell’uccisione dei fratelli, dei nonni, dei genitori. Gente che quando è tornata libera, salvandosi, dopo il 1945, ha dovuto scontrarsi con un’altra emarginazione. Nessuno li voleva ascoltare. Era così deforme il loro racconto che venivano presi quasi per matti. Questo ci fa capire che ascoltare e recepire un vissuto del genere non è facile. Ricordo Shlomo Venezia che diceva che quando cercava di parlare del suo vissuto gli sembrava di non essere creduto, vedeva con la coda dell’occhio la diffidenza».

C’era un mondo esterno che non voleva saperne?
«Ora le cose sono cambiate ma per lungo tempo non si era pronti. Basti pensare che il primo incontro formale, pubblico, organizzato tra la comunità ebraica di Roma e i sopravvissuti alla Sinagoga, è avvenuto solo nel 2010. Come se si dovessero incontrare dei vecchi amici che non avevano avuto la possibilità di farlo prima. Così come il primo viaggio organizzato dalla Comunità in nei campi di sterminio che risale solo al 2008».
La congiura del silenzio però fu rotta da Primo Levi…
«Lui fu una eccezione anche se inizialmente l’editore Einaudi gli restituì una prima bozza perché affermava che quel testo fosse troppo forte. La maggior parte dei sopravvissuti è rimasta nel silenzio per decenni».
Il trauma si trasmette da padre in figlio?
«Ciò che ha un effetto patogeno è quello che viene espresso segretamente. Il silenzio procura più danni che non un contenuto verbalizzato senza censure, senza dinieghi. Esiste un contenuto trasmesso inconsciamente. Rimangono tracce. Le emozioni si trasmettono. Le emozioni non riconosciute sono quelle che veicolano più profondamente. Anche la biologia è di sostegno a questo aspetto. Sono stati fatti studi sui figli dei sopravvissuti all’Olocausto: davano risposte avanti gli stessi picchi nei livelli di cortisolo mostrando un meccanismo biologico alterato. Come se fossero loro i portatori primari degli effetti traumatici».
Il fatto che nel dopoguerra non ci sia stato un vero processo storico sulle responsabilità a vari livelli delle persecuzioni ebraiche in Italia, ha inciso sul silenzio di tanti sopravvissuti?
«Discorso lungo e difficile. Solo oggi ci si comincia a rendere conto di quanto i colpi di spugna del passato, la mancanza di processi e le amnistie – in Italia penso a quella che porta il nome di Togliatti del 1946 – abbiano portato a non maturare quella consapevolezza collettiva sul senso di colpa. E’ sicuramente mancata una spinta catartica che non ha aiutato le vittime».
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San Biagio, un santo miracoloso (Vaticano.com 03.02.20)

San Biagio un santo miracoloso. Il giorno seguente la “Candelora”, brilla il santo martire Biagio. Vescovo della comunità armena al tempo di Costantino. Martire in un momento storico in cui la libertà religiosa splendeva nell’Impero romano. Occorre ricordare come in Oriente regnasse Licinio e tra i due imperatori non correva buon sangue. Difatti, sarebbe questa la discordia e la causa di alcune persecuzioni locali. In Oriente verso i cristiani, videro coinvolto anche san Biagio, oggi venerato sia dalla Chiesa cattolica che ortodossa.

Di lui sappiamo poco, secondo la tradizione studiò medicina. Nella giovinezza si prodigò nel curare i sofferenti, cercando inoltre di condurli a Dio con la parola e l’esempio. Nel suo cuore ardeva il desiderio di diventare monaco. Alla morte del vescovo della sua città natale, Sebaste, fu eletto come successore, finché nel 316 i soldati dell’imperatore lo arrestarono.

Passò in mezzo alla folla che lo acclamava. Tra la gente si imbatté in una donna che teneva in braccio suo figlio morente perché una spina di pesce gli si era conficcata in gola e stava soffocando. Supplicava il Santo di pregare per la guarigione del bambino. All’istante avvenne il prodigio per il quale San Biagio viene ancora oggi invocato per i mali alla gola, attraverso il rito della “benedizione della gola” che si compie nelle celebrazioni parrocchiali, con due candele incrociate (anticamente era prevista l’unzione con l’olio benedetto).

Davanti al giudice il vescovo Biagio rifiutò di sacrificare agli idoli e di rinnegare la sua fede in un unico Dio. Per questo fu percosso, sospeso ad un tronco d’albero e scorticato vivo con un pettine di ferro. Nonostante queste torture si mostrava fermo e deciso ad affermare la sua fede in Cristo. Il giudice pertanto decise di farlo gettare in un lago. Tuttavia egli iniziò a camminare sulle acque e raggiunse miracolosamente la riva. Allora fu deciso per la decapitazione.

La tradizione racconta che alcune reliquie venissero imbarcate per Roma quattro secoli dopo. Una tempesta costrinse la nave a fermarsi a Maratea dove il santo venne accolto in una piccola chiesa (l’attuale Basilica), sul monte che prenderà il suo nome e sulla cui vetta nel 1963 verrà eretta la statua del Redentore alta 21 metri. Da allora molti luoghi sono stati intitolati a San Biagio, soprattutto in Italia, ma anche in Europa e in America.

Nel 1941 fu operata una ricognizione ufficiale dell’urna marmorea contenente i resti mortali del santo. Furono rinvenuti: il torace, una parte del cranio, l’osso di un braccio e un femore. In più di un’occasione la statua di Maratea e le pareti della basilica si ricoprirono di un liquido giallastro. I fedeli raccolgono il liquido per i suoi poteri taumaturgici e Papa Pio IV (nel 1563 vescovo di Cassano), riconobbe questa sostanza come “manna celeste”.

Festeggiato il 3 febbraio, giorno del suo martirio, Maratea celebra il proprio patrono per otto giorni. Dal sabato precedente la prima domenica di maggio, fino alla seconda domenica di maggio. I rituali si rifanno a tradizioni secolari.

Ma ci sono tuttavia tradizioni molto più sobrie, come quella di Milano. La statua del santo è posta in una delle guglie del Duomo, qui si mangiano i panettoni lasciati in avanzo a Natale. A Cannara, in provincia di Perugia, tra i giochi popolari c’è quello del “Ruzzolone” che consiste nel far rotolare più a lungo possibile delle forme di formaggio per le vie del centro storico. Si termina il rito con una solenne processione in onore del santo.

A Salemi, si preparano i “caddureddi”, dei piccoli pani azzimi a forma di “gola”, benedetti e distribuiti ai fedeli, in ricordo dell’intervento prodigioso del santo (anche protettore delle messi) durante una grave carestia causata da un’invasione di cavallette.

A Fiuggi, si bruciano davanti al municipio le “stuzze”, grandi falò, in ricordo del giorno in cui apparvero delle finte fiamme nella città. Le fiamme indussero i nemici che attendevano fuori dalle mura a ritirarsi pensando che gli alleati li avessero preceduti.

San Biagio è il santo dei Miracoli amato da cattolici ed ortodossi!

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Il Santo del giorno, 3 Febbraio: San Biagio e la benedizione della gola

Giorno legato alla Festa di ieri quella della Candelora. Oggi con  le candele benedette ieri ed intrecciate a mò di croce di S: Andrea, si benedice la gola dei credenti.

Da questa usanza, si crede che il cognome: Biagi, come quello di Biagioni, Biagiotti, Biagetti e simili, sia stato affibbiato originariamente a persone balbuzienti!

Il martire Biagioè ritenuto dalla tradizione vescovo della comunità di Sebaste in Armenia al tempo della “pax” costantiniana. Il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è perciò spiegato dagli storici con una persecuzione locale dovuta ai contrasti tra l’occidentale Costantino e l’orientale Licinio. Il fatto sembra dovuto al dissidio scoppiato tra i due imperatori-cognati nel 314, e proseguito con brevi tregue e nuove lotte fino al 325, quando Costantino farà strangolare Licinio a Tessalonica (Salonicco).

Nell’VIII secolo alcuni armeni portarono le reliquie a Maratea (Potenza), di cui è patrono e dove è sorta una basilica sul Monte San Biagio. Il suo nome è frequente nella toponomastica italiana e di molte nazioni, a conferma della diffusione del culto. Avendo guarito miracolosamente un bimbo cui si era conficcata una lisca in gola, è invocato come protettore per i mali di quella parte del corpo. A quell’atto risale il rito della “benedizione della gola”, compiuto con due candele incrociate e legate tra di loro: benedette come tutte quelle usate in chiesa, il giorno prima nella cerimonia della Candelora

Martirologio Romano: San Biagio, vescovo e martire, che in quanto cristiano subì a Sivas nell’antica Armenia il martirio sotto l’imperatore Licinio.

Poco si conosce della vita di San Biagio, di cui oggi si festeggia la memoria liturgica.

Si sa che fu medico e vescovo di Sebaste in Armeniae che il suo martirio è avvenuto durante le persecuzioni dei cristiani, intorno al 316, nel corso dei contrasti tra gli imperatori Costantino (Occidente) e Licino (Oriente).

Catturato dai Romani fu picchiato e scorticato vivo con dei pettini di ferro, quelli che venivano usati per cardare la lana, ed infine decapitato per aver rifiutato di abiurare la propria fede in Cristo. Si tratta di un Santo conosciuto e venerato tanto in Occidente, quanto in Oriente. Il suo culto è molto diffuso sia nella Chiesa Cattolica che in quella Ortodossa.

Nella sua città natale, dove svolse il suo ministero vescovile, si narra che operò numerosi miracoli, tra gli altri si ricorda quello per cui è conosciuto, ossia, la guarigione, avvenuta durante il periodo della sua prigionia, di un ragazzo da una lisca di pesce conficcata nella trachea. Tutt’oggi, infatti, il Santo lo si invoca per i “mali alla gola”.

Inoltre San Biagio fa parte dei quattordici cosiddetti santi ausiliatori, ossia, quei santi invocati per la guarigione di mali particolari.Venerato in moltissime città e località italiane, delle quali, di molte, è anche il santo patrono, viene festeggiato il 3 febbraio in quasi tutta la penisola italica.

È tradizione introdurre, nel mezzo della celebrazione liturgica, una speciale benedizione alle “gole” dei fedeli, impartita dal parroco incrociando due candele (anticamente si usava anche olio benedetto). Interessanti sono anche alcune tradizioni popolari tramandatesi nel tempo in occasione dei festeggiamenti del Santo. Chi usa, come a Milano, festeggiare in famiglia mangiando i resti dei panettoni avanzati appositamente a Natale,e chi prepara dei dolci tipici con forme particolari, che ricordano il santo, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. C’è una sua statua anche su una guglia del Duomo di Milano, la città dove in passato il panettone natalizio non si mangiava mai tutto intero, riservandone sempre una parte per la festa del nostro santo. (E tuttora si vende a Milano il “panettone di san Biagio”, che sarebbe quello avanzato durante le festività natalizie).

A Lanzara, una frazione della provincia di Salerno, per esempio, è tradizione mangiare la famosa “polpetta di San Biagio”.

Nella città di Salemi, invece, si narra che nel 1542 il Santo salvò la popolazione da una grave carestia, causata da un’invasione di cavallette che distrusse i raccolti nelle campagne, intercedendo ed esaudendo le preghiere del popolo che invocava il suo aiuto (san Biagio, infatti, oltre che essere protettore dei “mali della gola” è anche protettore delle messi); da quel giorno a Salemi, ogni anno il 3 di febbraio, si festeggia il Santo preparando i cosiddetti “cavadduzzi”, letteralmente “cavallette”, per ricordare il miracolo, e i “caddureddi” (la cui forma rappresenta la “gola”), che sono dei piccoli pani preparati con acqua e farina, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. Viene organizzata una spettacolare rappresentazione del “miracolo delle cavallette” che si conclude con l’arrivo alla chiesa del Santo per deporre i doni e farsi benedire le “gole”.

A Cannara, invece, un comune della provincia di Perugia, i festeggiamenti del Santo sono occasione per sfidarsi in antichi giochi di abilità popolani come il “Ruzzolone”, ossia, far rotolare più a lungo possibile delle forme di formaggio per le vie del centro storico, o la famosa corsa dei sacchi. A Fiuggi, invece, la sera prima, si bruciano nella piazza del paese davanti al municipio le “stuzze”, delle grandi cataste di legna a forma piramidale, in ricordo del miracolo avvenuto nel 1298 che vide San Biagio far apparire delle finte fiamme nella città, tanto da indurre le truppe nemiche, che attendevano fuori le mura pronte ad attaccare, a ripiegare pensando d’esser state precedute dagli alleati.

Le reliquie di San Biagio sono custodite nella Basilica di Maratea, città di cui è santo protettore: vi arrivarono nel 723 all’interno di un’urna marmorea con un carico condotto da armeni, che da Sebaste doveva giungere a Roma, viaggio poi interrotto a Maratea, unica città della Basilicata che si affaccia sul Mar Tirreno, a causa di una bufera.

Si racconta che la le pareti della attuale Basilica, sull’altura detta ora Monte San Biagio, sulla cui vetta fu eretta nel 1963 l’enorme statua del Redentore, alta 21 metri, e più avanti anche la statua in cima alla Basilica, stillarono una specie di liquido giallastro che i fedeli raccolsero e usarono per curare i malati. Già Papa Pio IV nel 1563, allora vescovo, riconobbe tale liquido come “manna celeste”.

Non a caso a Maratea il Santo assume una valenza particolare e viene festeggiato per ben 2 volte l’anno; il 3 febbraio, come di consueto, e il giorno dell’anniversario della traslazione delle reliquie, dove i festeggiamenti durano 8 giorni, dal primo sabato di maggio fino alla seconda domenica del mese.

Ma sue reliquie sono sparse un po’ dovunque nel Sud Italia: forse la più particolare ad Avetrana di Taranto, purtroppo diventata famosa alla recente cronaca nera, dove viene conservata la gola del Santo!

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