Fra Khukaz Mesrob, 37 anni, è un francescano della Custodia di Terra Santa. Ordinato sacerdote tre anni fa, è parroco del villaggio di Qunayah, nelle campagne vicine a Idlib. Dal 1878, i francescani sono presenti in questi tre missioni della valle dell’Oronte: Qunayah, Yacubiyeh e Jdayde. Fra Khukaz condivide con noi un po’ della sua vita quotidiana.
Fra Khukaz, i francescani sono rimasti nei villaggi lungo il fiume Oronte per tutta la durata della guerra. Chi sono i vostri parrocchiani?
Durante questi 14 anni di guerra, non solo siamo rimasti presenti accanto alle nostre 200 famiglie cattoliche — grazie allo zelo missionario del vescovo francescano Hanna Jallouf e di fra Louay Bsharat — ma ci siamo anche presi cura di tutti gli altri cristiani dopo la partenza del clero ortodosso dell’area. Così, per tutta la durata della guerra, i cristiani dei nostri villaggi, indipendentemente della loro chiesa di appartenenza, hanno pregato insieme ogni domenica e per ogni feste illustrando l’esortazione di Gesù: «Affinché tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te» (Giovanni, 17:21). Abbiamo formato un unico gregge.
Come descriverebbe la vostra missione?
Il nostro ruolo di pastori si è esteso ben oltre il culto e i sacramenti: aiutare a riparare le case dopo il terremoto, agire come un’ambulanza e portare i malati all’ospedale o come servizio di scuolabus per la nostra decina di bambini cristiani, in modo che non debbano frequentare le scuole islamiche ma quella costruita dai frati nel convento stesso, recuperare e ridistribuire i terreni agricoli con tante procedure e contenziosi, recuperare le varie chiese ortodosse che erano state chiuse o vandalizzate, rappresentare e difendere i cristiani nei rapporti con le autorità politiche locali per tutte le esigenze quotidiane…
Negli ultimi anni i vostri villaggi sono stati isolati dal mondo perché nelle aree libere cioè non controllate dal regime. Cosa è cambiato dopo la caduta di Assad?
Dalla caduta del regime di Bashar al-Assad, l’8 dicembre, abbiamo festeggiato il ritorno di molti parenti e amici, che finalmente possono raggiungere i villaggi e accolto varie delegazioni ufficiali come i nostri confratelli della Custodia di Terra Santa, venuti a pregare con tutto il popolo siriano per la pace il 1° gennaio. Tutti questi momenti di ricongiungimento sono commoventi. I giovani che attualmente vivono nelle grandi città dei dintorni hanno espresso il desiderio di tornare ai villaggi. Ci incoraggiano ma le sfide saranno grandi soprattutto riguardo il lavoro.
Per molto tempo i francescani sono stati gli unici sacerdoti ad essere presente nei vostri villaggi. Gli ortodossi stanno tornando?
La scorsa settimana abbiamo ricevuto la notizia che l’archimandrita Levon Yegiyan, un dignitario armeno ortodosso della città di Hassaké (al confine con l’Iraq] desiderava venire a pregare a Yacubiyeh, di cui è originario. La chiesa di Sant’Anna a Yacubiyeh è uno dei siti cristiani più antichi e importanti della Siria. È un luogo di pellegrinaggio. Così, senza ulteriori indugi, abbiamo iniziato i preparativi, in particolare garantendo la sicurezza in collaborazione con le autorità locali, oltre a pulire e preparare la chiesa. Monsignor Levon Yegiyan si era ripromesso che, se un giorno fosse tornato a Yacubiyeh, avrebbe camminato a piedi nudi fino al santuario per ringraziare Dio. Quel giorno è arrivato domenica 2 febbraio 2025. Ha davvero camminato senza scarpe accanto a fra Louay. Degli autobus provenienti da Latakia, Kessab e Aleppo hanno permesso a molti fedeli di raggiungerci.
Che tipo di relazione avete con il loro clero?
Al suo arrivo, il vescovo armeno ci ha letteralmente abbracciato in un caloroso benvenuto. Tutti insieme, abbiamo iniziato la processione verso il santuario, situato su una collina vicina, tra canti ed esultazioni. Siamo entrati in chiesa, abbiamo indossato i rispettivi paramenti liturgici e abbiamo pregato insieme durante la divina liturgia in armeno (avevamo celebrato la messa cattolica qualche ora prima). L’archimandrita ci ha tenuto una bellissima omelia sottolineando la fede del popolo, la grazia e la protezione di Dio. Le sue parole risuonano ancora nella chiesa di Sant’Anna: «Chi persevererà fino alla fine sarà salvato» (Matteo, 24, 13). Ha poi ringraziato per nome i francescani per il loro impegno a favore della comunità armena. La loro chiesa era crollata durante la guerra ed è stata ricostruita sotto l’impulso di fra Louay e di alcune famiglie della diaspora armena. Alla fine della messa, ci ha regalato una croce armena. In quanto alle mie origini armene, la accolgo in un modo molto particolare. La croce di Gesù Cristo ci unisce tutti. L’assemblea era in lacrime in questo giorno memorabile del primo pellegrinaggio a Sant’Anna dal 2011. Un ricordo indimenticabile per tutti noi.
Il clero di ritorno non ha forse perso il contatto con la realtà dopo 14 anni?
Non penso, ma, se pure fosse, lo recupereranno presto. Il giorno successivo, abbiamo ad esempio accolto a Qunayeh il metropolita Athanasios Fahed di Latakia per la chiesa greco-ortodossa con una delegazione. Ogni volta è la stessa routine: ci incamminiamo lungo la strada per accoglierli, portarli ai capi locali e poi guidarli al villaggio. Davanti alle autorità, il metropolita li ha ringraziati per la cura prestata ai suoi fedeli e ci ha ringraziati per tutto quello che abbiamo fatto. Ha poi chiesto informazioni sulle procedure amministrative per il reperimento dei terreni e delle case [i cristiani sono stati espropriati dello loro proprietà per anni sotto l’occupazione islamica], al che le autorità hanno risposto che le questioni riguardanti i cristiani erano già trattate con i francescani, che esistevano dei canali di comunicazione, che i lavori erano in corso e che sarebbero stati avvisati in tempo. Il metropolita è venuto poi a Qunayeh, dove lo abbiamo accolto in modo più solenne. I bambini della scuola sono venuti a incontrarlo con i loro insegnanti. Tutto un mondo nuovo per lui. Ho ringraziato il mio predecessore, fra Hanna Jallouf, dicendo che questo convento era anche una casa ortodossa, perché lui ha accolto tutti coloro che si trovavano soli, diventando un padre spirituale per tutti. Ho anche ribadito quanto fra Louay, durante il terremoto del febbraio 2023, non abbia mai smesso di visitare le famiglie, facendosi prossimo a tutti.
Qual era lo scopo della loro visita?
Durante la visita del metropolita Athanasios Fahed, siamo partiti per Jdayde dove abbiamo potuto consegnarlo le chiavi della chiesa ortodossa Sant’Elia, benedire il pane e condividerlo insieme. E poi siamo andati alla nuova chiesa di San Giovanni, che abbiamo recuperata dalle autorità locali tre mesi fa e ripulita con i cristiani dei tre villaggi. Dopo alcuni canti, la delegazione greco-ortodossa ha proseguito il suo cammino verso altri villaggi e parrocchie. Questa consegna simbolica delle chiavi manifesta anche una nuova vita per ogni confessione. Come francescani abbiamo cercato di amare ogni uomo e ogni donna, al di là delle nostre differenze. A nome della Chiesa cattolica, abbiamo provato a fornire un servizio umano e religioso.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-13 09:33:092025-02-15 16:34:21A servizio dei cristiani siriani (Osservatore Romano 13.02.25)
o scorso 24 gennaio a Zurigo Pashinyan ha incontrato i rappresentanti della comunità armena in Svizzera. Durante la riunione, Pashinyan ha rilanciato l’idea di un’Armenia “storica” in contrasto con quella “reale”. Quest’ultima, preferita dal premier, è nata dopo la sconfitta dell’Armenia nella guerra del 2020 contro l’Azerbaijan e, tra le altre cose, distingue tra armeni etnici nati all’estero e cittadini effettivi.
Molti ritengono che lo scopo di questo discorso sia quello di tracciare un passaggio dalla terza repubblica post-indipendenza ad una quarta repubblica armena, permettendo a Pashinyan di evitare le critiche per gli eventi che hanno portato alla guerra del 2020 in cui l’Armenia è stata sconfitta dall’Azerbaijan.
Il premier armeno si è spinto oltre, osservando che il numero di armeni etnici attivi nelle loro comunità rappresenta appena il 10% del totale della popolazione armena residente all’estero. Una considerazione arrivata nel momento in cui il Pashinyan è impegnato nella costruzione di una nuova diaspora lontana dall’influenza di quelle istituzioni, esistenti ormai da decenni, che si oppongono alla politica di Yerevan volta alla normalizzazione delle relazioni con l’Azerbaijan e la Turchia.
Pur non essendo la più grande di queste istituzioni, in molti citano il Comitato nazionale armeno d’America (ANCA), considerato inseparabile dalla Federazione rivoluzionaria armena Dashnaktsutyun (ARF–D), un partito politico attivo sia in Armenia che nella diaspora e critico nei confronti di Pashinyan. Durante la presidenza di Robert Kocharyan e quella di Serzh Sargsyan, ARF-D faceva parte della compagine di governo. Oggi, la maggior parte dei 28 deputati del blocco di opposizione Hayastan, guidato da Kocharyan, proviene da ARF-D.
L’astio tra Pashinyan da una parte e Dashnaktsutyun e Kocharyan dall’altra risale alla fine degli anni Novanta. Il fulcro di questo reciproco disprezzo è il disaccordo sulla politica sui massacri del 1915 e la deportazione di 1,5 milioni di armeni etnici nell’allora Impero ottomano. Per Pashinyan e – come affermano i suoi sostenitori – anche per la società armena – i rapporti di buon vicinato tra Ankara e Yerevan sono fondamentali per il futuro dell’Armenia.
A Zurigo, come anche durante la sua visita negli Stati Uniti la scorsa settimana, Pashinyan lo ha messo in chiaro in termini inequivocabili. Il premier ha dichiarato che è necessario “rivedere la storia del genocidio armeno, cosa è stato, perché è accaduto e come lo percepiamo”. Ha poi suggerito che la campagna internazionale per il riconoscimento del genocidio era frutto della politica sovietica durante la Guerra fredda, rivolta contro la Turchia, come membro della NATO. I critici del premier armeno interpretano queste parole come parte integrante della virata di Pashinyan verso Occidente.
Le reazioni critiche non si sono fatte attendere. Alcuni hanno accusato Pashinyan di “negare il genocidio”, accusa respinta categoricamente dal premier. Ad ogni modo, le sue osservazioni non sono un fenomeno nuovo. Nell’aprile dello scorso anno, un noto deputato del parlamento di Yerevan, eletto tra le fila del partito Contratto civile di Pashinyan, ha espresso considerazioni analoghe, cercando di chiarire quanti armeni etnici fossero stati effettivamente uccisi. I numeri oscillano tra i 600mila e i 1,5-2 milioni di morti.
“Gli armeni, solitamente, si presentano come vittime, la comunità internazionale tende a percepire gli armeni come una nazione vittimizzata, e questo a volte suscita parecchia confusione. Qual è la causa e qual è l’effetto?,” ha dichiarato Pashinyan a Zurigo. “Stiamo cercando di cambiare questo […].”
Durante il suo discorso pronunciato lo scorso anno in occasione dell’anniversario degli eventi del 1915, Pashinyan ha utilizzato il termine armeno “Meds Yeghern”, ossia “il grande disastro”, più spesso dell’espressione “genocidio”, suscitando ancora una volta l’ira dei suoi oppositori. Anche l’ex presidente statunitense Barak Obama, quando era ancora in carica, aveva pronunciato l’espressione armena provocando reazioni analoghe, ma l’utilizzo di questo termine da parte di Pashinyan è percepito come un atto doppiamente negativo.
L’unico presidente degli Stati Uniti che, durante il proprio mandato, ha utilizzato la parola “genocidio” in un discorso commemorativo è stato Joe Biden, nel suo messaggio del 24 aprile 2021.
Mentre l’Armenia cerca quasi disperatamente di compiere una svolta occidentale, è chiaro che l’apertura dei confini con la Turchia è di fondamentale importanza, soprattutto se Yerevan dovesse decidere di rafforzare le relazioni con l’Unione europea. L’ultima volta che l’Armenia aveva tentato di normalizzare i rapporti con la Turchia, nel 2009, Ankara aveva insistito sulla creazione di una commissione congiunta per fare chiarezza sulle vicende del 1915, auspicando anche una svolta nel dialogo tra Yerevan e Baku per risolvere il lungo conflitto tra i due paesi.
Aspettative rimaste invariate ad oggi.
L’anno scorso, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha invitato Pashinyan a cambiare la narrativa ufficiale di Yerevan, avvertendo che “la porta delle opportunità” non rimarrà aperta per sempre. Allo stesso tempo, anche se i precedenti leader armeni hanno a più riprese incontrato le loro controparti turche, il processo di dialogo tra i due paesi ha subito un’accelerazione dopo l’arrivo di Pashinyan al potere. Al primo vertice della Comunità politica europea, tenutosi a Praga nell’ottobre 2022, Pashinyan ed Erdoğan si sono incontrati faccia a faccia.
Poi nel giugno 2023, Pashinyan ha partecipato alla cerimonia di insediamento di Erdoğan ad Ankara, ed è stata la prima visita in Turchia di un leader armeno dopo più di dieci anni. Nel settembre dello scorso anno, il premier armeno ha nuovamente incontrato Erdoğan, questa volta in un edificio di proprietà del governo turco a New York, a margine di una sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In quell’occasione il presidente turco ha regalato a Pashinyan una copia del suo libro “Un mondo più equo è possibile”.
Pashinyan spera di essere rieletto grazie ad un avvicinamento all’Unione europea, e in questo contesto l’apertura del confine con la Turchia è fondamentale per il tentativo di Yerevan di smarcarsi da Mosca. Lo ha confermato Toivo Klaar, l’ex rappresentante speciale dell’UE per il Caucaso meridionale, intervenendo al Forum diplomatico di Antalya nel 2023. Per Klaar, la Turchia era nella posizione ideale per assumere un ruolo guida nel Caucaso meridionale.
Nel 2023, Pashinyan aveva già dimostrato di aver compreso la necessità di cambiare l’utilizzo di simboli storici, come il Monte Ararat (Agrı), nella vicina Turchia. Un’eventuale rimozione di un controverso preambolo dalla Costituzione armena nel 2026 o nel 2027 significherebbe la rinuncia a quelle che Ankara e Baku percepiscono come rivendicazioni territoriali dell’Armenia sulla Turchia e sull’Azerbaijan.
Non è chiaro come la popolazione armena possa reagire a questa nuova realtà. I risultati di un recente sondaggio d’opinione dimostrano che il consenso per Pashinyan non supera l’11%, ma anche l’opposizione gode di scarso sostegno. Per l’elettorato armeno le priorità sono la pace, la sicurezza e l’integrazione europea. Sembra che lo scopo della visita di Pashinyan negli Stati Uniti la scorsa settimana fosse quello di convincere l’amministrazione Trump di fornire sostegno al premier armeno su questioni di cui sopra.
Con l’avvicinarsi delle elezioni politiche del 2026, c’è da aspettarsi che queste questioni tornino al centro dell’attenzione pubblica in Armenia.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-12 16:17:192025-02-15 16:18:44Armenia-Turchia: Pashinyan spinge per una nuova narrazione (Osservatorio Balcani e Caucaso 12.02.25)
Il parlamento armeno ha adottato in prima lettura il disegno di legge sull’avvio del processo di adesione del paese all’Unione europea, secondo la trasmissione della sessione. “Un totale di 63 deputati hanno votato per l’adozione del disegno di legge, la decisione è stata presa”, ha detto il presidente del Parlamento Alen Simonyan.
Nel frattempo, l’opposizione Armenia Alliance e I Have Honor Alliance hanno definito questo disegno di legge “una farsa” e si sono rifiutate di prendere parte alla votazione. Secondo l’opposizione lo scopo del disegno di legge non è l’adesione all’UE, ma la scelta della Turchia come garanzia di sicurezza.
In precedenza, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva affermato che ciò non garantirebbe l’adesione automatica dell’Armenia all’UE, poiché la questione richiederebbe un referendum. Il ministro degli Esteri Ararat Mirzoyan ha sottolineato che il disegno di legge è un’iniziativa pubblica che ha raccolto il numero necessario di firme.
A sua volta, il vice primo ministro russo Alexey Overchuk ha affermato che la Russia vede la discussione di questo disegno di legge come l’inizio della possibile uscita dell’Armenia dall’Unione economica eurasiatica (EAEU). Secondo lui, l’adesione all’UE sarebbe incompatibile con la partecipazione del paese alla EAEU.
Il ministro dell’Economia armeno Gevorg Papoyan ha affermato invece che Yerevan non ha intenzione di lasciare l’EAEU. Secondo lui, l’Armenia dovrebbe continuare a rafforzare e sviluppare le sue relazioni con l’EAEU, promuovendo allo stesso tempo le relazioni con altri paesi.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-12 16:09:452025-02-15 16:16:26Armenia inizia processo di adesione all'UE (Osservatoriodella legalità 12.02.25)
Ieri 10 febbraio 2025, nel XXI Giorno della memoria per le vittime dei massacri dimenticati delle Foibe (1943-47) [QUI], La Verità ha pubblicato [QUI] un’intervista a cura di Carlo Cambi alla scrittrice Antonia Arslan, che ha raccontato il genocidio degli Armeni perpetrato dai Giovani Turchi dell’Impero ottomano, l’odierno Turchia (1915-17) nel suo libro La masseria delle allodole, tradotto in 25 lingue: «Lo sterminio degli Armeni di inizio Novecento ricorda per molti aspetti la Shoah. E oggi quel popolo è ancora vittima. L’Occidente non ne parla, perché trascura le proprie radici e cede ai ricatti di Erdoğan e degli Azeri».
«Per celebrare davvero la Giornata della memoria bisogna testimoniare, educare, dire ai giovani che esiste nell’uomo il massimo del bene e il massimo del male».
Il Giorno della memoria in ricordo del genocidio armeno si celebra ogni anno il 24 aprile per commemorare le vittime dei massacri nell’Impero Ottomano che causarono un milione e mezzo di morti. Il Giorno della memoria in ricordo del Shoah si celebra ogni anno il 27 gennaio per commemorare le vittime dello sterminio e delle persecuzioni, a seguito delle misure di persecuzione razziale e politica, di pulizia etnica e di genocidio, messe in atto dal regime nazista del Terzo Reich e dai loro alleati, tra il 1933 e il 1945, che causarono secondo le stime dello United States Holocaust Memorial Museum circa 15-17 milioni di morte, tra cui almeno cinque milioni di Ebrei.
Riportiamo il testo dell’intervista ad Atonia Arslan, seguita dalla sua nota introduttiva al libro I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio di Siobhan Nash-Marshall, che racconta per la prima volta le origini europee del massacro degli Armeni.
«Il Giorno della memoria? Forse non ne parlerò così bene; mi si permetta di raccontare una storia». Antonia Arslan sta nella cucina della casa di famiglia a Padova, lì dove la zia Enrica preparava la pakhlava: pasta fillo, ripiena di noci, mandorle e miele, cotta al forno. «È un profumo della mia infanzia, i Turchi si sono presi anche quella: la chiamano baklava, ma non sanno che il nome vuol dire pane di Quaresima, che è un dolce Cristiano. La zia la faceva quando non era afflitta dalle sue fitte di tristezza: era lei la bambina a cui i Turchi lanciarono la testa mozzata del padre, Sempad, il fratello di mio nonno, mentre era in braccio della madre. La mia Masseria delle Allodole (il romanzo uscito nel 2004 è stato tradotto in oltre 25 lingue, è arrivato a 45 edizioni: un libro culto adottato anche come testo didattico in moltissime scuole, ndr) è partita anche da lì, da quel cammeo terribile che nonno Jerwant, arrivato a Padova per studiare medicina, mi consegnò a Sospirolo, insieme al dramma della nostra deportazione. Ero bambina e si sentivano in lontananza gli echi della guerra».
Lei, italianissima, è nata a Padova dove ha insegnato Letteratura contemporanea e moderna nell’università. Antonia però ha sangue armeno e quel sangue scorre come un fiume di ricordi, impetuoso nel coraggio di chiedere verità, nel pretendere che non si sopisca la memoria del primo genocidio dell’era contemporanea. Fanno, giusto nella prossima primavera, 110 anni esatti da quando i «Giovani Turchi» cominciarono a deportare e sterminare tutti gli Armeni, oltre un milione e mezzo di persone cancellate.
E quel racconto che appanna il Giorno della memoria? «C’erano in una cittadina dell’Anatolia due commercianti, uno Turco e uno Armeno. Vicini di bottega e di casa che si rispettavano. Una mattina l’Armeno va dal Turco e gli confida: “Mi dicono che stanno per arrestarci tutti, io non ho il coraggio di chiedere al caimacam (sarebbe stato il sindaco), ti puoi informare?”. Passano diverse ore quando il Turco bussa alla porta dell’Armeno e gli dice: “Mangia tranquillo, poi ti racconto”. “No, dimmi”, fa l’altro. “Ebbene sappi che ti farò un grande favore: domattina sarò io ad ammazzare te, tua moglie, i tuoi due figli maschi e la piccoletta, così non patirete la deportazione”. Nella notte l’Armeno fece fuggire i due figli più grandi. Uno riuscì ad arrivare in California e questa storia l’ha raccontata ad una mia carissima amica, ricercatrice antropologa. Degli altri, nulla si è più saputo. Sono centinaia di migliaia gli orfani di quella stagione. E nel Giorno della smemoria di loro non si vuol sapere nulla».
Eppure il genocidio degli Armeni è, si può dire tragicamente, il prototipo della Shoa…
«Il termine genocidio è stato creato da Raphael Lemkin, un avvocato Ebreo polacco, che lo usò nel ’44 proprio a proposito dell’annientamento degli Armeni. Non è un caso che a fianco dei Giovani Turchi a dirigere lo sterminio ci fossero dei generali Tedeschi. Non è un caso che iniziò con la deportazione degli Armeni di Costantinopoli, che ci sono state le marce della morte, che gli Armeni siano stati ammassati nel deserto del Deir-elzor e lì finiti. Anche per questo primo genocidio c’è stata una Norimberga. Vennero processati i responsabili politici dei massacri. L’organizzazione clandestina armena Nemesis dette la caccia ai criminali Turchi e Talat Pasha, il capo degli stragisti, venne ucciso a Berlino. Ma la responsabilità maggiore resta in capo a Mustafà Kemal. È lui che fa cancellare il trattato di Sèvres che riconosceva l’autonomia dell’Anatolia, è lui che dal 1915 al 1923 lavora alla costruzione del nazionalismo turco e scatena la guerra contro la Repubblica di Armenia. Il venerato Ataturk prospera sul sangue degli armeni. Le questioni di oggi, Siria, Libano, Palestina, si generano dall’ignavia delle forze che allora avevano vinto la Prima Guerra Mondiale. Inghilterra, Francia e Italia si sono fatte ricattare dalla Turchia».
La storia si ripete anche oggi?
«Purtroppo sì. In Turchia se si parla del genocidio armeno si finisce in galera. Tayyp Recep Erdoğan prospera sull’ignavia dell’Occidente: sfrutta il suo stare nella NATO, ricatta l’Europa con i migranti e intanto tesse la tela della umma, del panislamismo. Lo fa sfruttando la crisi israelo-palestinese per annettersi ciò che resta dell’Anatolia e del Kurdistan. E lo stesso vale per l’Azerbaijan che ormai ha chiuso la questione del Karabak facendolo sparire dalla carta geografica. E tutto questo perché l’Occidente non si cura delle proprie radici e si sottopone al ricatto: militare di Erdoğan, energetico degli Azeri. E poi però ci si lava la coscienza con la retorica della Giornata della memoria».
Perché gli Armeni rivendicano di possedere le radici dell’Occidente?
«Il regno armeno è stato il primo ad abbracciare il Cristianesimo: siamo nel 301. L’armeno è una lingua indoeuropea, forse la più antica. Infine, anche se oggi è in territorio turco noi vediamo il monte Ararat, noi siamo stati i primi vinificatori, noi abbiamo costruito la nostra identità attorno ai principi di tolleranza e di fratellanza. Quando ho tradotto i versi di Daniel Varujan – il suo Canto del pane è l’inno dell’anima armena – ho sentito la mia radice anatolica. E ho compreso che il genocidio degli Armeni oggi deve essere dimenticato perché è scomodo».
In che senso?
«Può porre il tema del rapporto con l’islam. Gli Armeni sono Cristiani. Può porre il tema del panarabismo, il tema dell’incapacità dell’Occidente e dell’Europa in particolare di rivendicare il proprio ruolo e di fare i conti con la storia».
E la saldatura con gli Ebrei?
«Per quel che mi riguarda è una spinta del tutto personale, ma ci sono delle similitudini. Sono popoli condannati alla damnatio memoriae, sono popoli che hanno contribuito a rafforzare i Paesi che poi li hanno sterminati. In Turchia i maggiori architetti, i maggiori intellettuali dell’Ottocento erano Armeni, il Ministro del Tesoro era Armeno. Hanno pagato la loro “diversità” religiosa. Certo, oggi se a un Armeno parli d’Israele non è affatto contento, perché Tel Aviv ha aiutato l’Azerbaijan nella conquista del Karabak. Ma lo ha fatto in funzione anti Iran. L’Iran è la forza che andrebbe sterilizzata in quell’area, come sarebbe utile riparlare degli Armeni per avere un quadro reale di cosa sono il Libano, la Siria la Palestina».
Che ne pensa dei pro Pal? Sta tornando l’antisemitismo?
«Li temo e confermo che la Giornata della memoria così come viene celebrata è in larga misura un esercizio di retorica per di più inficiata da gravi amnesie che non so dire se sono dolose o colpose, ma so che ci sono. È l’ennesima dimostrazione dell’ignavia dell’Occidente. Possibile che non si abbia memoria di cosa sono stati gli anni Settanta-Ottanta in Italia? Io c’ero all’Università di Padova dove si allevavano i terroristi. Io lo so come certe parole d’ordine si trasformano in odio. E mi stupisco che vi sia indulgenza e indifferenza. Che è contraddire la Giornata della memoria. Quanto all’antisemitismo, non credo sia mai tramontato».
Servirebbe uscire dalla celebrazione e passare all’educazione?
«Esattamente. Come sono stati possibili i campi di concentramento o i gulag? Sono stati possibili perché qualcuno ha guardato altrove. La strada che da Monaco porta a Dachau è stata costruita dai prigionieri del lager, così come la ferrovia Berlino-Baghdad gronda sangue armeno. Ciò che mi stupisce è che oggi l’Occidente non ha più una diplomazia forte che può imporre la pace, che può togliere argomenti a quelli che attizzano la violenza nelle piazze, a quelli che insultano i morti chiamando tutto genocidio. Il genocidio è la deliberata distruzione di un popolo per cancellarne l’identità. È quello che ha compito la Turchia sugli Armeni, quello di Hitler sugli Ebrei. Per celebrare davvero la Giornata della memoria bisogna testimoniare, educare, dire ai giovani che esiste nell’uomo il massimo del bene e il massimo del male e che è attraverso la letteratura e la cultura che si tiene a bada il male. Non è pensabile che oggi i bambini non sappiano più scrivere in corsivo, che gli adulti fatichino a leggere un testo. Li portano a vedere la mostra di Frida Kahlo a sei anni perché qualche assessore alla Cultura si vuole fare bello e questi bambini nulla sanno della poesia, della vita. Da anni vado nelle scuole con la mia Masseria delle allodole, ma vado a testimoniare, non in piazza a sbandierare. E quanto alla questione armena solo la Francia – dove il negazionismo del genocidio è reato – e la Chiesa in larga misura con San Giovanni Paolo II hanno dato questa testimonianza. Altri Paesi come gli Usa, dove c’è la più alta concentrazione di Armeni, tacciono. Eppure quel genocidio si perpetua ancora».
E l’Italia che posizione ha?
«Venezia è stata la casa degli Armeni, San Lorenzo degli Armeni è un motore di cultura e di identità armena. Dal punto di vista politico i rapporti dell’Europa con Erdoğan sono indubbiamente un limite».
Eppure una Repubblica armena esiste e resiste. Tre motivi per andare in Armenia?
«Solo tre motivi? Va bene. Il primo: gli Armeni anche se provati dalla diaspora, anche quelli che non stanno in Armenia e purtroppo sono la maggioranza, hanno una immediata apertura verso lo straniero. Fanno dell’ospitalità, ancor più degli antichi Greci che avevano la “xenia”, qualcosa di sacro. Un viaggio in Armenia, ecco il secondo motivo, è un’esperienza di bello assoluto: per i paesaggi, ma anche perché si sente che quella è la terra dell’origine. Il terzo motivo è che gli Armeni sono molto sensibili alla poesia, alla musica e hanno danze bellissime; per contrappasso sono tra i migliori informatici del mondo. A dire che nessun genocidio potrà mai spezzare la continuità della vita che è un racconto fantastico che lega il passato col futuro».
I peccati dei padri
Negazionismo turco e genocidio
il libro di Siobhan Nash-Marshall
che racconta per la prima volta
le origini europee del massacro armeno
Nel 1915 il governo dell’Impero Ottomano cominciò a scacciare gli Armeni dalle terre dove i loro antenati avevano vissuto da tempi immemorabili. Gli uomini furono uccisi; donne, vecchi e bambini furono deportati nella parte più inospitale del deserto siriano, del tutto inadatta al vivere umano. Ma la pulizia etnica nell’Armenia occidentale era solo una parte del progetto dei Giovani Turchi per l’intera Anatolia. Lo scopo finale era in realtà di trasformare quelle terre nella «terra avita del popolo turco» (il cosiddetto vatan), un luogo dove la cultura, l’economia e la gente fossero tutti turchi. Questo progetto fu attuato su larga scala in ogni direzione, con impressionante determinazione e violenza. La Turchia odierna sta ancora cercando di costruire il suo vatan, proseguendo così il genocidio iniziato dai Turchi ottomani, e continuando a negare, di fatto, che questo abbia avuto luogo. Coprire un crimine vuol dire prolungarne gli effetti. In I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio (Guerini e Associati 2018, 274 pagine [QUI]) Nash-Marshall mette in rapporto l’assoluto disprezzo dei fatti e delle genti, del territorio e della storia che è caratteristica comune sia del genocidio nel 1915 che dell’attuale negazionismo turco, con la vacua sprezzante indifferenza alla realtà fattuale che si diffonde sempre di più nel mondo moderno.
Il genocidio degli Armeni
è nato nella testa e nelle idee malsane
dei teorici Tedeschi
Antonia Arslan.
La nota introduttiva di Antonia Arslan
al libro di Siobhan Nash-Marshall
Ci sono dei punti fermi, delle ben visibili pietre miliari, in questa straordinaria e tenace tessitura di idee che si va lentamente ma inesorabilmente intrecciando a proposito del genocidio armeno, modello e primo tragico esempio di una prassi di distruzione di massa che avrà tanti imitatori nel corso del Novecento. Si tratta di un percorso di conoscenza che prosegue ormai da una trentina d’anni: ed è già incredibile il fatto stesso che ogni indagine critica, ogni acquisizione di dati (siano essi i racconti dei sopravvissuti e di persone a vario titolo presenti nell’Impero ottomano in quegli anni cruciali, o le scoperte di documenti finora più o meno colpevolmente ignorati, o gli archivi finalmente aperti, come quelli tedeschi o vaticani) non contraddice le informazioni già acquisite, ma le completa, le amplia, le convalida.
Gli storici e studiosi più importanti che se ne sono occupati (armeni e no) sono riusciti a costruire un vero grande archivio di informazioni, dopo decenni in cui – a livello di conoscenza generale – dell’esistenza stessa degli armeni come popolo si era quasi perduta la memoria: penso a Vahakn Dadrian, Taner Akçam, Richard Hovannisian, Yair Auron, Robert Jay Lifton, Raymond Kévorkian, Marcello Flores e i tanti altri che hanno descritto con ricchezza di documenti la tragedia armena, ne hanno definito le caratteristiche genocidarie, controllato meticolosamente le perdite umane e le modalità di sterminio, regione per regione dell’Anatolia. Le numerosissime testimonianze dei sopravvissuti, trascritte o registrate a partire dal 1916, sono state poi raccolte e collazionate, e oggi costituiscono un insieme imponente, in cui le flebili voci dei superstiti si potenziano l’una con l’altra in un coro ripetuto e straziante. Ma, come ben scrive Taner Akçam, lo storico turco che si batte da tanti anni contro il negazionismo di stato del suo paese, il libro di Siobhan Nash-Marshall è qualcosa che ancora mancava in un panorama pur così ricco.
È la voce della filosofia, della riflessione che scava ad ampio raggio e trova le oscure e lontane radici di quelle ideologie e di quei comportamenti che a posteriori appaiono aberranti (come si è tante volte osservato a proposito delle persecuzioni antiebraiche e dei campi di sterminio nazisti), ma di cui spesso non riusciamo a comprendere la ragione profonda, il vero perché. Particolarmente interessante è l’analisi di quello che l’autrice chiama “il principio greco”. È infatti dalla pace di Adrianopoli del 1829, che sancisce il diritto del popolo greco ad avere come sua patria indipendente quella parte dell’Impero ottomano dove vivevano gli antichi greci (e tutta l’Europa, in pieno risveglio romantico, si mosse per sostenere questo diritto), che il diritto di nascita sostituisce, nel sentire comune, il “diritto di conquista”.
L’Impero romano – giusto per fare un esempio – considerava suoi i territori che conquistava, al punto da imporre ai popoli soggetti l’uso della lingua latina. Ma questo fu un disastro per l’Impero ottomano. Si giustificavano così le lotte irredentistiche di tutti i popoli sottomessi, ognuno dei quali rivendicava la sua terra, mentre ai Turchi, che governavano lo stato, ma erano venuti dalle steppe d’oriente, una “patria”, un vatan, mancava. Lo cercarono, e lo trovarono, in Anatolia: e tuttavia, per ottenerlo, bisognava allontanare – o meglio, eliminare – gli abitanti autoctoni di quella regione.
È con la sensazione di assistere alla costruzione di una trappola inesorabile che il lettore segue, capitolo dopo capitolo, i tasselli di questo progetto di morte mentre si incastrano lucidamente l’uno nell’altro. Tutto si tiene, e ogni affermazione poggia su riscontri e citazioni precise, tracciando un disegno chiarissimo che va dalla cultura tedesca dell’Ottocento, fra teorie filosofiche e articoli divulgativi sugli Armeni “che sono gli Ebrei del Medio Oriente”, fino ai testi degli ideologi dei Giovani Turchi che di quella cultura si sono nutriti. Ed è a partire da queste basi che Siobhan Nash-Marshall, in questo libro affascinante e coraggioso, affronta con ampia documentazione anche il problema dell’accanito negazionismo di Stato come “parte integrante del processo genocidario” (rav Giuseppe Laras). Ancor oggi infatti, dopo più di cent’anni, ogni diniego dei fatti, ogni capzioso distinguo rinnova nei cuori e nelle menti dei discendenti delle vittime l’orrore di quella tragedia infinita, la rende attuale e presente, allontana perdono e oblio.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-11 18:34:202025-02-12 18:38:33«Il genocidio in corso è quello armeno». Non se ne vuole saper nulla perché scomodo (Korazym 11.02.25)
Il viceministro dell’Interno dell’Armenia, Armen Ghazaryan, ha ricevuto oggi la prima missione di esperti dell’Unione europea nell’ambito del piano d’azione per la liberalizzazione dei visti. L’incontro, che ha visto la partecipazione di rappresentanti del ministero dell’Interno, della Direzione generale per la Migrazione e gli Affari Interni della Commissione europea, della Direzione generale per i negoziati di allargamento e della politica di vicinato, del Servizio europeo per l’azione esterna, di Frontex e della delegazione dell’Ue, ha trattato temi cruciali per il processo di liberalizzazione. Ghazaryan ha discusso di questioni fondamentali come la situazione migratoria attuale, l’introduzione di documenti biometrici, la gestione della migrazione e dell’asilo, e i processi di digitalizzazione. Ha anche sottolineato i progressi significativi compiuti dal ministero dell’Interno armeno grazie alla cooperazione con l’Ue, in particolare nelle aree della migrazione, della cittadinanza e della polizia. La missione di esperti, che durerà fino al 14 febbraio, condurrà un’analisi approfondita della situazione in Armenia e dei problemi da affrontare, contribuendo a definire i parametri necessari per la liberalizzazione dei visti Ue per i cittadini armeni. Durante l’incontro, sono state fornite risposte dettagliate alle domande dei rappresentanti dell’Unione europea.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-11 18:00:052025-02-12 18:39:24Armenia: incontro con esperti dell’Ue per la liberalizzazione dei visti (AgenziaNova 11.02.25)
Milano, 11 feb. (askanews) – Abaco, dal 2024 azienda parte del gruppo Diagram, tra i principali player agritech in Europa, ha siglato un contratto con la “Vine and Wine Foundation of Armenia” (VWFA) per un progetto dedicato alla gestione della filiera vitivinicola locale. Lo ha comunicato la stessa azienda, spiegando di essersi aggiudicata la gara per lo sviluppo dell’”Agricultural (Grape) Value Chain Management System”, un sistema “innovativo progettato per ottimizzare la tracciabilità e la gestione dei processi produttivi”.
In una nota, il Gruppo precisa che l’obiettivo è quello di progettare e sviluppare un “Agriculture Value Chain Information System” (Avcis), che fungerà da piattaforma centralizzata per la raccolta di dati sugli agricoltori che gestiscono un terreno coltivato a vite, compresi gli aggiornamenti annuali e le stime previsionali sulla produzione. “Si prevede che il sistema incrementerà la trasparenza e migliorerà il monitoraggio della produzione grazie a strumenti di reporting completi” precisa Diagram, spiegando che “l’implementazione di questo sistema informativo fornirà gli strumenti necessari per migliorare la gestione dei vigneti garantendo inoltre alti standard di qualità”.
“Questo progetto rappresenta un passo importante per la valorizzazione della filiera vitivinicola armena e siamo entusiasti di poter contribuire, con la nostra esperienza e tecnologia, alla crescita di un settore chiave per l’economia locale” ha commentato Roberto Mancini, Ad di Diagram Group, rimarcando che “l’aggiudicazione della gara rappresenta “un traguardo significativo che conferma il nostro impegno nel fornire soluzioni all’avanguardia per la gestione sostenibile delle risorse agricole”.
Diagram ha un portafoglio di clienti che copre oltre 2 milioni di ettari in Italia e oltre 500mila all’estero, e ha in organico un migliaio tra dipendenti e collaboratori che operano in diverse sedi tra Italia e Regno Unito.
La scrittrice: «Lo sterminio di inizio Novecento ricorda per molti aspetti la Shoah. E oggi quel popolo è ancora vittima. L’occidente non ne parla, perché trascura le proprie radici e cede ai ricatti di Erdogan e degli azeri»
Di CARLO CAMBI
CRITICA Antonia Arslan: il suo La masseria delle allodole, che racconta lo sterminio armeno, è tradotto in 25 lingue [Getty]
■ «Il Giorno della memoria? Forse non ne parlerò così bene; mi si permetta di raccontare una storia». Antonia Arslan sta nella cucina della casa di famiglia a Padova, lì dove la zia Enrica preparava la pakhlava: pasta fillo, ripiena di noci, mandorle e miele, cotta al forno. «È un profumo della mia infanzia, i turchi si sono presi anche quella: la chiamano baklava, ma non sanno che il nome vuol dire pane di quaresima, che è un dolce cristiano. La zia la faceva quando non era afflitta dalle sue fitte di tristezza: era lei la bambina a cui i turchi lanciarono la testa mozzata del padre, Sempad, il fratello di mio nonno, mentre era in braccio della madre. La mia Masseria delle Allodole (il romanzo uscito nel 2004 è stato tradotto in oltre 25 lingue, è arrivato a 45 edizioni: un libro culto adottato anche come testo didattico in moltissime scuole, ndr) è partita anche da lì, da quel cammeo terribile che nonno Jerwant, arrivato a Padova per studiare medicina, mi consegnò a Sospirolo, insieme al dramma della nostra deportazione. Ero bambina e si sentivano in lontananza gli echi della guerra». Lei, italianissima, è nata a Padova dove ha insegnato Letteratura contemporanea e moderna nell’università. Antonia però ha sangue armeno e quel sangue scorre come un fiume di ricordi, impetuoso nel coraggio di chiedere verità, nel pretendere che non si sopisca la memoria del primo genocidio dell’era contemporanea. Fanno, giusto nella prossima primavera, 110 anni esatti da quando i «giovani turchi» cominciarono a deportare e sterminare tutti gli armeni, oltre un milione e mezzo di persone cancellate.
E quel racconto che appanna il Giorno della memoria?
«C’erano in una cittadina dell’anatolia due commercianti, uno turco e uno armeno. Vicini di bottega e di casa che si rispettavano. Una mattina l’armeno va dal turco e gli confida: “Mi dicono che stanno per arrestarci tutti, io non ho il coraggio di chiedere al caimacam (sarebbe stato il sindaco), ti puoi informare?”. Passano diverse ore quando il turco bussa alla porta dell’armeno e gli dice: “Mangia tranquillo, poi ti racconto”. “No, dimmi”, fa l’altro. “Ebbene sappi che ti farò un grande favore: domattina sarò io ad ammazzare te, tua moglie, i tuoi due figli maschi e la piccoletta, così non patirete la deportazione”. Nella notte l’armeno fece fuggire i due figli più grandi. Uno riuscì ad arrivare in California e questa storia l’ha raccontata ad una mia carissima amica, ricercatrice antropologa. Degli altri, nulla si è più saputo. Sono centinaia di migliaia gli orfani di quella stagione. E nel Giorno della smemoria di loro non si vuol sapere nulla».
Eppure il genocidio degli armeni è, si può dire tragicamente, il prototipo della Shoa…
«Il termine genocidio è stato
creato da Raphael Lemkin, un avvocato ebreo polacco, che lo usò nel ’44 proprio a proposito dell’annientamento degli armeni. Non è un caso che a fianco dei giovani turchi a dirigere lo sterminio ci fossero dei generali tedeschi. Non è un caso che iniziò con la deportazione degli armeni di Costantinopoli, che ci sono state le marce della morte, che gli armeni siano stati ammassati nel deserto del Deir-elzor e lì finiti. Anche per questo primo genocidio c’è stata una Norimberga. Vennero processati i responsabili politici dei massacri. L’organizzazione clandestina armena Nemesis dette la caccia ai criminali turchi e Talat Pasha, il capo degli stragisti, venne ucciso a Berlino. Ma la responsabilità maggiore resta in capo a Mustafà Kemal. È lui che fa cancellare il trattato di Sevres che riconosceva l’autonomia dell’anatolia, è lui che dal 1915 al 1923 lavora alla costruzione del nazionalismo turco e scatena la guerra contro la Repubblica di Armenia. Il venerato Ataturk prospera sul sangue degli armeni. Le questioni di oggi, Siria, Libano, Palestina, si generano dall’ignavia delle forze che allora avevano vinto la Prima guerra mondiale. Inghilterra, Francia e Italia si sono fatte ricattare dalla Turchia».
I pro Pal? Li temo, ricordo come negli anni Settanta certe parole d’ordine si trasformavano in odio Il Giorno della memoria è un esercizio di retorica
La storia si ripete anche oggi?
«Purtroppo sì. In Turchia se si parla del genocidio armeno si finisce in galera. Tayyp Recep Erdogan prospera sull’ignavia dell’occidente: sfrutta il suo stare nella Nato, ricatta l’europa con i migranti e intanto tesse la tela della umma, del panislamismo. Lo fa sfruttando la crisi israelo-palestinese per annettersi ciò che resta dell’anatolia
e del Kurdistan. E lo stesso vale per l’azerbaijan che ormai ha chiuso la questione del Karabak facendolo sparire dalla carta geografica. E tutto questo perché l’occidente non si cura delle proprie radici e si sottopone al ricatto: militare di Erdogan, energetico degli azeri. E poi però ci si lava la coscienza con la retorica della Giornata della memoria».
Perché gli armeni rivendicano di possedere le radici dell’occidente?
«Il regno armeno è stato il primo ad abbracciare il cristianesimo: siamo nel 301. L’armeno è una lingua indoeuropea, forse la più antica. Infine, anche se oggi è in territorio turco noi vediamo il monte Ararat, noi siamo stati i primi vinificatori, noi abbiamo costruito la nostra identità attorno ai principi di tolleranza e di fratellanza. Quando ho tradotto i versi di Daniel Varujan – il suo Canto del pane è l’inno dell’anima armena – ho sentito la mia radice anatolica. E ho compreso che il genocidio degli armeni oggi deve essere dimenticato perché è scomodo».
In che senso?
«Può porre il tema del rapporto
con l’islam. Gli armeni sono cristiani. Può porre il tema del panarabismo, il tema dell’incapacità dell’occidente e dell’europa in particolare di rivendicare il proprio ruolo e di fare i conti con la storia».
E la saldatura con gli ebrei?
«Per quel che mi riguarda è una spinta del tutto personale, ma ci sono delle similitudini. Sono popoli condannati alla damnatio memoriae, sono popoli che hanno contribuito a rafforzare i Paesi che poi li hanno sterminati. In Turchia i maggiori architetti, i maggiori intellettuali dell’ottocento erano armeni, il ministro del Tesoro era armeno. Hanno pagato la loro “diversità” religiosa. Certo, oggi se a un armeno parli d’israele non è affatto contento, perché Tel Aviv ha aiutato l’azerbaijan nella conquista del Karabak. Ma lo ha fatto in funzione anti Iran. L’iran è la forza che andrebbe sterilizzata in quell’area, come sarebbe utile riparlare degli armeni per avere un quadro reale di cosa sono il Libano, la Siria la Palestina».
Che ne pensa dei pro Pal? Sta tornando l’antisemitismo?
«Li temo e confermo che la Giornata della memoria così come viene celebrata è in larga misura un esercizio di retorica per di più inficiata da gravi amnesie che non so dire se sono dolose o colpose, ma so che ci sono. È l’ennesima dimostrazione dell’ignavia dell’occidente. Possibile che non si abbia memoria di cosa sono stati gli anni Settanta-ottanta in Italia? Io c’ero all’università di Padova dove si allevavano i terroristi. Io lo so come certe parole d’ordine si trasformano in odio. E mi stupisco che vi sia indulgenza e indifferenza. Che è contraddire la Giornata della memoria. Quanto all’antisemitismo, non credo sia mai tramontato».
Servirebbe uscire dalla celebrazione e passare all’educazione?
«Esattamente. Come sono stati possibili i campi di concentramento o i gulag? Sono stati possibili perché qualcuno ha guardato altrove. La strada che da Monaco porta a Dachau è stata costruita dai prigionieri del lager, così come la ferrovia Berlino-baghdad gronda sangue armeno. Ciò che mi stupisce è che oggi l’occidente non ha più una diplomazia forte che può imporre la pace, che può togliere argomenti a quelli che attizzano la violenza nelle piazze, a quelli che insultano i morti chiamando tutto genocidio. Il genocidio è la deliberata distruzione di un popolo per cancellarne l’identità. È quello che ha compito la Turchia sugli armeni, quello di Hitler sugli ebrei. Per celebrare davvero la Giornata della memoria bisogna testimoniare, educare, dire ai giovani che esiste nell’uomo il massimo del bene e il massimo del male e che è attraverso la letteratura e la cultura che si tiene a bada il male. Non è pensabile che oggi i bambini non sappiano più scrivere in corsivo, che gli adulti fatichino a leggere un testo. Li portano a vedere la mostra di Frida Kahlo a sei anni perché qualche assessore alla Cultura si vuole fare bello e questi bambini nulla sanno della poesia, della vita. Da anni vado nelle scuole con la mia Masseria delle allodole, ma vado a testimoniare, non in piazza a sbandierare. E quanto alla questione armena solo la Francia – dove il negazionismo del genocidio è reato – e la Chiesa in larga misura con San Giovanni Paolo II hanno dato questa testimonianza. Altri Paesi come gli Usa, dove c’è la più alta concentrazione di armeni, tacciono. Eppure quel genocidio si perpetua ancora».
E l’italia che posizione ha?
«Venezia è stata la casa degli armeni, San Lorenzo degli Armeni è un motore di cultura e di identità armena. Dal punto di vista politico i rapporti dell’europa con Erdogan sono indubbiamente un limite».
Eppure una Repubblica armena esiste e resiste. Tre motivi per andare in Armenia?
«Solo tre motivi? Va bene. Il primo: gli armeni anche se provati dalla diaspora, anche quelli che non stanno in Armenia e purtroppo sono la maggioranza, hanno una immediata apertura verso lo straniero. Fanno dell’ospitalità, ancor più degli antichi greci che avevano la “xenia”, qualcosa di sacro. Un viaggio in Armenia, ecco il secondo motivo, è un’esperienza di bello assoluto: per i paesaggi, ma anche perché si sente che quella è la terra dell’origine. Il terzo motivo è che gli armeni sono molto sensibili alla poesia, alla musica e hanno danze bellissime; per contrappasso sono tra i migliori informatici del mondo. A dire che nessun genocidio potrà mai spezzare la continuità della vita che è un racconto fantastico che lega il passato col futuro».
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-10 20:52:262025-02-10 20:52:26«Il genocidio in corso è quello armeno» (La Verità 10.02.25)
Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan respinge le accuse di Baku secondo cui Erevan si starebbe armando per attaccare l’Azerbaigian. “Le affermazioni sull’intenzione dell’Armenia di attaccare l’Azerbaigian sono semplicemente inventate”, ha dichiarato Pashinyan in un articolo pubblicato sull’agenzia di stampa “Armenpress”. Secondo il premier, l’Armenia è impegnata nell’accordo di Praga del 6 ottobre 2022, che prevede il riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale sulla base della Dichiarazione di Alma-Ata. “Riconosciamo la sovranità dell’Azerbaigian sul territorio dell’ex Repubblica socialista sovietica azerbaigiana, così come Baku riconosce la nostra sovranità sull’ex Repubblica socialista sovietica armena”, ha sottolineato.
Pashinyan ha ribadito che l’esercito armeno “non ha l’obiettivo di riconquistare militarmente” le oltre 200 chilometri quadrati di territorio armeno sotto controllo azerbaigiano, confidando nella risoluzione della questione attraverso il processo di demarcazione dei confini. Sulle riforme delle Forze armate armene, il premier ha precisato: “Sì, l’Armenia sta rafforzando il proprio esercito, ma solo per difendere il proprio territorio sovrano, come previsto dal diritto internazionale”. Il primo ministro ha invece accusato l’Azerbaigian di alimentare tensioni con “retorica aggressiva, un massiccio riarmo e processi giudiziari inscenati a Baku”.
Pashinyan ha infine ricordato che “tutti i prerequisiti per la pace sono già stati stabiliti” e ha sollecitato la firma dell’accordo bilaterale fra i due Paesi caucasici, che “chiuderebbe definitivamente la porta a qualsiasi rivendicazione territoriale futura”. Erevan, ha concluso, “rimane impegnata nella pace e non devierà da questa strada”.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-10 20:44:572025-02-10 20:44:57Pashinyan: “Ci sono tutti i prerequisiti per la pace tra Armenia e Azerbaigian” (AgenziaNova 10.02.25)
A Nardò tornano le celebrazioni in onore di San Gregorio Armeno, un appuntamento ormai consolidato che, anche per il 2025, proporrà una settimana ricca di eventi religiosi e civili. Dal 13 al 19 febbraio, il Settenario aprirà il periodo di preghiera, con le Confraternite riunite nella Basilica Cattedrale Santa Maria Assunta.
Tra gli eventi più attesi, il 15 febbraio si terrà l’inaugurazione del nuovo organo della Cattedrale, resa possibile grazie al contributo dei fedeli. La cerimonia sarà accompagnata dalla distribuzione di un opuscolo commemorativo dedicato allo strumento restaurato.
Il 20 febbraio, alle ore 17:15, in Piazza Salandra, si svolgerà la tradizionale cerimonia dei cento rintocchi, un momento di raccoglimento per ricordare le vittime del terremoto del 1743. La giornata proseguirà con lo spettacolo dell’Orchestra sinfonica Tebaide d’Italia, che si esibirà dalle ore 20:00 con un repertorio di grandi classici della musica nazionale e internazionale.
Tra gli appuntamenti culturali spiccano anche i due concerti CandleLight del 18 febbraio nel Teatro comunale, che offriranno un’esperienza musicale a lume di candela (spettacoli alle 20:00 e 21:00, con ingresso su prenotazione).
Le celebrazioni si chiuderanno il 22 febbraio 2025, con il concerto di Antonio Castrignanò e Taranta Sounds, che animeranno via Grassi a partire dalle 21:00, regalando una serata all’insegna della musica e delle tradizioni popolari.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-07 20:36:062025-02-10 20:38:32San Gregorio Armeno 2025: a Nardò una settimana tra fede, tradizione ed eventi in musica (Lecce tomorrow 07.02.25)
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi sono due maestri dell’arte, la coppia di cineasti italiani più conosciuta all’estero. I loro film sono stati visti nei più prestigiosi musei del mondo: Reina Sofia, Jeu de Paume, Louvre, Tate Modern, Centre Pompidou, Moma, soltanto per citarne alcuni. Hanno vinto premi importantissimi: Il Leone d’Oro per Il Padiglione armeno, Biennale d’Arte di Venezia 2015, il premio FIAF. A breve con due mostre l’Italia li vedrà ancora protagonisti unici del Cinema di Avanguardia, ma non svelo qui i luoghi, per lasciare ai lettori il piacere della scoperta.
Qual è il primo ricordo della sua infanzia?
È una coperta sulle spalle, sulle gambe in una cantina di Merano durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Mi sembra di ricordare anche l’odore di umidità, e mia madre che mi teneva in braccio. Il profumo dei suoi capelli.
C’è un collegamento tra il bambino che si rifugia in cantina e il lavoro che insieme ad Angela Ricci Lucchi avete fatto per il vostro Cinema? Vi siete occupati in tanti vostri film della violenza del Secolo scorso, e nella vostra ultima Opera “Frente a Guernica” sottolineate cos’è il male e la guerra.
Certo che c’è un legame. Frente a Guernica l’abbiamo fatto proprio perché c’era e c’è la guerra in Europa, sentivo il bisogno di rispondere in qualche modo alla violenza. Il film ha preso il posto del Terzo Diario di Angela che ho rimandato ancora dopo i primi Due Diari proiettati in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia e che poi hanno fatto il giro del mondo.
La guerra evoca la morte, che cos’è per lei la morte?
Oggi la morte è diventata una questione televisiva, durante la guerra dei Balcani c’era questa pornografia sulla morte dove a qualsiasi ora ti mostravano delle immagini terribili. Distruzioni, corpi mutilati, e gli effetti della guerra. Tutto ciò ci aveva spinto nella metà degli anni Novanta a vederle con i nostri occhi: la morte e la guerra.
Soldati mutilati, interventi chirurgici di militari in alcuni vostri film… uomini sotto le bombe. Esiste una vita oltre la morte?
Torno indietro, dopo aver terminato nel 1986 Dal Polo all’Equatore che finiva con la Prima Guerra Mondiale, con la distruzione dei corpi durante i bombardamenti e con la distruzione del supporto stesso del cinema come strumento per far conoscere al mondo cosa accadeva durante i massacri. Cè una forza non quantificabile oltre la vita.
“Prigionieri della guerra” e non è soltanto il titolo di un vostro film.
Io mi sento ancora prigioniero della guerra. Siamo oggi più che mai tutti prigionieri della guerra.
Quando ha pianto l’ultima volta?
Di sicuro l’ultima volta non è stata quando ero bambino.
L’Armenia oggi, viste le sue origini armene… Suo padre Raphael Gianikian era un superstite del Genocidio armeno del 1915.
L’Armenia oggi è un luogo disperato, dove il cuore del Karabakh è stato perduto. Il luogo più profondo della cultura è stato distrutto. È un paese isolato che non riceve aiuti esterni. Soffre anche della sovrappopolazione di chi fugge dalle guerre.
Biden ha dichiarato per la prima volta che quello degli armeni è stato un Genocidio. Cosa le direbbe se potesse incontrarlo?
Amici americani mi avevano scritto di questo fatto. Gli direi “finalmente l’avete fatto. Ha avuto un grande coraggio. Non era stato fatto prima con Bush, con Obama. Gli mostrerei il finale del nostro film Uomini Anni Vita, dove gli armeni fuggono dal Karabakh da allora. E quella parte finale del film riguarda una marcia senza vedere dove il gruppo di esodati arriva. È una fuga, è una ricerca di donne, bambini e uomini di un rifugio. Ci sono due gemelli anziani che portano i corpi di bambini morti.
Ai politici quale film farebbe vedere?
Farei vedere loro Prigionieri della guerra. E poi la parte dell’operazione agli occhi di “Oh! Uomo” per spiegare attraverso i nostri film cos’è la guerra.
Qual è il filo rosso del vostro lavoro?
La violenza. Il Genocidio degli armeni. Lo sterminio senza fine del 1915 e non sufficientemente documentato. La ferocia degli esseri umani che non ha fine. Ma bisogna resistere e trasformare il male patito, così come mio padre mi ha insegnato, Raphael a tal proposito scriveva “audacia, sempre audacia.”
Che lavoro ha in cantiere?
I Diari di Angela Noi due Cineasti Capitolo Terzo.
Quant’è presente ancora Angela Ricci Lucchi nel lavoro cinematografico?
In pratica è sempre qui, che mi indica il nostro lavoro, che mi svela i suoi scritti. La sua ricerca.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-07 20:32:292025-02-10 20:33:39Intervista a Yervant Gianikian: “Siamo tutti prigionieri della guerra non solo nei film” (Identità 07.02.25)
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