Tensione al confine tra Armenia e Azerbaigian (Sputnik 29.12.16)

Il portavoce del ministero della Difesa armeno Artsrun Ovannisyan ha denunciato che la parte azera giovedì mattina ha intrapreso un tentativo di sabotaggio al confine tra i due Paesi e al momento è in corso uno scontro a fuoco.”Questa mattina le truppe azere hanno intrapreso un tentativo di sabotaggio presso il confine a sud-est del villaggio di Chinari della regione di Tavush,”

— Ovannisyan ha scritto sulla sua pagina su Facebook, segnala l’edizione armena di Sputnik. Ha dichiarato che i soldati armeni hanno iniziato a combattere. “Sono usati fucili di precisione e granate, lo scontro armato continua. Le forze armate armene controllano completamente la situazione, impedendo l’invasione del nemico,” — ha scritto Ovannisyan.

Leggi tutto: https://it.sputniknews.com/mondo/201612293861654-Caucaso-Nagorno-Karabakh-sparatoria-esercito/

COMUNICATO STAMPA: L’Azerbaigian viola il confine dello Stato sovrano dell’Armenia

COMUNICATO STAMPA

Azione militare dell’Azerbaigian contro l’Armenia.

l’Azerbaigian viola il confine dello Stato sovrano dell’Armenia

”Condanniamo con fermezza le azioni militari messe in atto dall’Azerbaigian nel tentativo di infiltrazione nel confine dello Stato sovrano dell’Armenia, che hanno  causato diverse perdite umane”. E’ quanto si legge in un comunicato diramato dal Ministero degli Esteri armeno dopo che truppe azere hanno cercato di penetrare il confine armeno nella provincia nord orientale di Talish,  causando la morte di tre militari armeni, mentre gli aggressori  hanno lasciato sul terreno sette soldati.

Non è la prima volta che il dittatore Aliyev ricorre a simili «provocazioni» nel tentativo di far fallire tutti gli accordi di cessate il fuoco e far saltare il tavolo di trattative avviato dal Gruppo Minsk il quale vede come unica soluzione del conflitto Armeno-Azero quello del negoziato pacifico. Soluzione alla quale l’Armenia ha dato piena adesione ma che  il regime di Aliyev continua ad ostacolare con tutti i mezzi a disposizione.

E’ notizia di qualche ore fa, la firma da parte del Presidente azero del bilancio preventivo per le spese militari per l’anno 2017 che sono in netto aumento e raggiungono quota 1,6 miliardi di dollari (nel 2016 ammontavano ad 1,43 miliardi), e sono il  segno che Baku è intenzionata a perseverare nella sua politica belligerante infischiandosi delle raccomandazioni della comunità internazionale.

Sono anni che sulla stampa internazionale vengono segnalate violazioni dei diritti umani da parte del dittatore di Baku, giornalisti incarcerati senza ragione, cittadini privati della loro libertà,  perseguitati e torturati dal regime, per non parlare poi delle migliaia di profughi azeri che non ricevono alcun aiuto da parte dello Stato mentre la famiglia Aliyev continua a sperperare il denaro pubblico ed arricchirsi sulle spalle degli ignari cittadini, cercando di «comprare» all’estero una reputazione a suon di caviale.

Nel clima delle festività natalizie e di capodanno il Consiglio per la comunità armena di Roma nel condannare fermamente le azioni militare intraprese da tempo dal Governo di Baku ed in particolare dal dittatore Aliyev, si appella alla comunità internazionale ed in particolare a tutte le forze politiche italiane ed alla società civile affinché  facciano sentire la loro voce nelle sedi opportune per far tacere, una volte per tutte, le armi del dittatore Aliyev, e le provocazioni dallo stesso avanzate e scongiurare che il Caucaso possa diventare teatro di altre atrocità disumane che la guerra provoca.

Noi diciamo no alla guerra. No all’odio. No al prevalere degli interessi personali e statali sui valori umani. Diciamo no, con forza, alle azioni militari. Diciamo no alla violenza.

E diciamo si alla convivenza tra i popoli, al rispetto delle regole e delle leggi internazionali.

Diciamo si alla pace.

Consiglio per la comunità armena di Roma

Iran, i sopravvissuti del primo cristianesimo (Avvenire 27.12.16)

I 150.000 eredi del passato
Esce nel primo numero 2017 di “Vita e Pensiero” la versione integrale dell’articolo «Essere cristiani a Teheran. Viaggio fra passato e futuro», di cui qui anticipiamo un saggio. Joseph Yacoub, professore onorario all’Università Cattolica di Lione, percorre le poche tracce di comunità che resistono in quello che fu uno dei centri del primo cristianesimo. Il bimestrale, che sarà disponibile dal 12 gennaio, contiene tra gli altri testi di Luigi Campiglio, Alessandro Rosina, Gian Maria Vian e un inedito di Jean-Marie Lustiger.

(In Iran, ndr) su una popolazione cristiana approssimativamente stimata oggi in 150.000 unità (di cui 120.000 armeni), i caldei-assiri-protestanti e latini sarebbero circa 30.000. A Teheran esistono comunità assiro- caldee molto attive, al di là della loro specifica obbedienza religiosa. Ma l’Iran è anche un Paese pieno di chiese. I villaggi, oggi abitati in maggioranza da curdi scesi dalle montagne e da turchi azeri, costituiscono la memoria di questa cristianità e una fonte di fierezza. La chiesa di Mar Thomas a Balulan, un bel villaggio ai piedi della montagna che separa questa regione dalla Turchia (nella piana di Tergavar), risalirebbe all’VIII secolo. Ha un’architettura ispirata agli arsacidi e ai sasanidi.

Le chiese di Mar Maria, di Tcharbach (a nord di Urmia) e di Mar Surgis nel villaggio con lo stesso nome (a sud di Urmia), risalirebbero al VI secolo. Alcune chiese, e non tra le meno importanti, sono classificate dalle autorità iraniane come monumenti storici (un pannello con le spiegazioni è posto all’entrata). Questo significa che vengono conservate a titolo di eredità storica, come nel caso di Mar Yokhanna (San Giovanni Battista) a Ada, costruita nel 1801 (nel villaggio di Ada esiste un’altra chiesa molto conosciuta, Mar Daniel). In alcuni villaggi si incontrano addirittura nomi bilingui (persiano e aramaico) di strade che rimandano alla cristianità, come “Via della chiesa” ad Ada.

Chiari esempi sono alcuni santuari divenuti luoghi di pellegrinaggio, come Mar Surgius e Mar Buccus, a 10 chilometri da Urmia, o la chiesa di San Pietro e Paolo del VII secolo. Fatta eccezione per Khosrava e in parte anche per Pataver, gli altri villaggi cristiani del distretto di Salmas sono ormai completamente spopolati. (…) Alla vigilia della prima guerra mondiale vi erano villaggi a popolazione interamente cristiana e villaggi a popolazione mista (cristiana e musulmana). Il genocidio del 1915-1918, perpetrato dai turchi e dai curdi, sterminò gran parte della popolazione, non senza resistenza, come nel caso di Gulpashan. Qui la quasi totalità dei 2.500 abitanti assiri fu massacrata. (…) Nella regione si contano oggi molti grandi cimiteri, monumenti funebri e sarcofagi, come a Sopurghan e Dizatakya, reminiscenza di un passato nel quale quella cristianità era numerosa e influente (…). Va detto che i cristiani hanno prodotto una letteratura molto ricca in aramaico, oltre che in persiano, caratterizzata da un forte attaccamento alla loro identità assira e al loro patrimonio culturale. I toni sono spesso carichi di un accentuato senso del tragico. Chi meglio di altri è riuscito a restituire la dimensione tragica del loro percorso è il poeta Shlimoun di Salmas, che nel suo libro (in aramaico) Viaggio delle lacrime sul cammino del sanguescrive: «Perché siamo rimasti soltanto noi a strisciare tra queste montagne, queste valli, nel caldo, la sete e la fine? Perché?».

Malgrado l’esodo e la scarsa sensibilità della popolazione, in Iran i cristiani vivono abbastanza bene. Le autorità consentono la traduzione in persiano di libri religiosi cristiani, ma solo a certe condizioni. Il proselitismo è rigorosamente vietato e nelle chiese non si ha diritto di pregare in persiano. Alcune delle pubblicazioni cristiane in persiano sono riservate alla lettura dei soli cristiani. Va ricordato che in virtù della Costituzione islamica del 1979 (articolo 13), i cristiani assiro-caldei hanno un deputato che li rappresenta al Majlis, il Parlamento. Gli armeni, invece, hanno due deputati, uno per Teheran e il nord, l’altro per Esfahan e il sud (gli zoroastriani e gli ebrei hanno diritto entrambi a un seggio).

Le Chiese sono molto attive e alcune sono sedi vescovili. Le comunità più importanti sono gli assiri nestoriani, i caldei cattolici (fra cui l ’arcivescovo di Teheran, Ramzi Garmou), le Chiese assire evangeliche (distaccatesi dalla Chiesa nestoriana), in particolare a Teheran e Urmia. Le Chiese si occupano in particolare dei giovani, delle donne e dei bambini. Nel maggio del 2015 il patriarca della Chiesa caldea Raffaele I Sako è stato in Iran per una visita pastorale. La Chiesa conta pochi preti di cui due iraniani (padre Hormoz Aslani e il direttore nazionale delle Società Missionarie Pontificie in Iran), due residenze per anziani (a Urmia e Teheran) e alcune congregazioni di suore. La Chiesa nestoriana, dal canto suo, è tutto un brulicare di attività intorno al suo vescovo Mar Narsai Benyamin, a Teheran, e a padre Deriavouch, a Urmia. Erede di un passato prestigioso e continuatrice dell ’opera del patriarca Mar Dinka IV (19352015), anch ’egli vescovo di Teheran.

A Urmia, la chiesa Mart Mariam, presieduta da padre Deriavouch, assistito dal suo consiglio parrocchiale e da giovani sacerdoti e diaconi, è attiva in diversi ambiti: catechismo, attività rivolte ai giovani (ragazzi e ragazze), gruppi di bambini animati da donne, squadre sportive, restauro di chiese nella piana di Urmia. Dal 2000 la Chiesa assira evangelica pubblica a Teheran, in aramaico, un bollettino trimestrale molto apprezzato, Alap u Tav , diretto dal pastore Ninos Moqadas Nia. Una volta alla settimana viene trasmesso anche un programma radio ufficiale animato da Ninos Vardeh.

Nella capitale le Chiese assire e caldee hanno cattedrali (la cattedrale caldea St. Joseph e la cattedrale assira Mar Guirvagis) e gestiscono istituzioni sociali e caritatevoli. La scuola shoushan è legata al Comitato assiro di Teheran. Va tenuto conto che le scuole della comunità sono state nazionalizzate nel 1973. A Teheran, dopo la Rivoluzione islamica (1979), la scuola Behnam, frequentata da 350 studenti musulmani e cristiani, è amministrata dal ministero dell ’Istruzione, pur restando di proprietà della Chiesa caldea. L ’Università delle Religioni e delle Confessioni ( University of Religions and Denominations) della città sciita di Qom ha pubblicato diversi libri sulla religione cristiana in persiano, in particolare delle traduzioni, tra le quali la Bibbia e il Catechismo della Chiesa cattolica.

A Teheran, nel 2008, il Nuovo Testamento è stato tradotto in persiano da Pirouz Sayar a partire dalla Bibbia di Gerusalemme. Oggi questa cristianità trova alimento da una diaspora che non dimentica il proprio Paese e la sua eredità e che, tra l ’altro, contribuisce al restauro delle chiese. Di sicuro l ’archeologia, l ’epigrafia e la linguistica ci diranno di più riguardo alla ricchezza di questo patrimonio. (traduzione di Davide Frontini)

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Angelina, «la figlia di Chernobyl» operata a Brescia 30 anni dopo (Giornaledibrescia.it 26.12.16)

Angelina il 26 aprile del 1986 era nella pancia di sua madre. Doveva ancora nascere quando l’esplosione all’interno della centrale nucleare Lenin di Chernobyl, in quella che allora era ancora l’Urss, causò la fuoriuscita di una enorme nuvola di materiale radioattivo.

La polvere mortale ricoprì interi paesi e cittadine nelle vicinanze, rimaste – a distanza di trent’anni – immobilizzate in quella sospensione che sa ancora di morte e di dolore. Tra giostre, ponteggi, palazzi vuoti come scheletri di un corpo bruciato da quel soffio letale che uscì dal reattore per una serie di errori umani.
La famiglia di Angelina venne sfollata insieme ad altre 330mila persone, trasferita da Pripyat e Chernobyl a Kiev.

Poco dopo averla partorita la mamma della ragazza si è ammalata di cancro. Il padre è stato stroncato da un tumore così come il fratello. Solo lei pareva essersi salvata da quelle onde maledette. Ma così non è stato. Anche lei trent’anni dopo il disastro si è ammalata, venendolo a sapere poco dopo essersi sposata.
Così, quel viaggio di nozze in Italia, tanto sognato dai due sposini, si è di fatto trasformato in un viaggio di cure mediche, per dare un futuro alla giovane coppia. Ad aiutare la ragazza ucraina è stata l’associazione Decorati Pontifici che riunisce chi è stato insignito dalla Santa Sede di una onoreficenza, guidati da monsignor Ivo Panteghini. L’associazione con la rete internazionale di contatti tra religiosi, ha fatto visitare Angelina all’ospedale Civile in città dove si è occupato di lei il dottor Guido Tiberio che si è interessato della parte burocratica per il ricovero e poi anche della stessa operazione al linfonodo della trentenne.

A chiedere aiuto a monsignor Panteghini è stato padre Antonio Evasian, «uomo di cultura e che insegna anche all’Università di Yerevan, in Armenia». Il religioso ha conosciuto anni fa Angelina e sua madre, quando ancora abitavano a Kiev. Le ha portate via dall’Ucraina, fino in Libano e poi in Armenia. Due anni fa la terribile scoperta: un linfonodo al collo della ragazza si era di molto ingrossato. «Stando ai medici di là – spiega monsignor Panteghini – quel gozzo non era maligno. Ma padre Antonio ci ha voluto vedere chiaro e così ha chiesto a me e all’associazione di dargli una mano. È stato così che Angelina è arrivata in Italia e grazie all’amico dottor Guido Tiberio che l’ha visitata rinunciando alle sue vacanze, è stata operata». Il verdetto degli esami non è stato fausto ed anzi, una volta tornata in Armenia la giovane avrebbe dovuto seguire un protocollo di cure indicate dal chirurgo bresciano.

Cure che in Armenia però non avrebbero potuto garantire e così per la «figlia di Chernobyl» si sono nuovamente mobilitati padre Antonio e il Vescovo di Yerevan che sono riusciti a trovare un ospedale a Gerusalemme, dove Angelina è stata sottoposta alle cure chemioterapiche a lei necessarie. «Oggi è molto provata – racconta monsignor Panteghini – ma si continua a lavorare per farla curare. Tornerà in Italia a febbraio per essere sottoposta ad un esame e anche in quel caso ci dovremo occupare della sua permanenza nel nostro Paese e delle spese mediche necessarie».

Questa la storia di Angelina, raccontata da monsignor Panteghini, che non va oltre un laconico commento: «Questa è la carità che nessuno conosce ma che continua a tenere in piedi il mondo».

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Eurovision 2017: Armenia rappresentata da Artsvik (Newsly.it 26.12.16)

E’ la cantante Artsvik ad aggiudicarsi la finale nazionale armena, partecipando e vincendo il DEPI Evratesil. L’artista è stata scelta attraverso una combinazione di voti attraverso una giuria di esperti composta dagli ex partecipanti delle ultime cinque edizione dell’Eurovision e attraverso il voto del pubblico con gli sms.

L’inizio della selezione armena è partita durante l’estate 2016 e si è sviluppata in quattro fasi, svolte nell’arco di tre mesi, arrivando al capitolo finale ieri sera quando la vincitrice Artsvik Harutyunyan, 27 anni di Yerevan si è imposta sulla sua collega Marta dopo una finale che ha visto le artiste esibirsi in due manche di cover, una su un brano interamente in armeno e l’altro in lingua inglese, e un duetto.

Secondo l’emittente televisiva armena AmpTv, si sono presentati centinaia di artisti provenienti da tutto il mondo. Gli artisti sono stati selezionati per esibirsi in spettacoli dal vivo con un nuovo format, fino ad arrivare al mese di ottobre, dove si sono sfidati davanti alla giuria.

La giuria composta dai precedenti rappresentanti armeni all‘Eurovision Eurovision Song Contest: Hayko (2007), Inga e Anush Arshakayn (2009), Aram MP3 (2014), Essai Altounian (2015) ed Iveta Mukuchyan (2016) che si è classificata al settimo posto con il bellissimo brano “Lovewave“.

Il brano che Artsvik presenterà a Kiew (Ucraina) per la prossima edizione dell’Eurovision Song Contest, sarà svelato nelle prossime settimane.

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Eurovision 2017, Armenia: Artsvik vince Depi Evratesil e canterà a Kiev (Eurofestivalnews.com 24.12.16)

Dopo settimane di audizioni e sfide incrociate fra i concorrenti, si è conclusa Depi Evratesil, la lunga selezione legata all’Eurovision Song Contest lanciata dall’Armenia tre mesi orsono.

A trionfare è stata Artsvik Harutyunyan, 27enne di Yerevan, che ha sconfitto la rivale Marta in una finalissima che le ha viste contrapposte in due manche di cover, una su un brano internazionale in inglese, l’altra su un pezzo in armeno, oltre a un duetto condiviso da entrambe le cantanti.

 

Artsvik ha convinto la giuria, formata appositamente da artisti armeni attivi al di fuori del proprio paese d’origine, e pubblico da casa, che si è espresso tramite sms, con un risultato che non lascia adito a dubbi: la prossima rappresentante armena eurovisiva ha trionfato con il 71% dei voti contro il 29% racimolato dalla sfidante.

La cantante vincitrice, che nella selezione ha militato nel team di Essaï Altounian, membro dei Genealogy, ha un passato già costellato da varie esperienze. La sua voce si è fatta apprezzare nella seconda edizione di The Voice in Russia, arrivando fino alla fase dei duelli. La partecipazione al programma le ha donato popolarità in Armenia, tanto da essere invitata come ospite speciale nella finale della versione armena dello stesso talent nel 2013.

Diversi i singoli all’attivo di Artsvik, il più famoso Sestra po dukhu, un duetto con la russa Margarita Pozoyan, che ha superato i due milioni di visualizzazioni su YouTube.

Il brano che l’artista canterà a Kiev nel maggio prossimo sarà presentato nei prossimi mesi.

Business news: Emirati-Armenia, incontro fra ministri al Mansoori e Karayan a Dubai, focus su cooperazione economica (Agenzianova 26.12.16)

Abu Dhabi, 26 dic 14:00 – (Agenzia Nova) – Sultan bin Saeed al Mansoori, ministro dell’Economia emiratino, e Suren Karayan, ministro dello Sviluppo economico dell’Armenia, hanno discusso del rafforzamento delle relazioni economiche e commerciali tra i due paesi. I colloqui hanno avuto luogo nel corso di una riunione tenutasi a Dubai, alla presenza dei sottosegretari Mohammed Ahmed Bin Abdulaziz al Shehhi e Abdullah al Saleh. L’incontro si è concentrato sullo stato di avanzamento delle relazioni bilaterali tra i due paesi e sulle prospettive volte ad aumentare gli scambi commerciali e del turismo. (Res)

Tu. Che potresti essermi sorella (Tempi.it 23.12.16)

Con la sua “Lettera a una ragazza in Turchia” Antonia Arslan inanella vicende cupe e piene di speranza. E dove il sangue rivela verità ignote

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Nella nostra fievole Europa, dopo settant’anni di pace, oggi non abbiamo personali ricordi di sangue, ma oscure visioni di orrendi eventi che imperversano in un altrove immaginato, fotografato, descritto ma non presente: e tuttavia siamo pervasi da oscure premonizioni, anche se con mille esorcismi tentiamo di ignorarle, di sistemarle in angoli bui e chiusi della nostra testa, fra i timori che non ci riguardano direttamente». Parole chiare, granitiche, dolorosamente autentiche, eppure scritte con delicata grazia. Così leggo nelle prime pagine del nuovo, splendido libro di Antonia Arslan Lettera a una ragazza in Turchia, appena edito da Rizzoli, giusto in tempo per includerlo nei regali di Natale (o di Chanukkhah, come nel mio caso).

arslan-lettera-ragazza-turchiaSospendo la lettura e per un attimo assaporo compiaciuto un’emozione rara – appagante e a suo modo aristocratica, anche se per nulla snob –, quella della gratitudine verso chi ha trovato le parole esatte e calibrate, senza sbavature e nella giusta economia, per esprimere ciò che da tempo vado rimuginando e soffrendo ma che, quando interpellato, riesco a comunicare solo con inadeguata goffaggine. E intuisco che questa frase di Antonia Arslan, così potente nel suo vellutato realismo, diventerà una citazione di cui abuserò. E mi chiedo quale sia la radice ultima di questa gratitudine particolare: forse il senso di liberazione profonda che scaturisce dal vedere quella realtà, lungamente scorta, finalmente riconosciuta, e non tirannicamente fuggita o acquietata? Forse la scoperta, rinfrancante e intima – ma non intimista –, che esiste un altro “tu” con cui sei in sintonia e che ti fa sentire meno solo?

Riprendo a leggere: «E una paura subdola, sottile, come un gas venefico si insinua in ogni cuore. Perché loro, i superstiti di un tempo, avevano più speranza: l’orrore indicibile c’era stato, ma era dietro di loro, nel passato, non da qualche parte in un futuro possibile». Un’altra tremenda verità, che spesso fa capolino e che, ancor più spesso, si ricaccia, bandendola, nell’ultimo ripostiglio dei pensieri temuti e silenziati. Riconosco la lingua di Antonia Arslan, cesellata e fluente. E riconosco lo stile, sempre realista, talora drammaticamente, ma mai sgarbato.

Chi sono i superstiti? Gli armeni che sopravvissero ai massacri ottomani del XIX secolo, alle successive purghe efferate di inizio Novecento e, ovviamente, al genocidio perpetrato contro il popolo armeno dai Giovani Turchi e dai loro sostenitori e collaboratori nel corso della Prima Guerra mondiale. Alcuni armeni fuggirono in tempo, riparando in Europa o negli Stati Uniti, oltre Atlantico. Altri scamparono sì a un’ondata di violenze, ma trovarono crudelmente la morte in quella della generazione seguente. Altri ancora, sopravvissuti al genocidio e all’infuriare dell’abiezione omicida che sterminò le loro famiglie e che frantumò le loro esistenze, dimorarono poi in Europa, in Armenia e in ogni dove del mondo, ricostruendo il loro presente individuale e collettivo, determinati con tenacia e intelligenza a edificare un futuro per il loro popolo. Vi è, infine, un’ulteriore categoria di superstiti, talvolta ignara dei fatti talvolta no, ma mi diffonderò a tale proposito tra un po’, parlando della “ragazza di Turchia”.

Antonia Arslan ci consegna preziosi frammenti di storie vere, alcune delle quali, riscoperte recentemente, riguardano sia gli splendori sia le sofferte peregrinazioni della sua antica famiglia, gli Arslanian. Tre storie femminili, in cui la vita e la morte, la tragedia e il calore del focolare domestico, la speranza e la disperazione più cupa, si inanellano indissolubilmente. Incontriamo così la giovane Hannah, a cui è stato concesso di poter invecchiare, sopravvissuta e poi esule negli Stati Uniti, ove è divenuta un’imprenditrice di successo. Incontriamo la bella Iskuhi e il suo Khayel, infiammati di gioventù, di passione e di sogni per il loro popolo, da secoli avvilito e sottomesso. «Noi dobbiamo aiutarlo a riscoprire se stesso. A far rinascere la nostra antica cultura… E farlo vivere meglio, costruire ospedali e case per gli anziani, e scuole. Soprattutto scuole», pensa lui. E lei non è da meno. Antonia, infine, presta la voce a Noemi, perché racconti la sua tragedia e canti la sua straziante, ultima canzone. Riecheggia la Noemì biblica, «mia delizia», orbata, nel racconto dell’Arslan come nelle pagine della Scrittura, del suo uomo ed esposta all’imperversare degli eventi senza riparo alcuno, resa «amara», amarissima, da Dio (Ruth, I). Una Noemì – quella arslaniana – senza Ruth, però; una Noemì che non sopravvisse, che non ebbe modo di tornare in patria e di gustare nuovamente il bene. Una Noemì uccisa.
Ed eccoci, in conclusione, alla “ragazza” di Turchia. Antonia Arslan si rivolge a una giovane donna in un paese islamico, a una fanciulla in uno Stato che sta imboccando, tra mille titubanti e proni silenzi, derive totalitarie evidenti a tutti, opportunamente miscelate con l’islam politico. Straordinaria Arslan! Mi ricollega potentemente passato e presente e individua nel femminile inesausta forza narrativa e simbolica, come pure scomodo vaglio critico e speranza.

Ma c’è molto di più, proprio a proposito di quell’ulteriore categoria di sopravvissuti che poc’anzi ho evocato. In un passo del libro, Arslan affida un urlo a un accenno. Una verità forse ignota ai più è così affermata e ristabilita in punta di penna, un enorme atto di coraggio si traduce in parola. Così scrive: «È possibile, mia cara, è perfino probabile, che tu non sia solo turca, che il sogno che vi viene inculcato fin dal giardino d’infanzia di una purezza di sangue che vi vede eredi diretti dei conquistatori venuti dalle steppe sia un vano artificio retorico. Molto vi siete mescolati col sangue dei conquistati. Il numero delle bambine e delle giovani donne armene che vennero rapite e inserite in famiglie turche, togliendo loro nome, identità, religione, alfabeto e scrittura, costumi e contatti con altri sopravvissuti è rimasto ignoto per più di ottant’anni…».
Basta parole. Compratelo, regalatelo, leggetelo.

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“Lettera a una ragazza in Turchia” di Antonia Arslan (Arabpress.eu)

Il Natale perduto dei cristiani di Aleppo (Corriere della sera 23.12.16)

Una volta i quartieri si illuminavano a festa per la celebrazione della Natività. I vescovi ricevevano nelle loro residenze gli auguri dai leader musulmani, che avrebbero ricambiato per le feste islamiche: avveniva anche tra famiglie. Ora serpeggia paura e incertezza. Serve la pace, poi si vedrà
di Andrea Riccardi

Il Natale era bello ad Aleppo. I cristiani erano tanti: circa 300.000 su due milioni di abitanti. I loro quartieri erano illuminati a festa e il clima contagiava un po’ anche i musulmani. I vescovi ricevevano nelle loro residenze gli auguri dai leader musulmani, che avrebbero ricambiato per le feste islamiche. Questo avveniva anche tra famiglie. Aleppo è stata sempre una città di buona intesa tra musulmani e cristiani. C’erano anche gli ebrei, finché il nazionalismo arabo non li spinse ad andar via. Qualcuno è rimasto. Un negoziante di fronte alla chiesa armena ha abbandonato la città di nascosto poco tempo fa. L’ultima famiglia ebrea, con un’anziana ultraottantenne, ha lasciato Aleppo nel 2015 con un’operazione dei servizi israeliani. Vivere insieme era frutto di una coabitazione secolare.

Il tempo di Natale esaltava questo clima. Mi piace citare sempre un verso del poeta siriano Adonis: «La chiesa è un segno/ la moschea è una voce/ Tra le due, la vita circola a Aleppo come in un giardino». Poi sono venuti i Natali di guerra. Tra la chiesa e la moschea, non c’era più il giardino della vita ma circolavano paura e morte. Aleppo è stata assediata e colpita dai missili dei ribelli, tra cui Al Nusra, l’ex formazione qaedista. Erano a pochi passi dai quartieri cristiani. Quando sarebbero entrati? I cristiani, abbarbicati alle truppe di Assad, ne temevano l’arrivo: non capivano le denunce dell’Occidente sull’assedio siriano ad Aleppo Est occupata dai loro nemici. Hanno sentito di essere incompresi in un rischio mortale. Oggi, Aleppo Est è nelle mani di Assad. Per i cristiani è la fine di un incubo. C’è più serenità e non ci si lamenta. È tornata l’acqua. Ma fa freddo e manca il riscaldamento, come il gas e l’elettricità. Soprattutto pesano cinque anni di angosce e guerra. E poi tanti cristiani se ne sono andati. Qualcuno è rimasto per fedeltà. La maggior parte di loro sono poveri.

Il Natale è celebrato da tutti il 25 dicembre, eccetto gli armeni. Le confessioni cristiane sono tante, ma in buona armonia: i cattolici (latini, greco-cattolici, maroniti, armeno-cattolici, caldei e siro-cattolici), i greco-ortodossi, gli armeni, i siro-ortodossi, gli evangelici.

Sono sopravvissute alla secolare pressione musulmana. Ci si sposa tra gente di diversa confessione senza problemi. Vige la regola non scritta: i figli seguono la Chiesa del padre. I vescovi si riuniscono spesso, anche per guidare il grande impegno umanitario della Chiesa nella catastrofe. Nonostante le distruzioni, gestiscono tante scuole aperte ai musulmani. All’appello, mancano due vescovi: il siriaco Mar Gregorios Ibrahim e il greco-ortodosso Paul Yazigi, non più tornati da una missione umanitaria fuori Aleppo. Non li hanno sostituiti per non rinunciare alla speranza di un ritorno.

Ogni comunità celebrerà il Natale di pomeriggio, perché è pericoloso di notte. Molte chiese sono a terra specie nel vecchio quartiere cristiano. Del resto l’antica moschea degli Omayyadi è molto danneggiata e il suo minareto millenario è caduto. Il vescovo greco-cattolico non scenderà più, con povera e tradizionale solennità, nella sua cattedrale, preceduto dal mazziere, che batte a terra secondo l’uso dei dignitari ottomani. La chiesa non è agibile. Una grave perdita è la distruzione della seicentesca cattedrale armena, un gioiello nascosto tra le case, perché nel periodo turco le chiese non potevano stare sulla via.

Ricordi di tempi difficili. Gli armeni di Aleppo salvarono tanti connazionali, deportati nel 1915 dai turchi verso la morte nel deserto. Durante gli ultimi anni, i cristiani si sono ricordati delle situazioni dure del passato. Sono sempre rimasti. Ora che faranno? Riemergono paure verso i musulmani. Qualche esplosione fa temere, mentre si combatte ancora non lontano. Soprattutto serpeggia l’incertezza: ci sarà spazio per i cristiani ad Aleppo nel futuro o l’odio è ormai incolmabile? Il 1° gennaio, si farà un concerto per la pace nella chiesa armeno-protestante, cui tutti sono invitati. Intanto ci vuole la pace, poi per il futuro si vedrà.

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Il maestro Lino Stronati, in arte Stroli, ospite con le sue opere nel Tour Piemonte (viverejesi.it 22.12.16)

Il maestro Lino Stronati, in arte Stroli, ospite con le sue opere nel Tour Piemonte della manifestazione itinerante: Il colore della Libertà: il Popolo Armeno e la sua lotta per la sopravvivenza” per conoscere le tradizioni, i costumi e la storia in un gemellaggio virtuale con il Popolo Armeno in occasione dei cento anni dal Genocidio.

Continuano le esposizioni del Tour Piemonte che con la manifestazione “Il colore della Libertà: il Popolo Armeno e la sua lotta per la sopravvivenza” patrocinato dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia e dall’Unione Armeni d’Italia, ricorda i cento anni dal Genocidio Armeno.
Tra le opere si distinguono “Rinascita” e “Miraggio” del maestro Lino Stronati, in arte Stroli, di Jesi (AN), che hanno ulteriormente arricchito la manifestazione integrandosi perfettamente nel percorso storico-lirico che è stato creato per rendere omogenei stili, tecniche e interpretazioni, raccontando le vicissitudini di un intera nazione, gravemente offesa ma ancora integra nella sua dignità di Popolo per il quale attraverso le opere di Stroli si può intravedere una rinascita reale e non più quel miraggio che purtroppo si ripropone per altri popoli. Stroli ha aderito all’invito rivolto ad una rosa di venticinque artisti selezionati tra i migliori rappresentanti dell’Arte contemporanea italiana, per partecipare al ciclo di esposizioni che ha preso avvio dal territorio piemontese e che si sposterà poi in altre regioni italiane, seguendo un percorso sul territorio nazionale prefissato dalle associazioni aderenti al progetto.

La manifestazione ha preso l’avvio lo scorso 21 aprile presso la sala Conferenze della Biblioteca Comunale a Pianezza (TO). In giugno la manifestazione si è spostata a Torino presso la Sala Mostre del Comune, ad ottobre ad Avigliana (TO) presso la Sala Santa Croce e infine a fine novembre a Vinovo presso l’Ala Comunale (TO). Tra pochi giorni sarà di nuovo a Torino.
La manifestazione che oltre alla Compagnia Artisti e Autori di Torino organizzatrice del Tour Piemonte, vede l’adesione di Associazione Artisti del Delta (di Porto Viro-RO), Francesca Guidi Arte (di Pesaro) e Aion Arte (di Leonessa-RI), ha ricevuto anche il Patrocinio del Comune di Pianezza, del Comune di Torino, del Comune di Avigliana e del Comune di Vinovo, si avvale del sostegno della Ditta Serapian Srl di Milano e si concluderà al termine del tour a Pianezza nella serata in cui verrà presentato il primo volume del catalogo ed alla quale parteciperà il Presidente dell’Unione Armeni d’Italia e il suo rappresentante in Piemonte

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L’arte dei Led dell’artista pesarese Francesca Guidi protagonista in Piemonte

ARMENIA: Siglato un nuovo accordo militare con la Russia (Eastjournal 20.12.16)

Nel corso dei mesi di ottobre e novembre Russia e Armenia hanno negoziato e firmato un nuovo accordo militare sull’istituzione di un sistema di difesa aerea comune tra i due paesi.

Nello specifico il patto prevede la creazione di un centro di comando comune per il monitoraggio della situazione dei cieli nel Caucaso del Sud che permetterà a Russia e Armenia di condividere informazioni e analizzare la situazione in modo congiunto.

Secondo l’ex ministro della Difesa armeno Vagharshak Harutyunyan, grazie all’accordo, la difesa aerea dei due paesi dovrebbe funzionare in modo totalmente unificato nel caso di un attacco contro il paese caucasico, integrando nel sistema di difesa anche l’aviazione russa del Caucaso del Nord e le flotte del mar Nero e del mar Caspio.

Il patto estende la già ampia cooperazione militare tra Mosca e Erevan nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), un’alleanza che include anche gli altri membri dell’Unione Eurasiatica (Bielorussia, Kazakhstan e Kirghizistan) oltre al Tagikistan. Per questo motivo, non cambierà in maniera sostanziale i rapporti tra Russia e Armenia e l’equilibrio geopolitico della regione caucasica.

Da parte russa, la firma dell’accordo conferma (se ancora ci fossero dubbi in proposito) la volontà  di mantenere una forte influenza nel Caucaso del Sud. Si tratta quindi della logica continuazione della linea politica di Mosca, che si è posta su posizioni legittimiste riguardo all’indipendenza delle regioni separatiste georgiane dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud e che si è fatta garante della difesa di Erevan, mantenendo una base militare in territorio armeno. Tale posizione nel Caucaso è parte di un più grande disegno strategico russo sul territorio ex sovietico, dove non sono accettate le interferenze di potenze straniere, che anzi sono presentate come una minaccia per la Russia dalla propaganda del Cremlino.

Dal punto di vista armeno, l’alleanza è vitale per lenire le preoccupazioni sulla propria sicurezza causate dalla Turchia e dall’Azerbaijan. In questo senso, lo scorso 8 ottobre, una tripla violazione dello spazio aereo armeno da parte di elicotteri turchi ha allarmato Yerevan, viste le pessime relazioni con Ankara, mentre il breve conflitto con gli azeri dello scorso aprile ha dimostrato quanto sia incerta la situazione del Nagorno Karabakh.

La questione della repubblica separatista non riconosciuta è il grande quesito che pende su tutti gli accordi militari e, in generale, sulle relazioni russo-armene. Formalmente, Mosca non sarebbe obbligata a intervenire nel caso di un attacco azero in Karabakh, poiché l’accordo include solo la difesa del territorio dello stato armeno. Dal punto di vista di Yerevan, quindi, stringere i rapporti con Mosca è considerato come un mezzo per disincentivare le volontà belliciste di Baku fomentate dal grande riarmo che l’Azerbaijan si è finanziato negli ultimi anni coi ricavati della vendita delle materie prime.

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