ARMENI, la strage vista dagli ebrei. Avvenire

Antonia Arslan

Il libro: calpestati e dimenticati
Nel 2015 ricorre il centenario del grande genocidio armeno. Per l’occasione la casa editrice Giuntina ha pensato di pubblicare un libro con quattro testimonianze di ebrei sconvolti, con le loro famiglie e amici, dall’essere stati testimoni della furia omicida e distruttrice dei turchi. Si chiama Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno (pagine 140, euro 12). Curato da Fulvio Cortese e Francesco Berti, con le traduzioni di Rosanella Volponi, propone interessanti scritti inediti degli anni immediatamente seguenti ai fatti. Pubblichiamo qui ampi stralci della prefazione di Antonia Arslan (nella foto). Quattro testimonianze sul e dal genocidio che in qualche modo ne ricostruiscono la storia, ne chiariscono le peculiarità e ne descrivono gli orrori. Una amara denuncia delle responsabilità, resa col coraggio di chi non rimane in silenzio davanti all’umanità calpestata. Ma soprattutto l’indignazione di chi vede il mondo restare inerme se non indifferente davanti a un crimine tanto efferato.

In ogni testimonianza ritornano, con infallibile puntualità, le stesse tragiche informazioni. E sono informazioni di prima mano, contemporanee allo svolgersi dei fatti. Come in una scena di film, girata più volte da differenti angoli di prospettiva, ma con gli stessi attori che recitano le stesse battute, da ognuno ritroviamo descritta la tecnica delle stragi degli armeni: l’uccisione degli uomini, la deportazione verso il nulla di donne, vecchi e bambini, gli assalti alle carovane, le violenze e gli orrori, i gendarmi avidi e crudeli, l’apocalisse del ferro e del fuoco. Balza agli occhi un’osservazione immediata: a tutti loro appare chiara, con palmare evidenza, la certezza della premeditazione, cioè la volontà precisa, da parte del gruppo di Giovani Turchi a capo del governo ottomano, di pianificare con estrema accuratezza lo svolgersi degli eventi.

Attraverso le tante storie raccontate dai testimoni facenti parte di un popolo, quello ebraico, ahimè più che esperto nel riconoscere i sintomi di pogrom e persecuzioni, il lettore rivive con vivida immediatezza i fatti che condussero all’eliminazione degli armeni dalle loro sedi ancestrali, e la brutalità efficiente dei membri del partito e delle bande di irregolari. Questi si servirono per i loro scopi di ogni astuzia e ogni mezzo possibile, disarmando i soldati di origine armena, annientando gli sporadici tentativi di resistenza, costringendo le donne alle marce della morte, col risultato finale di «estirpare» dalle radici la struttura sociale, culturale e religiosa del popolo armeno.

«In tutta questa guerra di orrori – scrive per esempio Lewis Einstein – questo [l’annientamento degli armeni] deve rimanere l’orrore supremo. Niente ha eguagliato la distruzione, silenziosamente pianificata, di un popolo, né i burocrati tedeschi possono facilmente sfuggire alla loro terribile parte di responsabilità per la loro acquiescenza in questo crimine. Il popolo armeno in Asia Minore è stato virtualmente distrutto».

È la stessa conclusione a cui giunge, con forza definitiva, Aaron Aaronsohn, nel suo appello Pro Armenia: «I massacri armeni sono frutto dell’azione pianificata con cura dai turchi, e i tedeschi certamente dovranno condividere per sempre con loro l’infamia di questa azione ». L’accusa verso i tedeschi in tutte queste testimonianze corre parallela a quella verso i turchi. Nessuno sembra aver dubbi sul fatto che le alte sfere dell’impero tedesco, uomini politici, diplomatici, militari, siano state complici dell’immenso delitto che è stato compiuto contro il popolo armeno: se non attivi partecipanti, perlomeno passivi spettatori di un’infamia contro la quale sarebbero potuti intervenire, vista la loro massiccia influenza sul governo turco – e non lo fecero. Anzi, come nel caso dell’ambasciatore a Costantinopoli Von Wangenheim e di altri tedeschi in posizioni importanti, arrivarono a giustificare i massacri e a favorire una politica di impassibile indifferenza.

Particolarmente interessante è il testo di Aaron Aaronsohn, palpitante testimonianza diretta del capo del famoso gruppo Nili, composto da alcuni, pochi, giovani ebrei, figli di famiglie emigrate dalla Romania verso la Terra Promessa alla fine dell’Ottocento, che dalla loro postazione in Palestina, dunque all’interno dell’impero ottomano, decisero di fornire preziose informazioni strategiche all’intelligence inglese. L’aver assistito impotenti al passaggio delle carovane degli armeni avviati allo sterminio, e la sensazione che dopo gli armeni lo stesso destino poteva toccare agli ebrei, influì potentemente sulla loro decisione.

Le informazioni fornite da Aaron, da sua sorella Sarah e dagli altri membri del gruppo furono preziose per l’esito della guerra in Siria e in Palestina, ma fu proprio la tragedia armena all’origine del loro appassionato impegno politico, come traspare chiaramente dai loro scritti dell’epoca, realistici, efficaci, ricchissimi di dati e di informazioni. Vi si percepisce non solo l’accuratezza emotiva dei testimoni oculari, ma anche l’empatia compassionevole e la fraternità nel dolore verso le disgraziate vittime armene: «I campi sono deserti, intorno al pozzo dei villaggi le ragazze armene non riempiono più le loro brocche. I turchi sono passati là. […] Armeni, fratelli miei, è un ebreo che vi sta parlando. Il figlio di una razza perseguitata, oltraggiata, mal-trattata, come lo è la vostra. […] Armeni, fratelli miei, noi non possiamo aspettarci nulla dai governi, noi abbiamo soltanto le nostre anime…» scrive per esempio con lucida passione, in un articolo da New York del novembre 1915 intitolato Armenia!, il terzo fratello, Alex. Più toccante di ogni parola è però la storia di Sarah. Lei non scrive, soffre e agisce.

Nell’estate del 1915, viaggiando da Costantinopoli verso casa, attraversa tutta l’Anatolia, vede con i suoi occhi ciò che viene fatto agli armeni, e ne rimane intossicata per sempre, tanto da coinvolgere profondamente i suoi fratelli, e da venir colpita per anni da seri disturbi psichici. Ma quando, nel settembre 1917, verrà scoperta, imprigionata e torturata, Sarah non rivelerà niente dell’attività del suo gruppo; si limiterà a inveire contro i suoi torturatori prima di uccidersi, maledicendoli e chiamandoli codardi e bestie selvagge, ma anche affermando la sua vittoria: «Voi siete perduti! La salvezza sta arrivando. Io ho salvato la mia gente, io ho vendicato il sangue degli armeni. Siate maledetti fino alla fine dei tempi!».

Completano il libro alcune pagine del dossier di Raphael Lemkin, il giurista e intellettuale ebreo polacco che inventò nel 1944 il termine «genocidio» e definì nelle sue specifiche caratteristiche il tipo di sterminio che da allora viene chiamato con questo nome. Come è noto, è la definizione di Lemkin che venne quasi per intero accettata dalle Nazioni Unite nella famosa seduta del dicembre 1948, ma va ricordato che egli cominciò a occuparsi di crimini contro l’umanità partendo dal caso armeno, di cui aveva cominciato ad appassionarsi leggendo i resoconti del processo di Berlino allo studente Soghomon Tehlirian, che nel 1921 aveva giustiziato il massimo responsabile del genocidio, Talaat Pascià, il ministro dell’Interno che nel 1915 era stato il principale organizzatore della «pulizia etnica» contro gli armeni.

Ed è proprio con Lemkin, questa figura cruciale e troppo spesso dimenticata della riflessione politica e umanistica del ventesimo secolo, che il tema dell’“invenzione genocidaria”, questo cancro della modernità, viene definito con fredda passione nelle sue infami modalità e conseguenze.

I tweet del presidente dell’Azerbaijan contro l’Armenia. Ilpost.it

Ilham Alivey ha scritto che l’Armenia «è un paese povero che non conta nulla» e altre cose molto dure: i due paesi hanno da anni pessimi rapporti

14 gennaio 2015

Martedì 13 gennaio il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Alivey, ha scritto una serie di tweet molto duri contro l’Armenia, paese che confina con il territorio azero a ovest e col quale il suo governo ha pessimi rapporti. Dopo aver scritto 17 tweet sui miglioramenti che il paese ha compiuto nel 2014 – riguardanti la crescita economica, la diminuzione della disoccupazione e dell’inflazione, tra le altre cose – Alivey ha pubblicato diversi messaggi per attaccare l’Armenia e per denunciare la situazione del Nagorno-Karabakh, territorio che si è proclamato indipendente all’inizio degli anni Novanta e che è conteso da Azerbaijan e Armenia.

«Nessuna forza esterna può parlarci con il linguaggio da ultimatum».

«L’Armenia è un paese povero che non conta nulla».

 

«Se l’Armenia non avesse due grandi sostenitori in varie capitali, la guerra in Nagorno-Karabakh sarebbe già stata risolta molto tempo fa».

 

Mercoledì il ministro della Difesa azero ha accusato di nuovo l’Armenia di avere violato decine di volte la tregua in vigore tra i due paesi. Lunedì 12 gennaio il ministro della Difesa armeno aveva detto che la sera prima un gruppo di uomini armati azeri aveva cercato di superare il confine tra i due paesi: un uomo armato e un civile azero sono rimasti uccisi, ha detto il governo armeno. Il ministro della Difesa azero ha negato che fosse avvenuto l’incidente.

Armenia e Azerbaijan hanno combattuto una guerra tra il 1992 e il 1994: la guerra è finita con una tregua, comunque piuttosto precaria, che è stata violata e rinnovata per gli anni successivi. Nel settembre del 2014 ci sono stati nuovi scontri tra gli eserciti dei due paesi per il controllo del Nagorno-Karabakh, i più gravi dal 1994. Ancora oggi l’Armenia controlla circa il 20 per cento del territorio dell’Azerbaijan, tra cui la maggior parte del Nagorno-Karabakh e parecchie altre regioni lì attorno.

Le Kardashian si preparano a visitare l’Armenia. Tio.ch

Le tre sorelle Kardashian si dicono molto eccitate in vista della visita nella loro terra d’orgine

LOS ANGELES – Kim, Khloé e Kourtney Kardashian si preparano in vista del viaggio in Armenia, la terra d’orgine del padre scomparso Robert.

Una fonte ha rivelato a E!News: “Visitare l’Armenia è da sempre nella lista dei desideri di Kim. Tutte loro sono molto eccitate. Vogliono sapere qualcosa di più sulle loro origini”.

In attesa di maggiori dettagli sul viaggio, in programma ad aprile, della comitiva dovrebbero essere anche la piccola North, figlia di Kim e Kanye West, e i tre bambini di Khloé, Mason, Penelope e la neonata Reign, sotto la guida dei cugini che dovrebbero mostrar la loro terra d’origine.

Kanye pare abbia già dato la sua disponibilità mentre non è ancora certa la presenza di Scott Disick, il compagno della sorella minore Kourtney.

Recentemente Kim confessava come visitare l’Armenia fosse uno dei sogni che non era ancora riuscita a realizzare.

“La gente mi chiede spesso informazioni sulle mie origini – raccontava – ma sfortunatamente non sono mai stata in Armenia. Andare lì è un sogno e lo realizzerò sicuramente.”

Il viaggio alla scoperta delle radici passate renderebbe sicuramente orgoglioso il padre della socialite, Robert, morto di cancro nel 2003.

La star dei reality spiegava: “Mio bisnonno era armeno e mia bisnonna era metà armena e metà turca. Mia madre è inglese e io sono per metà armena ma sono stata cresciuta con l’influenza armena. Ho sempre sentito storie sull’Armenia, mangiato cibo armeno e rispettato le festività armene. Mio papà sarebbe orgoglioso se andassimo a scoprire le nostre radici. Ci diceva sempre di essersi rifiutato di rimuovere il suffisso -ian dal nostro cognome al pari di quanto fatto da altri armeni emigrati negli Stati Uniti. Era orgoglioso di essere armeno e uno dei suoi più grandi rimpianti era quello di non averci mandato in scuole armene. Io sono orgogliosa di essere armena e di identificarmi con i miei fan armeni”.

Famiglia sterminata da un soldato Unico sopravvissuto, un neonato. Unionesarda

Un’intera famiglia composta da 6 persone è stata uccisa a colpi di kalashnikov in Armenia.

E’ ricercato il sospetto autore di una strage avvenuta a Gyumri, in Armenia. Valeri Permiakov, soldato russo, è accusato di aver ucciso a colpi di kalashnikov sei membri di una famiglia; l’unico sopravvissuto è un bimbo di sei mesi, che però è stato gravemente ferito da una serie di coltellate ed è in gravi condizioni. Sul luogo della carneficina sono stati ritrovati degli stivali militari con all’interno il nome del soldato sulle cui tracce si è messa la polizia. Risulta che Permiakov abbia abbandonato la base russa in Armenia in cui prestava servizio senza più dare notizie di sé.


 

Fermato il russo sospettato di strage in Armenia. Voce della Russia 13.01.2015

 

Le guardie di frontiera hanno fermato il militare russo sospettato di uccisione di una famiglia di 6 persone nella città armena di Gyumri.

Il militare, che si chiama Valery Permiakov, è stato fermato mentre cercava di varcare il confine armeno-turco.

Secondo i dati della polizia, lunedì mattina a Gyumri, seconda città dell’Armenia situata nel nord-ovest del paese, dove è dislocata la base n.102 delle forze armate della Russia, con un fucile d’assalto è stata uccisa un’intera famiglia, compresa una bimba di due anni.

È sopravvissuto soltanto un bambino di 6 mesi che però è stato ferito al petto e ora si trova in rianimazione in gravi condizioni.
Per saperne di più: http://italian.ruvr.ru/news/2015_01_13/Fermato-il-russo-sospettato-di-strage-in-Armenia-2343/

 

Venezia, le mostre del 2015 iniziano con un tributo ad Armeni ed Ebrei. Genteveneta

Questo nuovo anno non si sa se porterà la tanto sospirata ripresa economica, ormai assente da parecchi anni e a ogni inizio anno invocata. Ma per chi desideri arricchirsi culturalmente, Venezia nel 2015 offrirà molte possibilità di ammirare mostre e opere d’arte di primaria importanza, ribadendo ancora una volta il ruolo centrale della nostra città a livello internazionale nel settore delle arti e della cultura.

Si comincia già il 9 gennaio 2015 con l’inaugurazione presso la Libreria Sansoviniana in Piazzetta San Marco di “Armin T. Wegner, un giusto per gli Armeni e per gli Ebrei”. Si tratta di un’esposizione che consta di 24 pannelli con 80 fotografie scattate dall’Ufficiale tedesco Armin T. Wegner, testimone oculare del genocidio degli Armeni perpetrato nel 1915. 

Giunge così a Venezia una mostra itinerante che ha già toccato 90 città in Italia e all’estero, ora arricchita di un nuovo contributo che mette in risalto il rapporto di Wegner con l’ebraismo e la sua resistenza al nazismo (in mostra saranno proposti il testo della lettera inviata da Wegner a Hitler e un estratto dell’intervista con Martin Rooney sul rapporto tra Wegner e l’ebraismo). La rassegna resterà visitabile fino al 3 febbraio. 

Si continua poi a febbraio 2015 con la Collezione Peggy Guggenheim, che quest’anno omaggia il grande pittore statunitense Jackson Pollock: prima dal 14 febbraio al 6 aprile 2015 con l’esposizione di “Alchimia”, uno dei primi dipinti realizzati da Pollock con il ”dripping” (tecnica dello sgocciolamento inventata dallo stesso artista americano) e recentemente restaurato; poi dal 22 aprile al 14 settembre 2015 sarà la volta di “Murale. Energia resa visibile”: dagli Usa arriva infatti l’opera più grande mai realizzata da Jackson Pollock, appunto il suo celebre Murale di ben 6 metri di lunghezza. In contemporanea, sempre dal 22 aprile al 14 settembre 2015, si terrà la prima retrospettiva dedicata al fratello Charles Pollock con opere concesse dall’Archivio Charles Pollock di Parigi e dall’American Art-Smithsonian Institution.

Il 6 marzo a Palazzo Ducale si inaugura la mostra “Henri Rousseau. Il Candore Arcaico”, dedicata al grande pittore francese di fine Ottocento, le cui opere rappresentano una significativa esperienza nella cultura figurativa dell’avanguardia francese.
Il 12 aprile aprono in contemporanea una mostra a Palazzo Grassi e una a Punta della Dogana, entrambe fiori all’occhiello del magnate francese François-Henri Pinault.

Palazzo Grassi accoglierà una grande retrospettiva dedicata all’opera di Martial Raysse, uno dei più significativi pittori francesi degli ultimi sessant’anni, vincitore del Praemium Imperiale 2014. La mostra sarà la prima monografica dedicata all’artista al di fuori della Francia dal 1965 e raccoglierà più di 300 lavori (pitture, sculture, installazioni al neon e video), di cui circa la metà mai esposti al pubblico. Questa esposizione fa parte del programma di mostre monografiche dedicate ai maggiori artisti contemporanei – inaugurato da Palazzo Grassi nell’aprile 2012 con Urs Fischer e proseguito nel 2013 con Rudolf Stingel – che si alternano alle esposizioni tematiche con opere della Pinault Collection.

In contemporanea a Punta della Dogana sarà inaugurato “Slip of the Tongue”, un progetto espositivo inedito, curato dall’artista danese ma di origine vietnamita Danh Vo, in collaborazione con Caroline Bourgeois (che si occupa anche dell’esposizione precedente).

A maggio poi, in laguna, come di consueto, apre la Biennale d’arte, in questa 56a edizione diretta dal curatore Okwui Enwezor.
Infine, anche se non avrà luogo a Venezia, non si può non citare la mostra “Carpaccio, Vittore e Benedetto da Venezia all’Istria”, che apre a Palazzo Sarcinelli a Conegliano il 7 marzo.

Marco Monaco

1915: 1.5 milione di martiri Armeni. La Stampa

Un secolo fa il “triumvirato” a capo del governo turco si preparava a dare il via al genocidio degli armeni (e delle altre minoranze cristiane dell’Impero). La tragica ironia della storia vuole che esattamente un secolo più tardi quelle stesse regioni vedano in atto una nuova persecuzione contro i cristiani, condotta nel nome dell’islam da fondamentalisti armati e finanziati dai Paesi del Golfo, con la complicità di Ankara e dell’occidente.

 

marco tosatti

 

Un secolo fa il “triumvirato” a capo del governo turco si preparava a dare il via al genocidio degli armeni (e delle altre minoranze cristiane dell’Impero). La tragica ironia della storia vuole che esattamente un secolo più tardi quelle stesse regioni vedano in atto una nuova persecuzione contro i cristiani, condotta nel nome dell’islam da fondamentalisti armati e finanziati dai Paesi del Golfo, con la complicità di Ankara e dell’occidente. Nel genocidio armeno, il primo del secolo dei genocidi, morirono centinaia di migliaia di persone. E i cento anni dall’inizio di quella tragedia saranno segnati dalla più grande canonizzazione di massa mai verificatasi.

 

La Chiesa apostolica armena la cui sede è in Armenia, a Echmiadzin proclamerà il martirio di un milione e mezzo di uomini, donne e bambini uccisi nel 1915 e negli anni seguenti. Lo annuncia Aleteia, citando una lettera enciclica del patriarca della Chiesa Apostolica Karekin II. La cerimonia si svolgerà il 23 aprile. IL 24 aprile 1915 ebbe inizio il genocidio, con arresti, violenze e devastazioni compiute a Costantinopoli. Le celebrazioni si estenderanno per tutto l’anno, ha sottolineato Karekin II , specificando che “ogni giorno del 2015 sarà un giorno di ricordo e di devozione al nostro popolo, un viaggio spirituale al memoriale dei nostri martiri”.

 

“Nel 1915 e negli anni successivi – ricorda il patriarca nella sua lettera –, un milione e mezzo di nostri figli e figlie ha subito la morte, la fame, la malattia; è stato deportato e costretto a camminare fino alla morte”.

 

Il patriarca ricorda anche che la Turchia – dai tempi del laico Ataturk fino all’islamico Erdogan – non solo non riconosce il genocidio, ma compie un’opera attiva di negazionismo. Karekin II ha parlato di “negazione criminale della Turchia”. “Il sangue dei nostri martiri innocenti e le sofferenze del nostro popolo gridano per avere giustizia”, ha scritto il patriarca, che cent’anni dopo la tragedia denuncia i “santuari distrutti, la violazione dei nostri diritti nazionali, la falsificazione e la distorsione della nostra storia”.

 

Nei giorni scorsi la Grecia ha impedito l’ingresso nel Paese al “Talat Pasha Committee”, un gruppo nazionalista turco che voleva protestare contro una legge approvata dal parlamento greco in settembre, che rende più pesanti le pene per chi è colpevole di negazionismo verso i genocidi e i crimini di guerra. Talat Pasha è ritenuto uno dei maggiori ideatori e organizzatori del genocidio armeno. Per la sensibilità armena rappresenta quello che per gli ebrei potrebbe essere Hitler o Himmler. Il Comitato voleva protestare contro la legge, ma all’arrivo ad Atene è stato obbligato a riprendere il primo volo per la Turchia.

 

http://www.lastampa.it/2015/01/10/blogs/san-pietro-e-dintorni/milione-di-martiri-armeni-pMKQd5IYuHq0tSZNwBuRYL/pagina.html

Savall: «Racconterò il dramma degli armeni in un nuovo spettacolo». Il piccolo.gelocal.it

Domani il violoncellista proporrà al “Verdi” di Pordenone il programma “Folias & Canarios” con il suo ensemble

di Alex Pessotto

 

PORDENONE. È il suo primo concerto. Del 2015, non certo della sua vita. Giacchè, Jordi Savall proprio quest’anno festeggia i suoi primi cinquant’anni di attività. E se oggi i concerti su strumenti d’epoca, basati su un approccio scrupolosamente filologico, sono ormai numerosi una buona parte di merito è sua.

 

Il grande musicista sarà domani, alle 20.45, al Teatro Verdi di Pordenone con l’Ensemble Hespèrion XXI impegnato in un programma dal titolo “Folias & Canarios” che prevede, fra le altre, le esecuzioni di musiche di Diego Ortiz, Santiago de Murcia, Marin Marais. In esclusiva per il Nordest, l’appuntamento, che rientra nella stagione del teatro, e, in particolare, nella sua programmazione dedicata al violoncello, sarà anche registrato (e successivamente trasmesso) dalle telecamere di Rai 5, precisamente da “Petruška”, trasmissione condotta da Michele Dall’Ongaro.

 

Maestro Savall, cosa si propone per il 2015? In musica, ovviamente.

«Ci sono progetti discografici e concertistici. Per quanto riguarda quest’ultimi, ad esempio, faremo diversi programmi: sulla musica armena per ricordare la terribile persecuzione di cent’anni fa, sulla guerra di secessione spagnola, sui 400 anni della morte di El Greco (avvenuta per l’esattezza nel 1614), sulla tratta degli schiavi. Insomma, posso dire che ci sono in programma molte cose».

 

Nell’adottare un approccio filologico cosa “si guadagna” e cosa “si perde”?

«Non è tanto un fatto di “guadagnare” o “perdere”. Direi che quando si usano gli strumenti d’epoca e le prassi filologicamente concordi alle varie epoche storiche si è innanzi tutto molto più vicini allo spirito dei compositori che si affronta. Ma ciò vale soltanto se l’artista che suona o canta è un buon artista. Ecco, nella musica “si guadagna” o “si perde” qualcosa soprattutto a seconda della qualità dell’artista che si esibisce».

 

Cosa pensa dei suoi colleghi che prediligono un altro tipo di approccio per le loro esecuzioni, e, quindi, un approccio non filologico?

«La musica può essere fatta con approcci diversi. Ma l’importante è che sia fatta bene. È una questione di gusto personale. E io rispetto coloro che prediligono, anche come ascoltatori, un approccio diverso dal mio. Da giovane, uno dei miei dischi preferiti era quello delle Variazioni Goldberg suonate da Glenn Gould, che certo usava il pianoforte».

 

Quanta strada c’è ancora da fare per ristabilire le prassi esecutive degli strumenti d’epoca?

«Abbiamo avuto grandi direttori che hanno lasciato interpretazioni straordinarie (penso a Toscanini, a Furtwängler, a Kleiber padre e figlio). Oggi ce ne sono altri. E lo stesso può dirsi per quanto riguarda la musica antica. Non si può parlare di “strade”…: ci sono soltanto “vette” nell’ispirazione, nella creatività. E ciò, appunto, vale anche per la musica antica. C’è stato un lungo periodo in cui si è recuperata la prassi esecutiva degli strumenti antichi. Ad oggi, son più di 80 anni che la musica antica si sta sviluppando in una forma naturale come la musica classica e l’evoluzione che avrà sarà la stessa della musica classica grazie a molti artisti certo di livelli diversi: più bravi, meno bravi…».

 

A che punto è la situazione italiana per quanto riguarda la filologia in musica?

«Il pubblico come reagisce ai suoi concerti? Ci sono colleghi che sente particolarmente vicini? Conosco molti gruppi di musica antica in Italia; molti musicisti italiani hanno anche suonato con me. Penso stiano facendo un lavoro serio, lottando contro una condizione difficile che credo sia molto simile a quella della Spagna, un Paese che non ha capito che il suo patrimonio musicale è di grande valore. Il pubblico italiano è un pubblico sempre molto attento, recettivo, esigente e mi fa sentire sempre molto ben accolto, in base a una complicità che è assai piacevole avvertire».

Genocidio armeno: «Giustizia e verità». Avvenire

Daniele Zappalà

Quell’ecatombe aprì il tunnel dei peggiori incubi novecenteschi, come aveva ribadito papa Francesco nel giugno 2013. Ma a un secolo esatto di distanza, il genocidio degli armeni resta in gran parte negato dagli eredi di chi lo perpetrò in territorio ottomano. E nonostante il riconoscimento sia stato firmato da una ventina di Stati, il dramma non pare ancora impresso appieno nella coscienza mondiale.

Se ricordare un genocidio è sempre impresa delicata, tanto più lo saranno le commemorazioni che si sono appena aperte in Armenia e che dureranno per tutto l’anno. Da tempo, si temeva che la dimensione spirituale della tragedia potesse finire eclissata dalle diatribe di stampo più politico e diplomatico attorno al negazionismo turco. Ma questo rischio sarà probabilmente scongiurato, dopo un annuncio di grande portata nei giorni scorsi da parte della Chiesa apostolica armena, antichissima chiesa cristiana vicina all’ortodossia ma contrassegnata per ragioni storiche pure da una profonda congruenza teologica con Roma.

Con la pubblicazione di una lettera enciclica, il patriarca Karekin II, supremo pastore di circa 8 milioni di fedeli, ha annunciato l’imminente canonizzazione di tutte le vittime del genocidio, ovvero circa un milione e mezzo di armeni. La celebrazione è prevista il 23 aprile, alla vigilia di quella che diventerà per i fedeli armeni la “Giornata del ricordo dei santi martiri del genocidio”.

L’enciclica impiega accenti profetici e sottolinea vigorosamente quanto l’esperienza della tragedia resti oggi un patrimonio spirituale vivo. «Siamo posti di fronte al centenario del genocidio degli armeni e nelle nostre anime risuona un’esigenza potente di verità e di giustizia che non si lascerà mai ridurre al silenzio», scrive il patriarca.

Fin da subito, non sono sfuggiti i risvolti anche politici del documento, che si rivolge non solo agli armeni in patria, ma anche alla diaspora diffusa in ogni continente: in Europa, soprattutto in Francia, dove gli armeni sono circa mezzo milione e contano figure di primo piano anche sulla scena politica, oltre che artistica e intellettuale. In assoluto, le comunità estere più numerose si trovano invece in Russia (2,2 milioni) e Stati Uniti (1,3 milioni).

«Ogni giorno del 2015 sarà un giorno di ricordo e di devozione per il nostro popolo, un viaggio spirituale in memoria dei nostri martiri davanti ai quali ci inginocchiamo con umiltà e nella preghiera», si può ancora leggere nell’enciclica, che sottolinea pure la strenua fedeltà al cristianesimo di chi morì: «Offriamo incenso per le anime delle nostre vittime innocenti sepolte senza nome perché hanno accettato di morire piuttosto che ripudiare la loro fede e la loro nazione».

Non manca una rievocazione delle atrocità commesse nel perimetro dell’Impero ottomano, non riconosciute come genocidio dall’esecutivo turco, nonostante qualche segnale recente di disgelo. Il patriarca scrive: «Nel 1915 e nel corso degli anni seguenti, i turchi ottomani hanno perpetrato un genocidio contro il nostro popolo. In Armenia occidentale, sul nostro suolo natale, nella patria armena e nelle comunità armene di tutta la Turchia, un milione e mezzo dei nostri figli e delle nostre figlie hanno subito dei massacri, la fame e le malattie; sono stati deportati e costretti a marciare fino ad essere colti dalla morte».

Se si considera la popolazione mondiale dell’epoca, quella fitta catena di eccidi amputò quasi un ramo su mille dell’umanità. Ma il senso profondo dell’epurazione riguardò pure la stessa presenza del cristianesimo in Medio Oriente, come sottolineano i passaggi che evocano il valore profetico della successiva “resurrezione” del popolo armeno al cospetto del mondo. In proposito, l’enciclica di Karekin II contiene risonanze brucianti con l’attualità, conferendo a quest’inizio di commemorazioni armene uno spessore particolare.

Gli eccidi cancellarono dall’Anatolia anche gli armeni cattolici, che superano oggi il mezzo milione. Il loro patriarcato, fedele a Roma (fu riconosciuto a metà Settecento da Benedetto XIV) pur conservando il rito armeno, non a caso ha sede in quello stesso Libano tornato ad essere negli ultimi anni una porta di fuga per i cristiani perseguitati di tutto il Medio Oriente. Si commemora il passato, dunque, in un 2015 che conserva fosche somiglianze con quello stesso passato.

L’enciclica esprime anche «gratitudine alle nazioni, organizzazioni e individui che hanno avuto il coraggio e la convinzione di riconoscere e condannare il genocidio armeno». Questo ed altri passaggi richiamano alla memoria pure la visita dello scorso giugno di Karekin II in Vaticano, un’occasione nella quale papa Francesco ha molto insistito sul valore profondamente ecumenico di tragedie come il genocidio armeno: «L’ecumenismo della sofferenza e del martirio è un potente richiamo a camminare lungo la strada della riconciliazione tra le Chiese, con decisione e fiducioso abbandono all’azione dello Spirito». E adesso, in vista delle canonizzazioni di aprile, le celebrazioni armene di questo 2015 si aprono proprio all’insegna di un messaggio che pare già di ampio respiro cristiano.

Grande Guerra, pillola 40 Medio oriente: le mani inglesi sul petrolio. Bergamonews

A fine ottobre del 1914, dopo aver firmato un trattato di alleanza segreto con la Germania, entra in guerra anche l’impero ottomano: il 21 novembre gli inglesi conquistano Basra, sull’Eufrate, e mettono in sicurezza i propri rifornimenti di petrolio in Mesopotania.

 

 

di Marco Cimmino

L’impero ottomano, il 2 agosto del 1914, aveva siglato un trattato di alleanza segreto con la Germania. Si trattava di una mossa quasi obbligata per la “Sublime Porta”, che attraversava un periodo di gravi movimenti centrifughi ed aveva la necessità di riaffermare il proprio pieno controllo sul medio oriente, dopo aver perso, un poco alla volta, l’intera Africa settentrionale ed i Balcani.

Questa alleanza va, dunque, letta in chiave antibritannica almeno quanto antirussa (la Russia era il nemico ereditario della “Porta” e nel XIX secolo vi erano state diverse guerre a confermarlo): gli inglesi, dal canto loro, miravano esplicitamente a garantirsi l’accesso al petrolio mseopotamico e non facevano mistero della loro ostilità verso i turchi, soffiando sull’irredentismo arabo. Insomma, prima o poi, in quel settore si sarebbe giunti allo scontro.

La prima azione militare ottomana, senza preventive dichiarazioni di guerra, riguardò un bombardamento navale, turco-tedesco, contro installazioni russe nel Mar Nero, il 29 ottobre del 1914: il 1 novembre, lo Zar dichiarò formalmente guerra alla Turchia, cosa che anche la Serbia fece, il giorno successivo, mentre Francia e Gran Bretagna attesero il 5 novembre. Già il 3 novembre, però, una squadra navale britannica aveva cercato di forzare i Dardanelli, bombardando i forti turchi ed iniziando una campagna che avrebbe, alla fine, portato al disastro di Gallipoli. Il 6 novembre 1914, con lo sbarco ad Al Faw, sulle coste irachene, di un contingente angloindiano, cominciò la prima guerra mondiale anche in Mesopotamia: lo scenario del conflitto andava sempre più allargandosi.

 

Le truppe britanniche avevano lasciato Bombay già il 16 ottobre: si trattava dell’Indian Expeditionary Force “D” (noi abbiamo già incontrato lo IEF “B” in Africa orientale), ossia circa 5.000 uomini, al comando del generale sir Arthur Barrett. All’inizio, stante la neutralità ottomana, questo contingente, protetto dalla divisione navale del Golfo, avrebbe dovuto presidiare la foce dello Shatt-al-Arab, per evitare infiltrazioni turche verso l’oleodotto di Abadan, vitale per l’Inghilterra. Mentre il governo britannico puntava ad una politica di semplice contenimento, a Bombay si premeva, invece, per una più aggressiva strategia di “forward defence”, che portò allo scoppio delle ostilità vere e proprie.

All’insaputa del Foreign Office londinese, Barrett aveva ricevuto l’ordine di conquistare senz’altro la base ottomana di Basra (oggi Basrah o Bassora in italiano), sull’Eufrate, in caso di rottura diplomatica fra Londra ed Istanbul. Senza porre indugi, il 6 novembre, le truppe britanniche mossero verso Basra, al comando del generale Delamain, dopo aver lasciato 600 uomini di presidio sulla costa. Il giorno successivo, dopo aver disperso la debole resistenza turca, egli pose il suo campo fortificato lungo il fiume, 5 chilometri a nord di Abadan: qui, l’11 novembre, venne attaccato da un reparto ottomano, che venne respinto con gravi perdite.

Nel frattempo, allo IEF si aggiunsero circa 7.000 uomini di rinforzo, con qualche cannone da campagna: Barrett, adesso, aveva gli strumenti per risolvere in breve tempo la propria offensiva, anche se a Basra si era radunato un contingente di 4.500 soldati ottomani, al comando di Subhi Bey. Il 19 novembre, sotto un acquazzone che rendeva assai difficile manovrare nel fango, la battaglia per Basra cominciò, con attacchi britannici e contrattacchi turchi, sanguinosamente rintuzzati. Il giorno successivo, mentre Barrett stava mettendo in pratica un piano per sbarrare il fiume e circondare la piazzaforte, uno sceicco arabo gli portò la notizia della ritirata di Subni Bey dalla città. La sera del 21 novembre 1914, quindi, due battaglioni del IEF sbarcarono a Basra, prendendone possesso. Barrett vi entrò da vincitore due giorni più tardi. Le perdite ammontarono a circa 500 uomini per i britannici e a più del doppio per gli ottomani.

 

Con la conquista di Basra, gli inglesi misero in sicurezza i propri rifornimenti di petrolio in Mesopotamia e questo, alla lunga avrebbe avuto un impatto fondamentale sull’andamento della guerra. Naturalmente, la constatazione dell’apparente debolezza difensiva nemica, rafforzò la convinzione del governo indiano circa la necessità di agire con energia nel settore, a dispetto dell’atteggiamento di Londra. Questo, come vedremo, avrebbe comportato tutta una serie di conseguenze per il conflitto in medio oriente.

Curiosità: una strage nella strage, l’olocausto armeno

All’interno della secolare lotta tra impero ottomano e Russia, così come nell’ottica del nuovo nazionalismo turco, propiziato dal movimento dei “Giovani Turchi” e dal colpo di stato effettuato dal loro comitato “Unione e Progresso” (Ittiḥād we Taraqqī) nel 1908, si colloca uno degli episodi più terribili e, colpevolmente, dimenticati della storia del Novecento: Metz Yeghern, il genocidio del popolo armeno. Gli armeni, popolazione cristiana che viveva all’interno dell’impero turanico, erano sempre stati blandamente protetti dallo zar, nei loro sogni di autonomia. Quando la Sublime Porta entrò definitivamente in crisi, essa rivolse contro gli armeni la propria rabbia, dando il via ad una serie di persecuzioni e pogrom, cominciata nel 1894 (la cosiddetta ‘persecuzione hamidiana’) e conclusasi, negli anni 1915-16, con l’olocausto di circa 1.500.000 armeni.

 

In un certo senso, la prima guerra mondiale fu sia l’esca che lo strumento per eliminare la minoranza armena, nella folle visione di una “Turchia dei turchi” che animava il governo di Istanbul: esca, perchè essa portò a galla la debolezza dell’impero, che poteva essere contenuta soltanto con robuste iniezioni di fanatismo nazionalista, e strumento, perché nel caos della guerra, enormi spostamenti di profughi avrebbero destato minor attenzione. Così, centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini vennero assassinati, torturati, deportati nel deserto e lasciati morire di fame e di sete, nel silenzio e nell’indifferenza del mondo, impegnato a combattere la sua guerra mondiale. Incredibilmente, questo spaventoso massacro, che funse da modello per tutti i successivi genocidi novecenteschi, dalla Shoah a Holodomor, l’olocausto ucraino, venne praticamente cancellato dalla storia, tanto che, ancora oggi, la moderna Turchia ne nega l’esistenza. La mattanza cominciò nella notte tra il 23 ed il 24 aprile del 1915, e proprio il 24 aprile è, per la comunità armena, il giorno della memoria.

 

http://www.bergamonews.it/cultura-e-spettacolo/grande-guerra-pillola-40-medio-oriente-le-mani-inglesi-sul-petrolio-19931

‘Metz Yeghern’ armeno: tra Ottomani e Czar la guerra si fa genocidio. Remocontro

‘Metz Yeghern’, il Grande Male. 1-2 milioni di armeni morti. La storia litiga ancora oggi su guerra o genocidio

Gatto randagio è creatura di nobili sentimenti sempre dalla parte delle vittime. Oggi la storia di un centenario tondo. 1915, guerra mondiale, Impero Ottomano multietnico e le bramosie degli Czar russi sui Dardanelli. Il rapporto tra il popolo armeno e la Russia visto come tradimento. Fu tragedia

Quest’anno, cent’anni fa, iniziò il genocidio del popolo armeno. Precisamente tutto ebbe inizio con i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli, nella notte fra il 23 e il 24 dell’aprile del 1915. Fu il primo genocidio del ‘900. “Metz Yeghern”, il Grande Male… Quasi due milioni di morti, e quel che colpisce, è l’ostinazione con la quale la Turchia non vuole sentirne parlare. Ancora oggi in Turchia parlare del genocidio degli Armeni è considerato un reato, un attentato all’unità nazionale…

“C’era e non c’era”… che strano… iniziano così, le fiabe armene, collocandosi nel tempo e nel luogo dell’indefinito, come indefinita si vorrebbe la sua immane tragedia.

Ma se quello che il genocidio ha voluto distruggere in Anatolia è stata la cultura del popolo armeno, c’è chi è riuscito, con ostinazione e pazienza, a riannodare le fila di un discorso che si voleva muto per sempre. Donne, soprattutto, che hanno combattuto per conservare e preservare il proprio passato e le proprie radici. E chi meglio di loro in grado di tessere ricordi e storie, riallacciando frammenti di un discorso amoroso…

Delle donne che hanno svolto questo prezioso compito, di cercare, scavare, comporre, raccontare, quella che ho incontrato sulla mia strada mi ha stregato dal primo istante… con i suoi occhi scuri, e acuti e immensi, e un profilo intagliato d’ebano. Sonya Orfalian, che è scrittrice e artista visuale, ma, soprattutto, narratrice-tessitrice, vien da pensare ascoltandola. Di quelle persone che riassumono in sé tanti mondi… l’origine armena, la nascita in Libia, la fuga a Roma… insomma una “apatride”, come si definisce, ancora oggi sempre con la valigia in mano.

L’avevo sentita la prima volta narrare del popolo armeno sfogliando un libro di ricette, una sua raccolta che in realtà sono pagine di storia e di letteratura. Adesso la rincontro che quasi m’investe in una folata, mentre arriva “a cavallo del vento”… ora che ha per noi raccolto e tradotto dall’armeno tante belle fiabe, “A cavallo del vento” ( per l’editore Argo), appunto. Nate nella notte dei tempi e tramandate oralmente di generazione in generazione da rapsodi itineranti, gli “ashugh”, sono parte fondamentale dell’immenso patrimonio culturale armeno, eredità preziosa di un popolo disperso che ha rischiato di essere annientato.

Ma, c’era e non c’era… ed è ancora qui, questo popolo, anche attraverso le sue fiabe, con il loro bagaglio di re e castelli, e maghi incantatori, e vecchi conciatori e serpenti d’oro, e re zingari, e zucche e demoni dalle molte teste, mucche fatate, principi e fanciulle bellissime di un mondo lontano lontano…

E’ impegno non da poco, quello della narratrice-tessitrice. Perché irreparabile rimane la perdita che con dolore rincorre le vittime di un genocidio. Perché tradurre, ricorda Sonya, significa anche un po’ tradire… e ad ogni passo se ne sente il peso, ad ogni fiato, c’è il rischio di tradire la parola originaria… Chi usa più la lingua originaria di quelle fiabe? E oggi misurarsi con la lettera morta è sforzo continuo di misurarsi con il senso profondo di quella perdita…

Agli Armeni fu vietato usare la propria lingua e il taglio della lingua fu fra le terribili, impronunciabili violenze che venivano inflitte. Una testimone ha raccontato che per aver trasgredito al divieto, furono così puniti tutti gli adulti di un intero villaggio dell’Armenia antica. E privati del suono della lingua dei padri, non impararono l’armeno i loro bambini, costretti a comunicare con i segni afoni dei gesti. Provate a immaginare quale perdita… lo strazio del vuoto di quel silenzio…

Ho letto che quest’anno, ad aprile, Papa Francesco, accettando l’invito della Chiesa cattolica armena, celebrerà in San Pietro una messa per ricordare i cento anni che ci separano dall’inizio di quel genocidio. Ah, questo Papa…, se il suo ruolo sembra proprio sia stato determinante nella svolta delle relazioni fra gli Stati Uniti e Cuba, chissà che mettendoci, anche qui, lo zampino, non sciolga diplomazie ostinate…

Dall’Armenia il monte Ararat, simbolo nazionale armeno che si trova in territorio turco

Il genocidio del popolo armeno è stato riconosciuto ufficialmente da una ventina di stati. Anche 43 dei 50 stati americani chiedono il ristabilimento della giustizia storica. Tra le organizzazioni internazionali che riconoscono il genocidio, c’è la Commissione ONU per i crimini di guerra, il Parlamento Europeo e il Consiglio ecumenico delle Chiese. In Francia negare il genocidio degli Armeni è considerato un reato. E l’Italia? C’era e non c’era…

“Che dal cielo cadano tre mele… una per chi ha narrato, una per chi ha ascoltato, una per il mondo intero”. Chiudiamo dunque con questo augurio, che è quello con cui la tradizione armena vuole si concluda ogni fiaba. E sono, le mele dell’auspicio, ricorda Sonya Orfalian, simbolo del cerchio, richiamo al sole… sono il melograno, sono il pomo della vita…

Francesca de Carolis

http://www.remocontro.it/2015/01/04/gatto-randagio-metz-yeghern-armeno-ottomani-czar-laguerra-si-fa-genocidio/