A Saronno La Bussola organizza una serata sull’Armenia: “Il genocidio infinito, ma la Croce rinasce” (IlSaronno 06.05.25)

SARONNO – Il circolo culturale La Bussola organizzerà per Giovedì 8 maggio alle 21, all’Aula Magna Aldo Moro di Saronno, si terrà un incontro pubblico dal titolo “Armenia. Il genocidio infinito, ma la Croce rinasce”. L’evento vedrà la partecipazione di due importanti firme del giornalismo italiano: Stefania Battistini, inviata speciale del TG1 Rai nota per i suoi reportage dall’Ucraina, Myanmar e Argentina, e Renato Farina, recentemente insignito della Medaglia della gratitudine dalla Repubblica di Armenia.

Al centro della serata ci sarà l’attuale situazione dell’Armenia, un Paese che, pur essendo stato il primo stato al mondo ad abbracciare il cristianesimo nel 310 d.C., continua a subire pressioni e violenze. Ricordando il genocidio del 1915, che causò la morte di oltre un milione e mezzo di armeni — in gran parte donne e bambini — gli ospiti denunceranno il silenzio e l’indifferenza che ancora oggi circondano le persecuzioni contro questa nazione.

L’incontro si propone come un’occasione di informazione e riflessione su una tragedia spesso dimenticata e su un popolo che, nonostante tutto, continua a difendere la propria identità cristiana. Approfondimenti e materiale sono disponibili sul sito della Bussola Saronno.

Vai al sito

“Lo specchio armeno” di Paolo Codazzi, una storia suggestiva di arte e amore nella Palermo dell’Inquisizione (Versiliapost 06.05.25)

Lo specchio armeno è il romanzo di Paolo Codazzi, che verrà presentato venerdì 9 maggio alle 17 nel Giardino d’Inverno di Villa Bertelli a Forte dei Marmi. A dialogare con l’autore ci sarà Davide Pugnana, storico dell’arte, scrittore e affezionato ospite della Villa.

L’opera racconta la storia del pittore-copista Cosimo Armagnati quando riceve la commissione di riprodurre un ritratto di donna conservato nella Galleria di Palermo: per straordinaria coincidenza, questa tela rappresenta per lui il punto di riferimento di tutti i suoi pensieri amorosi, definendosi come l’obiettivo di una lunga ricerca, tutta astratta e interiore, dell’amore assoluto e per questo inattingibile. Il quadro si rivela il punto di convergenza di diversi destini, anche lontanissimi nel tempo, che portano Cosimo a immergersi in una intricata tela di riferimenti storici che hanno a che fare con la pratica della stregoneria, con l’operato della Santa Inquisizione in Sicilia e con i destini di alcuni personaggi storici che sono collegati in modo indissolubile al protagonista e a coloro che gli stanno intorno.

Un’opera ricca di suggestioni e di riferimenti che affonda le sue radici in un passato a tratti lontano, a tratti vicino, in cui le esistenze dei personaggi narrati si incrociano dando vita a una storia originale e affascinante.

Vai al sito

“Non ti scordar di me”. Alla Camera il libro sul genocidio armeno (Nicola Porro 06.05.25)

Segui in diretta l’evento di presentazione del volume “Non ti scordar di me – Storia e oblio del Genocidio Armeno”, di Vittorio Robiati Bendaudche può essere acquistato sul sito dell’editore Liberilibri

L’incontro si svolge presso la Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto e rappresenta un’occasione di approfondimento su una delle pagine più drammatiche – e dimenticate – del Novecento con l’obiettivo di riportare al centro dell’attenzione pubblica la memoria del genocidio armeno.

Partecipano all’evento il Presidente della Camera dei deputati Lorenzo Fontana, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, la deputata Chiara Gribaudo, i deputati Giulio Centemero e Maurizio Lupi, il giornalista Nicola Porro, il giornalista – e autore della prefazione – Paolo Mieli e l’autore del volume.

L’evento sarà trasmesso in diretta a partire dalle ore 11:00 di mercoledì 7 maggio 2025.

Vai al sito

Trame di Memoria Arte, narrazione e musica nel 110° del Genocidio Armeno (Oggiroma 05.05.25)

In occasione del 110° anniversario del Genocidio Armeno, Venerdì 9 maggio presso l’Aula Magna della Facoltà Teologica Valdese di Roma, avrà luogo una Serata di commemorazione: un intreccio di narrazione, immagini di cinema, musica e arte.

Darà l’inizio alle ore 17:00 l’Esposizione d’arte con opere di pittura, scultura e ceramica di artisti armeni: Gerard Orakian (1901-1963), Nwarth Zarian (1917-2005), Teresa Sargsyan,  Gevorg Machanents, Anastasia Chaikovskaia, Endza / Gevorg Babakhanyan, Laura Pogosyan e Elisabetta Moktarians. Una raccolta di opere che coniuga passato e presente componendo un mosaico di diversi linguaggi artistici.

Si proseguirà alle ore 18:00 con:

Aurora Mardiganian, una Testimonianza di Speranza
Presentazione del libro Armenia Violata, a cura della giornalista, scrittrice e traduttrice Letizia Leonardi. A dialogare con l’autrice sarà Zara Pogossian (Università di Firenze).

Al centro dell’incontro, la straordinaria storia di Aurora Mardiganian, sopravvissuta al genocidio, che, arrivata 17enne negli Stati Uniti nel 1918, affidò la sua testimonianza a un libro sconvolgente, poi portato anche sul grande schermo nel 1919 con il film hollywoodiano Ravished Armenia. La sua storia ha recentemente ispirato il docu-film Aurora’s Sunrise (2022) di Inna Sahakyan, premiato a livello internazionale.

A chiusura della serata alle ore 19:30 — Concerto di Musica Classica Armena
Un omaggio musicale al ricco patrimonio culturale di un popolo che ha saputo trasformare il dolore in bellezza.

I musicisti Natalia Pogosyan (pianoforte) e Alexei Doulov (violino) eseguiranno celebri brani di grandi compositori armeni del Novecento: Komitas, Aram Khachaturian, Eduard Baghdasaryan, Arno Babadjanian e Avet Terteryan.
Il concerto sarà impreziosito da un breve intervento dei giovanissimi pianisti Artashes Mosikyan e Hayk Giulhakyan, presenti in Italia in occasione della loro partecipazione all’Orbetello International Piano Competition, che offriranno al pubblico un saggio della loro bravura interpretativa.

Tutto si svolgerà nella singolare cornice dell’Aula Magna Valdese, impreziosita dalle splendide vetrate del maestro Paolo Paschetto, tra le variegate opere degli artisti armeni, in un’atmosfera di memoria, arte e speranza.

Ingresso libero fino a esaurimento posti.
Si consiglia la prenotazione scrivendo ad assoarmeni@gmail.com o contattando al numero: +39 338 560762.

Dove e quando

Vai al sito

«La ferita sanguina», il genocidio armeno visto dai discendenti (Domani 04.05.25)

Ancora oggi la Turchia rifiuta di riconoscere la storia e i fatti come tali. I genitori di Arpi si sono conosciuti in Libano. Lei tiene viva la memoria

In Libano, nella Grande Casa di Cilicia ad Antelias, sede della Chiesa apostolica armena, c’è un mausoleo a memoria del genocidio degli armeni per mano dei turchi ottomani del 1915. È stato costruito nel 1938 e contiene i resti di chi è morto lungo la deportazione nel deserto siriano. «In punto di morte mia nonna si chiedeva quale fine avesse fatto sua madre», racconta Arpi Mangassarian, 72 anni, architetta e proprietaria del Badguèr, centro culturale e ristorante armeno nello storico quartiere di Bourj Hammoud, municipalità appena fuori da Beirut, considerata parte della città. Uno degli obiettivi del Badguèr è quello di preservare e mantenere vivo il patrimonio culturale armeno al di fuori dell’Armenia. Nel raccontare la sua storia Arpi si ferma più volte per le lacrime che scendono portando via il kajal nero dagli occhi. «È ancora doloroso, la ferita sanguina ancora», dice.

Per secoli gli armeni, il primo popolo ad adottare la religione cristiana nel 301 d.C. hanno abitato l’est dell’Anatolia, oggi Turchia. Mentre l’impero ottomano si sgretolava e i Giovani Turchi cercavano di tenerlo insieme, gli armeni furono percepiti come una minaccia da annientare. Il 24 aprile 1915 gli intellettuali armeni furono arrestati ed eliminati, mentre molti degli uomini costretti in campi di lavoro per la costruzione della linea ferroviaria Baghdad-Berlino.Il resto della popolazione fu spinta verso il deserto dove in gran parte morirono di stenti, violenze, fame e malattie. La bisnonna di Arpi era in marcia per raggiungere il marito ad Aleppo, ma ad un certo punto si è accasciata e ha pregato la figlia Nazely di continuare. «Chissà se il suo corpo è stato mangiato dagli uccelli, o dai cani», Arpi riporta le parole della nonna Nazely prima di morire a 91 anni, nel 1971.

Il genocidio e la diaspora

Nonostante tra il 1915 e il 1923 circa un milione e mezzo di persone sia morto, fin dal periodo repubblicano e ancora oggi la Turchia non riconosce come genocidio quanto accaduto, sostenendo che il numero dei morti sia inferiore e il risultato dagli scontri tra armeni cristiani e turchi musulmani – una sorta di guerra civile – nell’ambito della Prima Guerra Mondiale.

PUBBLICITÀ

«Verso la fine degli anni Trenta, per volere dell’arcivescovo Bedros Saradjian circa centocinquanta tra teschi e ossa sono stati recuperati dal deserto siriano e portati nella chiesa di Antelias», spiega la direzione del museo della Grande Casa di Cilicia. Qui i resti degli antenati di molti degli armeni che vivono oggi in Libano, Russia, Stati Uniti ed Europa, oltre che in Armenia, costituiscono il monito di una tragedia che ancora oggi non trova pace.

I genitori di Arpi, entrambi discendenti da sopravvissuti al genocidio, si sono conosciuti in Libano, arrivati dalla Siria per parte di padre e dalla Bulgaria per parte di madre, dopo anni di spostamenti.

Da giovane il padre si era trasferito da Aleppo, in Siria al Libano per le migliori opportunità di lavoro. «Non si sarebbero mai incontrati se non fosse che una delle mie zie non voleva sposarsi ma continuare a studiare, così ha lasciato la Bulgaria dove l’influenza sovietica aveva avuto un impatto negativo sull’educazione per continuare gli studi in Libano», racconta Arpi. «Dopo qualche tempo ha convinto tutta la famiglia a raggiungerla».

Non arriviamo al come i suoi genitori si sono conosciuti e sposati a Zouk el-Blat, nel centro di Beirut nel 1951 perché il suo racconto viene interrotto dal pianto. La madre è mancata pochi mesi fa, aveva 104 anni. «Non è facile essere la figlia di queste persone».

Anche papa Francesco nel suo messaggio ai cristiani armeni in occasione del centenario del massacro nel 2015 aveva ripreso le parole di una dichiarazione di Giovanni Paolo II parlando del genocidio degli armeni come del primo del XX secolo.

A questo messaggio il presidente turco Recep Erdoğan aveva reagito convocando l’ambasciatore vaticano ad Ankara, richiamando quello turco in Vaticano e avvisando il pontefice di non commettere questo errore nuovamente. «Nascondere o negare il male è come permettere che una ferita continui a sanguinare senza medicarla», aveva aggiunto papa Francesco.

Ad oggi, secondo l’Armenian National Institute sono 32 i paesi che riconoscono il genocidio, compresa l’Italia. Dopo anni di ambiguità, nel 2021 anche l’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha usato il termine “genocidio” per parlare del massacro degli armeni.

Una foto dei genitori di Arpi da anziani è esposta nel corridoio, all’entrata del Badguèr. «Ho vissuto tutto quello che loro hanno vissuto. Ho sentito tutto quello che loro hanno sentito e porto con me il peso della mia storia e del mio patrimonio culturale», spiega.

Se per i nonni la patria era l’Armenia, per le nuove generazioni è diventata il Libano. «Col tempo questo paese si è guadagnato il nostro amore, senza mai dimenticare l’Armenia», sottolinea Arpi.

Non è chiaro quanti siano oggi gli armeni in Libano. «Circa 320mila prima della guerra civile libanese, ma ad oggi molti meno». Ogni anno diverse commemorazioni vengono organizzate in tutto il paese intorno al 24 aprile.

Quest’anno, in occasione del 110mo anniversario, anche uno spettacolo teatrale ha rappresentato il dolore del genocidio e la conseguente “Operazione Nemesis”, la campagna di omicidi mirati organizzata dalla Federazione Rivoluzionaria Armena con lo scopo di eliminare gli esponenti ottomani che avevano preso parte nell’organizzazione del massacro. Quello più importante fu quello di Talat Pasha, considerato uno dei principali responsabili del genocidio, ucciso a Berlino nel 1921 dall’armeno Soghomon Tehilirian, poi assolto. «Questo patrimonio va tenuto in vita e condiviso», dice Arpi mentre asciuga le lacrime. «E questo è il mio lavoro».

© Riproduzione riservata

Vai al sito

ARMENIA: IL PAESE NELLA GRANDE GUERRA. IL RICORDO DEL TRAGICO DESTINO DI UN POPOLO MILLENARIO E DEL SUO GENOCIDIO AVVENUTO NEL 1915 (Report Difesa 03.05.25)

Di Gerardo Severino*

EREVAN (nostro servizio particolare).  Nonostante l’abbondante letteratura e la cinematografia, ancora oggi in pochi ricordano o quantomeno conoscono la tragedia vissuta dal Popolo armeno, se non altri a partire dalla Prima guerra mondiale, allorquando esso, soggiogato dall’allora Impero Ottomano, fu vittima di un vero e proprio genocidio.

La deportazione degli Armeni nel 1916

 

A volerlo era stato il Governo, ultranazionalista, dei “Giovani Turchi”, un’emanazione del Partito “Unione e Progresso”, fortemente determinato nel perseguire l’assurda idea di “turchizzare” l’area anatolica, in virtù della quale occorreva deportare e sterminare proprio l’etnia armena, peraltro presente in quell’area geografica sin dal 7° secolo a.C.

La Prima Guerra mondiale offrì, quindi, ai “Giovani Turchi” l’occasione per risolvere, una volta per tutte, la “Questione armena”, esplosa, in verità, già al tempo del Trattato di Berlino del 1878, il quale aveva posto fine alla guerra russo-turca.

Per meglio comprendere quale sia stata l’effettiva portata di tale “Olocausto”, oggi giustamente ricordato come uno degli antesignani dei genocidi successivi, ricostruiamo le varie fasi legate alla situazione dell’Armenia nel corso della stessa “Grande Guerra”.

L’Armenia nella “Grande Guerra”

Ebbene, sin dai primordi del Primo conflitto mondiale, l’allora ancora potentissimo Impero Ottomano, entrato nella conflagrazione europea a fianco degli Imperi Centrali, onde prevenire l’offensiva russa in Armenia, considerata giustamente pericolosissima per via dell’eventuale conquista dell’Anatolia, ovvero per le operazioni dirette al Golfo Persico, decise di penetrare nella Georgia, vale a dire nella provincia transcaucasica a tergo dell’Armenia russa.

In particolare, la strategia turca contro la Russia prevedeva la difensiva sull’ala sinistra del fronte, appoggiata alla grande piazzaforte di Erzerum, e la contemporanea offensiva con l’ala destra, muovendo dai bacini di Van e di Urmia verso la media valle dell’Arasse, in maniera tale da investire da mezzogiorno a da levante la piazzaforte di Karnità.

A tal fine, la Turchia ammassò circa quattro Corpi d’Armata (circa 150 mila unità) alla frontiera russa dell’Armenia, ponendoli al comando di Hassan Izzet Pascià, coadiuvato da Enver Pascià.

Molto forte sarebbe stata l’influenza militare germanica, tanto è vero che molti sarebbero stato gli ufficiali tedeschi chiamati a far parte dello Stato Maggiore turco, mentre al Colonnello tedesco, Paulsen Pascià, nell’ottobre dello stesso 1914, fu anche dato il comando della piazzaforte di Erzeruin.

Per garantire la difesa attiva di Erzerum contro l’eventuale investimento russo, Enver Pascià non esitò ad avanzare in territorio russo, occupando i monti a cavaliere della bassa valle del Ciorok e la valle di Olty, nella quale facilmente si perviene da quella del Kura.

A fronte di tali occupazioni, le avanguardie russe non stettero certo a guardare, avendo avanzato anche loro verso la frontiera.

Ne conseguirono numerosi scontri, in prevalenza favorevoli ai russi, come lo furono i combattimenti che dal 6 all’11 novembre si svolsero attorno alla posizione di Kòprikòi, ritenuta strategica per la difesa del fronte settentrionale della piazza di Erzerum. Questa, infatti, malgrado l’energica controffensiva turca, rimase saldamente nelle mani dei russi.

Alcuni giorni dopo (il 14 novembre 1914), i turchi assaltarono alla baionetta, riprendono la posizione e facendo, inoltre, circa 4 mila prigionieri.

Mustafa Kemal Ataturk con Enver Pascià

Enver Pascià, dall’alta valle di Olty, dove era rimasto saldamente aggrappato, tentò allora una larga manovra sul fianco russo, e, verso la fine di dicembre, minacciò le comunicazioni di Kars con la Georgia.

Seguendo la propria strategia, i turchi diedero vita ad un’offensiva, partendo dal bacino di Van e da mezzogiorno del lago d’Urmia, avvalendosi prevalentemente di orde e di Reggimenti curdi, le quali, non trovando resistenza nel violato territorio neutrale dell’Armenia persiana, occuparono (era il 16 gennaio 1915) la città di Tabris, e di là proseguirono per varie strade verso la frontiera russa.

A quel punto, la situazione apparve sfavorevole ai russi, tanto è vero che tra la valle di Olty e quella dell’Arasse grossi reparti turchi varcarono la frontiera di fronte a Zarikamisch, per poi avvicinarsi a Kars, ingaggiando, tra il 26 ed il 31 dicembre, non pochi combattimenti di posizione e d’incontro, sebbene con alterni esiti, a cavaliere della strada Zarikamisch-Kars.

Nel frattempo, sulle coste del Mar Nero si erano verificate incursioni di navi avversarie e bombardamenti da ambo le parti. Nella prima quindicina del gennaio 1915, i russi intrapresero, tuttavia, una vigorosa controffensiva in direzione di Zarikamisch, nei cui dintorni si combatté tenacemente, anche se a svantaggio dei turchi, i quali subirono notevoli perdite, sia di uomini che di mezzi.

Si era trattato di scontri di elevata  asprezza, oltre che violenza, compiuti a circa 3 mila metri d’altitudine, con un freddo intensissimo.

L’avanzata russa  sembrò inarrestabile, tanto che di lì a qualche settimana, la vittoria fu completa. Il IX Corpo d’Armata turco, con il suo comandante, Iskan Pascià, e gli altri comandanti di Divisione furono fatti prigionieri, così come lo fu il resto della truppa.

Ma i russi non si fermarono certo a quel punto, in quanto iniziarono l’inseguimento del X Corpo d’Armata turco, che si stava ritirando dalla valle del Ciorok.

Con gravi stenti ed a costo di ingenti perdite, ormai causate più dall’inclemenza del clima e dalla mancanza dei rifornimenti che non dal nemico stesso, il X Corpo riuscì, tuttavia, ad evitare il disastro più completo.

Ma la situazione strategica si era rivelata compromettente anche per le altre forze turche operanti sull’ala destra del fronte, nel bacino di Van e nell’Armenia persiana. E fu proprio lì che la successiva battaglia di Kara-Urgan (7-12 gennaio 1915), finita con un’altra vittoria russa, decise la ritirata di quelle forze verso la linea di confine.

Soltanto Enver Pascià, aggrappatosi leoninamente al terreno, rimase attivo nella valle di Olty, riuscendo a minacciare tanto la piazza di Kars, quanto lo sbocco della valle del Ciorok ed il suo porto militare di Batum.

A quel punto, i russi si concentrarono su Tabris per la ripresa della campagna, nella primavera del 1915.

Agli ordini del Generale Woronzov-Dachkov, verso la metà di maggio, l’Esercito zarista occupò Van ed il 26 dello stesso mese entrò a Bitlis, fra i monti del Tauro armeno.

Truppe di Fanteria leggera turca si limitano a tenere il contatto con le forze russe.

L’immediato scopo della ripresa russa, vale a dire di far sgombrare l’Armenia persiana, fu, quindi, completamente raggiunto.

Sull’altra ala del fronte, invece, la situazione, nel complesso, era rimasta pressoché invariata, grazie alla tenacia di Enver Pascià, il quale continuò a restarsene annidato nella valle di Olty.

Fu nel giugno che egli tentò un grosso colpo di mano verso Batum, il quale, tuttavia, fu destinato al fallimento.

Bisognerà attendere il gennaio del 1916, allorquando ebbe inizio l’offensiva russa che conduceva alla caduta di Erzerum, a seguito della quale il Granduca Nicola, il quale aveva, nell’ottobre del ’15, assunto il comando delle truppe, ordinò l’avanzata contemporanea di alcuni Corpi d’Armata su Trebisonda, sul litorale, e su Bitlis, attraverso l’Eufrate orientale ed il bacino di Van.

La caduta di Trebisonda rappresentò, quindi, per i turchi la perdita della loro base navale sul Mar Nero.

Il Granduca Nicola

 

II Granduca Nicola si proponeva, quindi, di avanzare con altre forze da Erzerum verso Ersingian, nella valle dell’Eufrate occidentale, un importantissimo nodo stradale e centro amministrativo del Paese. In questa direzione, le operazioni non si spinsero molto oltre la città di Mamachatun (a circa metà strada fra Erzerum ed Ersingian), della quale i russi s’impadronirono il 17 marzo 1916, catturando convogli e artiglierie.

Anche l’ala sinistra russa avrebbe conseguito alcuni importanti successi, nonostante la gravissima situazione del terreno, raggiungendo nel Tauro armeno il prefissato obiettivo di Bitlis (metri 1.560). La posizione fu, quindi, oltrepassata, verso la fine di maggio, consentendo così ai russi di occupare Rudvan, per poi minacciare le comunicazioni turche tra Diarbekir e Mossul, lungo il Tigri.

Intanto altre forze russe, al comando del Generale Baratov, si erano inoltrate nella Persia ed avevano, al termine di una lunga serie di marce, raggiunto Scenikyn, alla frontiera della Mesopotamia, volendo tendere la mano alle forze inglesi che stavano rimontando la valle del Tigri verso Bagdad.

Di fronte a tali insuccessi, i turchi registrarono al loro attivo soltanto la presa di Kut-el-Amara, strappata agli inglesi nell’aprile 1916.

In seguito, aiutati con mezzi e ufficiali dell’esercito tedesco, nel giugno seguente, ripresero l’offensiva, partendo dal litorale del Mar Nero, attraversando così l’Armenia.

I russi, i quali non si attendevano una ripresa nemica così tanto vigorosa, rimasero spiazzati, tanto che per poterla neutralizzare dovettero cedere terreno su gran parte della loro lunga linea, Erzerum compresa. Tuttavia, già nel luglio seguente, essi ebbero modo di riprendere energicamente la controffensiva, la quale fu sviluppata sulla loro ala destra, dove  non soltanto riguadagnarono il terreno perduto, ma riuscirono anche ad occupare Ersiugian (25 luglio), oltre 100 km. a ponente di Erzerum, nella valle dell’Eufrate occidentale.

Malgrado i massicci sforzi, le truppe Zariste non ebbero, tuttavia, modo di portare l’avanzata verso il centro e la sinistra della estesa fronte, tanto che l’autunno dello stesso 1916 le trovò in atteggiamento difensivo, a cavaliere dei bacini dei laghi di Van e di Urniia.

Dovette trascorrere quasi un anno, prima che gli inglesi del Generale Maude riuscissero a rimettere piede a Kut-el-Amara (24 febbraio 1917), per poi raggiungere Bagdad, appena un mese dopo.

Fu allora che il Generale Baratov, dalla Persia, dove nel frattempo si era asserragliato, si ravvicinò alla frontiera della Mesopotamia.

Da qui, con colonne dirette verso Scenikyn e Mossul, tentò di ricucire l’ampia breccia che separava il fronte armeno dai russi e dagli inglesi.

Il 18 marzo 1917, i russi si battono sulle sponde del Lago di Van, riuscendo a rioccupare quella città, mentre il 25 penetrarono anche a Mossul.

L’8 aprile fu, infine, raggiunto il desiderato collegamento delle forze russe con quelle anglo-indiane, a sud-ovest di Scenikyn.

Mentre accadeva tutto questo, l’Impero degli Zar fu sconvolto dalla nota Rivoluzione, tanto è vero che anche sul fronte armeno la resistenza russa crollò automaticamente.

Nel luglio del 1917, l’Esercito russo si ritirava, quindi, entro l’antico confine, mentre la Turchia rientrava in possesso, a questo punto “pacificamente”, dei territori che l’esercito dello Zar Nicola le aveva conquistato.

La vendetta contro gli armeni, accusati ingiustamente di essere filo-russi, avrebbe, quindi, avuto un maggior vigore e, soprattutto, una “soluzione finale”, precisando il fatto che essa era iniziata già nell’aprile del 1915.

La deportazione degli Armeni nel 1916

La tragedia di un intero popolo, tra passato e presente

 Ebbene, il genocidio subito dal popolo armeno nel corso della “Grande Guerra” era già iniziato una ventina d’anni prima, essendo stato preceduto dai pogrom (lgs. sommosse popolari verso minoranze religiose) del 1894-96, voluti dal Sultano Abdul Hamid II, così come da altri terribili massacri, come lo fu quello del 1909, in Cilicia, all’indomani della rivoluzione intrapresa dal citato movimento dei “Giovani Turchi”, nonostante esso avesse preso il potere, appena l’anno prima, inneggiando paradossalmente alla libertà e all’eguaglianza per tutti i popoli dell’Impero.

Fossa comune con i resti degli Armeni assassinati

Al di là di ciò, una vera e propria “soluzione finale” sarebbe scaturita solo nel 1913, allorquando, con il sopravvento dell’ala oltranzista del Partito “Unione e Progresso”, sorse una vera e propria dittatura militare, capeggiata dal Triunvirato, Djemal, Enver e Talaat, gli uomini più forti dello stesso regime.

Gran parte degli storici sono concordi sul fatto che il vero movente che avrebbe ispirato il Governo dei “Giovani Turchi” e, quindi, lo stesso triumvirato è da identificarsi nell’ideologia “Panturchista”, vale a dire l’idea di dare vita ad una Nazione che abbracciasse l’immensa area geografica che va dal Mediterraneo all’Altopiano turanico, dando così vita ad una entità monoetnica, quindi linguisticamente e culturalmente omogenea.

Ciò avrebbe interessato, come si diceva prima, un territorio vastissimo, ove, sino a quel momento, convivevano armeni, greci, assiri e persino ebrei, tutti facenti parte di un complesso mosaico di etnie e religioni.

In verità, la popolazione armena era la più numerosa, peraltro era di religione cristiana, ma soprattutto caratterizzata da una filosofia che avvicinava quel popolo agli ideali dello stato di diritto, tipici del mondo occidentale e peraltro latrice di sempre più insistenti rivendicazioni libertarie. Ovviamente, tale atteggiamento rappresentava, come è facile intuire, un fortissimo ostacolo al progetto di omogeneizzazione voluto dal regime turco.

Va da sé che a quel punto i “Giovani Turchi” optarono per la soluzione più drastica: la cancellazione della comunità armena, sia come soggetto storico, sia come soggetto culturale e politico.

Ma non solo, soprattutto se pensiamo che la razzia dei beni della forte comunità armena avrebbe contribuito alla rinascita economica della Turchia, sia durante la stessa “Grande Guerra” che, in seguito, con il varo della Repubblica kemalista.

La marcia della morte del popolo Armeno

Lo sterminio fu, quindi, “pianificato” tra il dicembre del 1914 e il febbraio del 1915, peraltro anche grazie al contributo di consiglieri tedeschi, ricordando la citata alleanza che univa allora la Turchia alla Germania.

La storia di quel periodo ci ricorda come l’ala più intransigente del Comitato Centrale del “Partito Unione e Progresso” (CUP) pianificò dettagliatamente il genocidio, per il quale fu appositamente studiata una vera e propria struttura criminale, su basi paramilitari, che rispondeva al nome di “Organizzazione Speciale (O.S)”, affidata a due medici, Nazim e Behaeddin Chakir.

L’Organizzazione Speciale, che dipendeva dal Ministero della Guerra, attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e del Ministero della Giustizia.

Fu così che già la notte del 24 aprile 1915, l’élite armena che viveva a Costantinopoli fu arrestata, deportata e, purtroppo, eliminata fisicamente. Si procedette, quindi, al disarmo e al massacro dei militari armeni, mentre alcuni di loro sarebbero stati poi costretti ai lavori forzati, lavorando duramente sulla linea ferroviaria Berlino-Baghdad.

Nella primavera 1916 fu, infine, dato il via alla deportazione di massa dell’intera popolazione armena verso il deserto di Deir el-Zor, ove giunsero in pochi.

Furono, quindi, i turchi a “riprendere in mano” la nefasta idea di eliminare il prossimo attraverso vere e proprie “marce della morte”, purtroppo rese famose dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale.

Sta di fatto che la quasi totalità degli armeni scomparve per sempre da quella terra che abitava da più di duemila anni, costretta a vivere un futuro incerto, corredato di ulteriori vedette, odi e violenze d’ogni genere, così come dall’onta di non sentirsi affatto tutelata, nemmeno dinanzi al giudizio della Storia, considerata la scarsità di riferimenti che si possono cogliere negli stessi testi scolastici.

*Colonnello (Aus) della Guardia di Finanza – Storico Militare. Membro del Comitato di Redazione di Report Difesa

Vai al sito

«Rerooted», voci della diaspora armena (Il Manifesto 03.05.25)

È dedicata alla documentazione delle storie degli armeni sfollati a causa dei conflitti l’associazione «Rerooted», fondata otto anni fa dalle due studiose armene Anoush Baghdassarian e Ani Schug. Tra le sue finalità vi sono la conservazione della memoria e la giustizia per gli armeni e a tutt’oggi sono ben 250 le testimonianze di siro-armeni raccolte in dieci Paesi di reinsediamento, oltre ai racconti di armeni dell’Argentina, dell’Azerbaigian e, più recentemente, del Nagorno-Karabakh.

In base a un memorandum d’intesa che Rerooted ha firmato nel 2019 con l’IIIM (Meccanismo Internazionale, Imparziale e Indipendente delle Nazioni Unite per la Siria) alcune di esse sono utilizzate per documentare le violazioni dei diritti umani in Siria.

L’archivio fornisce inoltre testimonianze orali e prove al Centro per la Giustizia e la Responsabilità Siriana (SJAC) e ai tribunali europei che hanno cercato di perseguire il regime di Assad.

Un progetto importante di cui parliamo con la cofondatrice Ani Schug, laureata in Politica e Studi Mediorientali al Pomona College. Attualmente Ani lavora presso un’organizzazione no-profit per immigrati e rifugiati a Filadelfia come rappresentante accreditata del Dipartimento di Giustizia.

Era il 2017, quando in un incontro casuale Anoush e Annie, entrambe studentesse senior di college di origine armena, hanno dato vita a questo progetto destinato a cambiare il modo in cui il mondo vede la diaspora armena. «Indossavo una maglietta con su scritto ‘Armenia’ e Annie mi ha subito fermato -racconta Ani- È stato un momento tipico della diaspora armena, quando due anime si incontrano e scoprono un legame profondo».

Una particolare attenzione Rerooted la riserva alla comunità armeno-siriana, una minoranza etnica e religiosa in un Paese a maggioranza musulmana. Da cosa nasce questo interesse della vostra ricerca? «L’idea di questo progetto è nata dall’osservazione che, nonostante le molteplici rotte seguite nel corso del tempo, gli armeni mantengono sempre la capacità di ricostituirsi. In una testimonianza che abbiamo raccolto Sevan Torosian dice che l’Armenia è come tuo padre, che ti ha dato il nome. E la Siria è come tua madre, che si è presa cura di te per anni».

Ispirate dalla resilienza della comunità armeno-siriana, dunque, vi proponete di preservare e rafforzare l’identità armena attraverso le esperienze di rinascita dopo le tragedie del passato.

Ani spiega: «Abbiamo trascorso lunghe giornate a intervistare i rifugiati, a fare ricerche e a raccogliere storie. Il nostro obiettivo iniziale era ottenere tra le 40 e le 80 testimonianze, alla fine ne abbiamo raccolte 81 in cinque settimane e mezzo».

Sono un centinaio circa le persone coinvolte con Rerooted nella raccolta di interviste e nel supporto al progetto. Il team dell’associazione include studenti di giurisprudenza, avvocati armeni e volontari che aiutano con trascrizioni e traduzioni, specialmente per le interviste agli armeni-siriani e ai rifugiati dell’Artsakh.

L’archivio pubblica le testimonianze in formato video, audio e testo, oltre ad aggiungere le fotografie personali e storiche, documenti e altro materiale. «Vogliamo umanizzare i rifugiati come individui, piuttosto che come soggetti anonimi di servizi giornalistici» sottolinea Anoush in un’intervista per il Claremont McKenna College. Gli armeni intervistati spesso contribuiscono con le loro foto personali, la musica composta e altri ricordi.

Tra le testimonianze è particolarmente emozionante quella di Sosi Ohan che riflette sul profondo legame con la propria terra «Amavamo così tanto essere armeni, profondamente legati alla nostra identità di discendenti e di sopravvissuti al genocidio armeno. Quei sopravvissuti erano soliti dire: ‘Se solo avessimo della terra armena da mettere sulle nostre tombe.’ Questa frase riecheggia nella mia mente ancora oggi. Ogni volta che compro della verdura e trovo della terra nel sacchetto, non riesco a buttarla via, ma la restituisco alla terra, onorando il desiderio di quei sopravvissuti e preservando la sacralità del nostro suolo». La cofondatrice dell’Associazione Anoush riprende il concetto di «Ethical loneliness» di Jill Stauffer per descrivere l’esperienza del suo popolo che ha subito l’abbandono da parte dell’umanità «sia per i gravi crimini non fermati in tempo, sia per l’ulteriore ingiustizia di non essere ascoltati e riconosciuti»

Una sensazione di «solitudine etica» profondamente radicata in molte storie di sopravvivenza e perdita, come quella di Dzonivar Yeretsian: «Mio nonno non rideva né sorrideva mai. Diceva: ‘Come potrei ridere? Quando avevo 7 anni, ho perso 7 fratelli e ho visto mia madre abbandonare il mio fratellino nel deserto.’ Raccontare queste storie è importante affinché noi armeni non le dimentichiamo o le perdiamo».

Ani sottolinea l’importanza del riconoscimento delle sofferenze del popolo armeno, anche in assenza di un risarcimento finale o una sentenza esecutiva: «Il riconoscimento dei danni e del dolore che il nostro popolo ha dovuto subire è qualcosa di estremamente importante.» Un passo significativo in questa direzione è stato fatto nel 2019, quando il Congresso degli Stati Uniti ha votato per il riconoscimento del genocidio armeno, seguito nel 2021 dalla dichiarazione ufficiale di riconoscimento da parte del Presidente USA Biden. Riconoscimento al quale la Turchia ha reagito definendo la dichiarazione del presidente USA «infondata dal punto di vista legale e accademico».

Rerooted è impegnato infine sul fronte della lotta per la giustizia internazionale e la conservazione del patrimonio culturale armeno.

«Le nostre testimonianze non sono solo racconti del passato -conclude Ani- sono anche strumenti per la giustizia. Utilizziamo queste storie per fare pressione sui governi e sulle organizzazioni internazionali affinché riconoscano e affrontino le ingiustizie subite dalla diaspora armena».

Di recente l’organizzazione ha presentato un rapporto al Comitato contro la tortura (CAT) e ne sta preparando un secondo da portare alla Corte penale internazionale per discutere le ingiustizie subite dagli armeni durante l’ultimo conflitto in Nagorno-Karabakh.

Otto anni dopo la sua fondazione, dunque, Rerooted si sta espandendo per includere altre comunità della diaspora. «Mentre guardiamo al futuro, vediamo un mondo in cui le voci degli armeni sono ascoltate e rispettate, conclude Ani. Continueremo a lottare per la giustizia, a preservare il nostro patrimonio culturale e a creare un futuro migliore per tutti gli armeni.

Consigliato dalla redazione
Armenia, mèta «visibile» per l’archeologia italiana

Armenia, mèta «visibile» per l’archeologia italiana

Vai al sito

Sua Beatitudine Minassian, “ha dato voce a chi non ha voce e per gli armeni è stato un santo e un padre” (SIR 03.05.25)

La visita apostolica in Armenia nel 2016, gli appelli alla pace nella Regione del Caucaso meridionale, la tragedia umanitaria degli oltre 100mila sfollati dal Nagorno-Karabash. Ma soprattutto il coraggio di definire il massacro degli armeni “il primo genocidio del XX secolo”. “Papa Francesco per gli armeni è più che un Santo”, dice al Sir Sua Beatitudine Minassian Patriarca di Cilicia degli Armeni. “E’ un padre che si è speso e sacrificato per i suoi figli. Ieri la messa di Requiem in Vaticano cui abbiamo partecipato portando con noi questa intenzione di gratitudine a nome del popolo armeno”.

Papa Francesco visita le cattedrali armeno apostolica e armeno cattolica (Gyumri, 25 giugno 2016) @Servizio Fotografico – L’Osservatore Romano

“Papa Francesco per gli armeni è più che un Santo. E’ stato un protettore dell’Armenia. Si diceva che Papa Francesco fosse il Papa che dava voce a chi non aveva voce. Davvero lui ha avuto il coraggio di dire al mondo che questo genocidio era vero ed è stato il primo del ventesimo secolo. E lo ha detto quando per più di 100 anni tutto il mondo lo rifiutava”. A parlare del rapporto “speciale” che legava Papa Francesco all’Armenia è Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian Patriarca di Cilicia degli Armeni anche lui a Roma per la Messa in suffragio di Papa Francesco presieduta ieri dal card. Claudio Gugerotti che le Chiese orientali celebrano nella Basilica Vaticana. “Ha fatto tanto per la pace tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Ha salvato tanti soldati detenuti nelle prigioni in Azerbaijan. Ne ha liberati tanti. Per noi, quindi, è un padre che si è speso e sacrificato per i suoi figli. Abbiamo partecipato alla messa di Requiem in Vaticano portando con noi questa intenzione di gratitudine a nome del popolo armeno. Lui chiedeva sempre di pregare per lui. Adesso tocca a noi a chiedergli di pregare per noi”.

(Foto comunitaarmena.it)

Il 29 aprile scorso, in occasione del 110° Anniversario del Genocidio Armeno, nel giardino intitolato al “Genocidio degli Armeni” a Roma, si è tenuta una cerimonia di commemorazione delle vittime di quel che viene definito il primo genocidio del XX secolo, il primo crimine contro l’umanità. L’evento è stato promosso dal Consiglio per la Comunità Armena di Roma in collaborazione con il Comune di Roma e le Ambasciate di Armenia in Italia e presso la Santa Sede. “I nostri martiri sono già santi”, dice il Patriarca Minassian.

“Non è soltanto un lutto che stiamo vivendo o ricordando con questa celebrazione, ma è anche una voce alla coscienza dell’umanità affinché non smetta mai di lavorare per la giustizia e la pace.

Questa è la cosa che la Chiesa ha sempre chiesto. Noi continueremo a mettere questa pagina oscura della nostra storia davanti agli occhi dell’umanità. Nonostante quello che è stato fatto, le potenze mondiali continuano a fare la stessa cosa, con lo stesso metodo. E’ il segno che si è persa la coscienza, il valore dell’uomo e la presenza di Dio nella nostra vita”. “Mi meraviglio sempre quando constato – prosegue il Patriarca – come le grandi potenze internazionali, dall’Europa che ha vissuto e che ha conosciuto la storia degli armeni e dell’Armenia, agli Stati che hanno accolto tanti armeni nel loro paese, abbiano chiuso e continuano a chiudere gli occhi davanti alla verità e a mantenere menzogna e inganno”.

Papa Francesco visita le cattedrali armeno apostolica e armeno cattolica (Gyumri, 25 giugno 2016)
@Servizio Fotografico – L’Osservatore Romano

Papa Francesco non lo ha fatto. Alla cerimonia di Roma, i partecipanti e i relatori hanno ricordato le sue parole pronunciate dieci anni fa nel 2015, durante la messa celebrata nella Basilica di San Pietro per celebrare i 100 anni del genocidio del popolo armeno. Durante quella funzione, il Papa usò il termine “genocidio” per riferirsi al massacro degli armeni e disse: “… laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla “. L’anno dopo, nel 2016, Papa Francesco compì un viaggio apostolico in Armenia durante il quale visitò il Tsitsernakaberd Memorial Complex per commemorare le vittime del genocidio armeno.

(Foto ANSA/SIR)

Nel 2023, l’Armenia e l’Europa furono scossi dai lunghi mesi di assedio di oltre 120.000 armeni nel Nagorno-Karabakh. La tragedia umanitari che seguì, è stata al centro dei pensieri di Papa Francesco che più volte negli Angelus disse di seguire “la drammatica situazione degli sfollati nel Nagorno-Karabakn”, rinnovando sempre appelli al dialogo tra Azerbaigian e l’Armenia “e auspicando che i colloqui tra le parti con il sostegno comunità internazionale favoriscano un accordo duraturo che ponga fine alla crisi umanitaria”.

“Hai fatto più di quanto fosse possibile”, ha detto l’ex ambasciatore armeno Michael Minassian nel suo intervento a Roma, rivolgendosi simbolicamente a Papa Francesco. “Ecco perché sei uno dei Papi più amati degli armeni di tutti i tempi: hai rispettato e amato il popolo armeno e hai deciso di curare le sue ferite sanguinanti con il tuo dolce sorriso, il tuo amore e la tua cura, le tue sincere intenzioni, la tua anima e il tuo cuore. Sono convinto che i figli riconoscenti del popolo armeno non ti dimenticheranno mai. Ciò che non viene dimenticato diventa storia. Anche tu sei diventato storia. Non dimenticherò mai di pregare per te, come mi hai chiesto nella tua lettera”.

Vai al sito

Vibo, il Liceo Capialbi ricorda il genocidio armeno e le stragi dimenticate fra arte e testimonianze toccanti (IlVibonese 02.05.25)

L’evento promosso dal Comitato Diritti umani della scuola ha coinvolto studenti e ospiti speciali come la giornalista Letizia Leonardi e la scrittrice Sara Lucaroni

 

Una mattinata intensa di riflessione, arte e memoria si è svolta al liceo statale Vito Capialbi di Vibo Valentia, in occasione dell’evento promosso dal Comitato Diritti umani dell’Istituto, coordinato dalla prof. Anna Murmura. Tema centrale dell’incontro: “Il genocidio armeno tra passato e presente e i genocidi dimenticati”, un’occasione di approfondimento storico e civile, ha fatto sapere la scuola attraverso un comunicato stampa redatto da Amalia Carioti, Carol Criseo e Martina Macrì, che ha coinvolto studenti, docenti e ospiti d’eccezione. Celebrazioni della giornata, che ricorre il 24 aprile, posticipate dalla scuola poiché in quella data non vi sono state lezioni. Ad aprire la giornata è stata Elisa Greco della classe 4BSU, con un discorso sentito e appassionato: «È per me un grande onore dare inizio a questo evento – ha dichiarato – che rappresenta un momento di crescita collettiva e di impegno per la memoria storica e la difesa dei diritti umani». Dopo i saluti di rito Elisa ha rivolto i suoi ringraziamenti a tutte le figure che hanno reso possibile l’incontro: i docenti e gli studenti presenti, ma anche i protagonisti artistici che hanno arricchito il programma con momenti di grande intensità emotiva. Un ringraziamento speciale è stato riservato al dirigente scolastico, Antonello Scalamandrè, per la fiducia e il costante sostegno alle attività del Comitato. Applausi calorosi anche per monsignor Giuseppe Fiorillo, già parroco e guida spirituale del Comitato, per la sua presenza e il suo supporto morale.

Il programma si è aperto con un momento artistico: il corpo di ballo del liceo Capialbi, guidato dalla Maestra Gabriella Cutrupi, ha realizzato un’entrée sulle note di Never Alone. A seguire, l’orchestra dell’istituto, diretta dal maestro Diego Ventura, ha emozionato il pubblico con l’esecuzione di Gundê Hember, brano curdo donato alla scuola dal musicista Ashti Abdom e trasmesso dalla giornalista Sara Lucaroni. Non meno toccante è stata l’interpretazione dell’Aria di Giacomo Puccini, a cura della classe di canto della prof Giuliana Pelagi, che ha saputo fondere la potenza della lirica con il messaggio universale dell’evento. Spazio poi ai contenuti multimediali realizzati dagli studenti. Il primo PowerPoint, “Il genocidio armeno all’alba del ’900 e la Shoà”, è stato presentato da Paola Fogliaro, Kristyn Franzone e Chiara Petrolo della classe III AL, guidati dalla prof Cristina Esposito.

A seguire, il lavoro intitolato “Gli armeni del Nagorno Karabakh e la violenza azera”, realizzato dagli studenti Amalia Carioti, Giulia Malta, Dorotea Mendola, Riccardo La Gamba, Fulvio Mirile, Carol Criseo e Alessandro Tripodi, delle classi III BSU e III AL. Il primo collegamento da remoto ha visto protagonista Letizia Leonardi, giornalista e traduttrice, insignita della Medaglia di Gratitudine della Repubblica d’Armenia per il suo impegno nella diffusione della cultura armena. La sua testimonianza ha offerto un’importante chiave di lettura sul valore della memoria e della verità storica. Ha seguito un nuovo momento artistico con la coreografia “A New Horizon“, interpretata dal corpo di ballo del liceo. È quindi intervenuto il gruppo di studenti della III BSU, già autori del secondo PowerPoint, con il terzo lavoro dal titolo “Il popolo yazida tra cultura e storia di un genocidio dimenticato”.

Un approfondimento necessario su una tragedia recente spesso taciuta. Il secondo collegamento ha avuto come ospite Sara Lucaroni, giornalista, filosofa e scrittrice, esperta di Medio Oriente, che ha condiviso riflessioni tratte dal suo ultimo libro “La luce di Șingal”, dedicato al genocidio yazida. La sua presenza ha offerto agli studenti un’occasione preziosa per comprendere i drammi vissuti dalle minoranze perseguitate.

A chiudere l’evento, una struggente performance musicale e di danza sul canto tradizionale armeno “Ov Sirvum“, amatissimo simbolo dell’identità culturale armena. Prima del saluto conclusivo, sono stati ringraziati i tecnici informatici che hanno garantito il regolare svolgimento dell’incontro: il signor Alessandro Valensise e Igor Campanaro della classe 4BSU. L’evento si è concluso con l’intervento della prof Anna Murmura, coordinatrice del Comitato Diritti umani, la cui instancabile dedizione ha reso possibile questa giornata di grande valore umano, culturale e civile.

Vai al sito