Sul podio dei Pomeriggi Musicali torna George Pehlivanian con il violinista Stefan Milenkovich (Ipomeriggi 20.01.25)

Sul podio dei Pomeriggi Musicali torna George Pehlivanian con il violinista Stefan Milenkovich

In programma musiche di Komitas, il Concerto per violino n. 2 di Prokof’ev e la Settima Sinfonia di Beethoven

Torna attesissimo il direttore d’orchestra George Pehlivanian per l’80a stagione concertistica 2024/2025 dei Pomeriggi Musicali “80 anni suonati” al Teatro Dal Verme giovedì 23 (ore 10 e ore 20) e sabato 18 gennaio (ore 17).

In programma la Suite armena di Padre Komitas, quindi il Concerto n. 2 per violino e orchestra op. 63 di Sergej Prokof’ev affidato al celebre violinista serbo Stefan Milenkovich e, nella seconda parte la Sinfonia n. 7 in La maggiore op. 92 di Ludwig van Beethoven.

«”Musica di grandi eventi”. Il titolo di queste note – scrive Raffaele Mellace – è preso in prestito da una dichiarazione di Sergej Prokof’ev, uno degli autori in programma. Il concetto ben si adatta infatti ai lavori proposti, gravidi di Storia, aperti a implicazioni che travalicano l’individuo, destinati alle folle. Di grande rilevanza collettiva è sicuramente la musica del padre Komitas (il nome, assunto all’ordinazione, richiama un compositore di inni del VII secolo), figura tragica e modernissima di monaco, assurto a simbolo dell’identità armena. Addottoratosi a Berlino nel 1895, Komitas fu attivissimo nella ricerca etnomusicologica, esercitata sul campo trascrivendo personalmente nei villaggi migliaia di melodie tradizionali armene, curde, persiane e turche, poi rivisitate in composizioni anche molto ambiziose. Il suo apostolato per la musica e la cultura armena culminò nel Congresso della Società internazionale di musicologia di Parigi nella primavera 1914, alla vigilia della Grande guerra, con relazioni e un concerto nella chiesa armena. Nel 1915, nelle prime fasi del genocidio perpetrato dai turchi, Komitas fu deportato, trauma da cui non si riprese più. […] In quella stessa Parigi che assistette all’apostolato per la cultura armena di padre Komitas, Sergej Prokof’ev scrisse il tema principale del primo movimento del Concerto per violino n. 2, lavoro di respiro davvero internazionale, a dimostrazione della “vita nomade” dell’autore a quei tempi: il secondo movimento fu infatti composto a Voronež, in Russia, l’orchestrazione fu ultimata a Baku, in Azerbaijan, e la “prima” avvenne a Madrid il 1° dicembre 1935, nell’anno in cui il povero padre Komitas si spegneva in un ospedale psichiatrico di Parigi. Intercettiamo Prokof’ev a una svolta esistenziale, la vigilia del rientro definitivo (1936) in Unione Sovietica dopo diciotto anni di peregrinazioni tra Stati Uniti ed Europa, inclusa la Parigi di Ravel e Debussy. L’ultima commissione occidentale del compositore russo nasce per il violinista francese Robert Soëtens, che con il collega Samuel Dushkin, dedicatario nel 1931 del Concerto per violino di Stravinskij, aveva interpretato la “prima” della Sonata per due violini di Prokof’ev. Concepito in origine anch’esso come sonata, il Concerto in Sol minore è un gioiello di poesia crepuscolare, caratterizzato da quel terso lirismo che costituisce lo splendido marchio di fabbrica dell’ispirazione di questo gigante del Novecento. […]  Musica che pare realizzare le idee espresse nel 1931 sulla missione del compositore: “È passato il tempo in cui la musica veniva creata per un manipolo di esteti. Oggi vaste folle popolari sono giunte faccia a faccia con la musica seria e se ne stanno in attesa con ardente impazienza. […] Le folle amano la grande musica, la musica di grandi eventi, di grandi amori, di vivide danze. Esse capiscono assai più di quanto credano taluni compositori”. Di folle e di Storia parla il capolavoro beethoveniano che conclude il programma odierno. Umiliata dall’occupazione francese e quindi costretta a un armistizio oneroso, Vienna, patria adottiva di Beethoven, offriva uno spettacolo che il 26 giugno 1809, dieci giorni prima della vittoria di Napoleone a Wagram, Beethoven commentava con queste parole: “Che devastazione e sconquasso attorno a me, nient’altro che tamburi, cannoni, afflizione umana d’ogni genere». Il furore delle armi e le drammatiche difficoltà dei tempi, ahinoi tanto attuali, lungi dal restare ai margini delle composizioni beethoveniane, vi si riversano imperiosamente e impregnano l’invenzione musicale influenzando in misura determinante la qualità della scrittura. Sarebbe impossibile concepire una partitura simile prescindendo dal contesto storico-culturale di un’Europa avviata a completare un secondo decennio di guerre, rivoluzionarie prima e napoleoniche poi: andranno ricondotte al rumore della Storia, meno indirettamente di quanto si potrebbe supporre, la spiccata propensione alla gestualità, le sonorità marziali, l’immagine sonora di un sublime che in quella stagione tanto inquieta non poteva se non assumere il tono d’uno stile eroico. Nacque in quel contesto la Settima sinfonia […]: fragorosa musica di guerra, corroborata dall’ubiquo protagonismo dei fiati, in grado di trasformare il rumore della Storia in pura euforia dionisiaca»

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Lo strano caso Azero (Ariannaeditrice 20.01.25)

L’Azerbaijan, paese ben collocato nell’area di crescente importanza strategica dell’Asia centrale, da un punto di vista geopolitico si colloca nell’orbita turcofona, ed è sicuramente il miglior alleato di Ankara. Il governo di Baku ha di recente rimesso in campo le sue rivendicazioni verso l’Armenia, sia per quanto riguardava l’enclave del Nagorno-Karabakh (questione poi risolta con il veloce conflitto del settembre 2023), sia soprattutto per la questione del corridoio di Zangezur, che dovrebbe collegare la Repubblica autonoma di Nakhchivan al resto dell’Azerbaijan, attraverso la regione armena di Syunik. A sua volta l’Armenia, paese tradizionalmente collocato nell’orbita russa, ha di recente avviato un progressivo avvicinamento all’occidente (UE, NATO) allontanandosi da Mosca. Dopo la disastrosa sconfitta del 2023, di cui Erevan porta non poche responsabilità, questo avvicinamento si è ulteriormente accentuato, soprattutto attraverso la Francia – paese tradizionalmente amico, che ospita una comunità della diaspora armena.
La questione del corridoio di Zangezur è in effetti al centro di tensioni più ampie, poiché l’Iran è decisamente contrario; la sua creazione, infatti, verrebbe a tagliare le sue linee di transito verso nord-ovest attraverso l’Armenia. Oltretutto, l’Azerbaijan – grazie agli oleodotti turchi – è un importante fornitore di petrolio di Israele, con il quale peraltro Baku intrattiene ottimi rapporti, anche per quanto riguarda la difesa. Teheran, dunque, ha più di una ragione per trovarsi in contrasto con il paese vicino. Baku ed Ankara, oltretutto, manovrano per mettere sotto pressione l’Iran (la mossa turca in Siria non è che l’aspetto più eclatante), anche sotto il profilo energetico; la Socar, compagnia statale azera nel settore, ha annunciato investimenti per oltre 17 miliardi di dollari in Turchia, in particolare nella produzione di componenti necessarie alla raffinazione. In tal modo, il greggio azero – passante tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che trasporta il petrolio dal Mar Caspio al Mediterraneo attraverso la Turchia – verrà raffinato in loco, rafforzando ulteriormente il legame tra i due Stati.
Ma l’area del Medio Oriente allargato è un tale groviglio di interessi, che può accadere di tutto.
Ed ecco infatti che viene annunciato un accordo trilaterale (in via di definizione), Russia-Iran-Azerbaijan, che prevede la costruzione di un gasdotto che attraverso l’Azerbaijan fornirà all’Iran inizialmente 2 miliardi di metri cubi di gas all’anno, con l’obiettivo di raggiungere infine i 55 miliardi di metri cubi. La capacità massima pianificata di questo gasdotto dovrebbe essere uguale a quella del Nord Stream. L’accordo, della durata di 30 anni, fornirà gas russo all’Iran sia per il consumo interno che per i paesi limitrofi.
Nonostante detenga la seconda riserva di gas naturale più grande al mondo (34 trilioni di metri cubi, dopo la Russia), l’Iran si trova infatti ad affrontare una carenza di carburante, poiché la domanda di gas supera la produzione. La maggior parte delle riserve non è sfruttata a causa delle sanzioni imposte dagli USA, che bloccano gli investimenti e il miglioramento della tecnologia, e oltretutto i principali giacimenti di gas dell’Iran sono concentrati nel sud, mentre i maggiori consumatori si trovano nel nord, dal clima piuttosto rigido, ragion per cui in inverno l’Iran si trova ad affrontare una carenza giornaliera di almeno 260 milioni di metri cubi di gas, mettendo a dura prova la fornitura di elettricità.
Ovviamente Baku, oltre a ricavarne introiti dal diritto di passaggio, potrebbe a sua volta usufruire di parte del gas trasportato. Se, come sembra, l’accordo verrà finalizzato, si verrebbe insomma a creare una situazione di maggior cointeresse tra i tre paesi, che in qualche misura – ed in prospettiva – potrebbe portare sia ad una risoluzione negoziata dei contenziosi tra Iran ed Azerbaijan, sia ad una limitata riduzione dell’influenza turca nella regione.
Insomma, il grande gioco geopolitico continua…

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Armeni e Bari, un legame che dura da oltre mille anni (Rainews 20.01.25)

Padre Gerardo Cioffari: “La presenza di una fiorente comunità armena a Bari è attestata da preziose pergamene che risalgono sino al 990 d.c.”

Lo stretto rapporto tra Bari e gli armeni risale ad oltre 11 secoli fa, come documentano alcune preziose pergamene risalenti sino all’anno 990 e custodite dall’Archivio storico di San Nicola. Il direttore padre Gerardo Cioffari: “Gli armeni erano perfettamente integrati nel tessuto sociale del tempo. Anche due tra i primi baresi a ricevere miracoli da San Nicola erano armeni.” Molto interessante anche il riferimento al “morgingab” (chiamato anche “dono del mattino” o pretium virginitatis) che secondo il diritto longobardo (osservato sia dai baresi che dagli armeni del tempo) obbligava il marito a concedere alla moglie la quarta parte del proprio patrimonio.

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Stalinismo e gulag. Il genocidio armeno nel film “Amerikatsi” (Avanti 20.01.25)

Genocidio armeno, stalinismo, ricerca dell’identità, giusti nei gulag, i temi al centro di “Amerikatsi”: film armeno, tra commedia e drammatico, montato, diretto e interpretato da Michael A. Goorjian. Attore e regista USA di famiglia di origini armene da parte del padre (i cui genitori erano superstiti del genocidio armeno del “1915 e dintorni”), e scozzesi della madre. Il film, nelle sale italiane dal 16 gennaio, è stato presentato ultimamente al pubblico e alla stampa al cinema “Delle Province” di Roma (Piazza Bologna), da tempo animatore di un coraggioso esperimento di cinema d’essai: alla presenza anche dell’ambasciatore armeno in Italia. Come “Ararat”, la celebre pellicola del 2002 dell’armeno, naturalizzato canadese, Atom Egoyan, “Amerikatsi” riporta alla memoria collettiva il “Mec Yeqern”, il genocidio armeno da parte dei turchi a partire dal 1915, ma il suo è soprattutto un grido di libertà, nella migliore tradizione dei film dI ambientazione carceraria, da “L’uomo di Alcatraz” a “Le ali della libertà”.

Charlie (ricordiamo che Goorjian, classe 1971, interpretò un ruolo importante già in “Charlot”, del 1992, commovente omaggio dell’inglese Richard Attemborough alla memoria del grande “vagabondo” Charlie Chaplin) è un bambino che è riuscito a sfuggire al Mec Yegern – in cui ha perso la madre – nascondendosi in un baule diretto negli USA. Dopo oltre trent’anni, nel 1948, torna nel suo Paese, rimpatriato come tanti altri armeni, ma si deve scontrare con la dura realtà del comunismo staliniano (l’Armenia diverrà Paese indipendente solo nel 1991, col crollo dell’Impero sovietico). Ma, dopo aver incontrato una donna armena, moglie del direttore di un carcere (conoscenza che poi gli tornerà determinante), con un figlio piccolo, una notte viene arrestato dalle guardie sovietiche con diverse accuse: come essere una spia americana, diffondere idee anticomuniste e cosmopolite e … indossare una cravatta (indumento dalla pericolosa valenza borghese…!). Si ritrova così rinchiuso in prigione, condannato ai lavori forzati, continuamente vessato da guardie e militari, che lo chiamano Charlie Chaplin.

Ma, come spesso accade nella vita, non tutto il male viene per nuocere. Dalla finestra della sua cella, il nostro riesce a osservare quello che avviene nella casa di fronte, nella famiglia di Tigran (nome comune in Armenia, dove Tigrane II, il Grande, fu, tra il II e i I sec. A.C., un sovrano della dinastia degli Artassidi, a lungo in lotta contro i romani): guardia che lavora nella torre del penitenziario, ma avrebbe voluto dedicarsi solo all’arte, precisamente alla pittura (di cui Charlie è appassionato)… E Tigran e’ il cognato della donna che, tempo prima, aveva preso Charlie a benvolere; mentre suo marito è proprio il direttore del carcere… Ecco, nello “spiare” dell’armeno/americano, dalla sua cella, in casa di Tigran e della moglie, un chiaro omaggio all’Alfred Hitchcock de “La finestra sul cortile” (Tigran improvvisamente, alzando lo sguardo verso l’edificio di fronte, come il Raymond Burr/Lars Thorwald, l’assassino del capolavoro di Hitchcok, si accorge di essere tenuto d’occhio). Mentre altro richiamo (voluto?) del film è quello a…Lucio Dalla e alla sua celebre canzone “La casa in riva al mare “ (dall’LP “Storie di casa mia”, del 1971): con il povero carcerato che per anni, guardando dalla sua cella il mare e una casa bianca sulla riva, sogna la libertà e un futuro felice con Maria, la donna che la abita. Richiamo, infine, anche ad…Altiero Spinelli: che, nel primo volume delle sue memorie, “Come ho tentato di diventare saggio”, ricorda i pochi momenti lieti trascorsi, in prigione (sino al 1937, come militante comunista), immaginando di riuscire ad evadere e tornare alla libertà insieme a una nuova donna.

In ultimo, Charlie riuscirà a migliorare molto le sue condizioni di vita nel carcere grazie all’aiuto di Tigran, di sua cognata e di altri imprevisti Giusti del gulag (come sappiamo, non sono esistiti solo i Giusti dei lager), che eviteranno, a lui e ad altri, la finale deportazione in Siberia. Sinchè, la morte di Josif Stalin, il 5 marzo 1953, e la simultanea ascesa al potere dell’ucraino Nikita Krusciov, segneranno, almeno in parte, la fine di un’epoca (e qui, come non pensare, pur nella diversità delle situazioni, ad Alexandr Solzenycin, che raccontò, parecchi anni fa, di quando, trovandosi, malato di cancro, in carcere come dissidente, iniziò a sentirsi meglio proprio appena saputo della morte di Stalin…).

Il film – ha ricordato l’ Ambasciatore – ha rappresentato l’Armenia all’ultimo Festival di Cannes. E’ stato presentato in anteprima al Woodstock Film Festival nel 2022, vincendo il premio come miglior lungometraggio narrativo. L’Armenian Film Society ha tenuto un’ulteriore anteprima dell’opera al suo Armenian Film Festival del 2023 a Glendale, in California; la pellicola, inoltre, è stata selezionata come candidato armeno per il miglior lungometraggio alla 96a edizione dei Premi Oscar.

Fabrizio Federici

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ARMENIA. Yerevan alleata di Washington è una minaccia per Russia, Iran, Azerbaijan e Turchia (Agcnews 20.01.25)

Senza sbocchi sul mare nel Caucaso meridionale, l’Armenia è circondata da stati i cui programmi si scontrano con i suoi. L’Azerbaijan, fresco della sua vittoria militare nel Nagorno-Karabakh, nutre ambizioni di ulteriori guadagni territoriali. La Turchia, suo alleato, cerca di cementare un corridoio diretto attraverso il territorio armeno verso l’Azerbaijan. L’Iran, profondamente diffidente dell’influenza degli Stati Uniti, vede un’Armenia allineata all’Occidente come una minaccia. Anche la Georgia, tradizionalmente vista come un partner, probabilmente si tirerà indietro di fronte all’aumento dell’attività degli Stati Uniti nella regione, che potrebbe destabilizzare la sua delicata posizione geopolitica.

Il 14 gennaio 2024, il primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha dato il la ad una nuova storia per Yerevan. Durante la visita del ministro degli Esteri armeno Ararat Mirzoyan negli Stati Uniti, Washington e Yerevan hanno stipulato un accordo di partenariato strategico tra i due stati. Da parte americana, il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato alla cerimonia firmando un accordo per la parte statunitense. L’accordo è stato celebrato a Washington come un passo avanti verso il rafforzamento della sovranità armena. L’Armenia dunque lascia la coperta russa per infilarsi sotto quella statunitense.

Secondo alcuni analisti del Caucaso meridionale: “Allineandosi così strettamente agli Stati Uniti, l’Armenia rischia di diventare una nuova Ucraina, un piccolo paese strategicamente posizionato all’epicentro delle rivalità tra grandi potenze. Proprio come le aspirazioni NATO dell’Ucraina hanno oltrepassato le esplicite linee rosse della Russia, la partnership dell’Armenia con gli Stati Uniti rischia di inimicarsi tutti i suoi vicini. Le piccole nazioni coinvolte nel fuoco incrociato delle lotte di potere globali possono pagare il prezzo più alto”.

L’accordo firmato copre un’ampia gamma di settori di cooperazione bilaterale, compresi i settori della difesa, della sicurezza, della scienza, dell’istruzione, energia, cultura, nonché riformare il sistema economico e giuridico dell’Armenia. Per esempio la gestione della centrale nucleare accordo in scadenza il prossimo anno. Gli ultimi punti presuppongono il finanziamento da parte dell’America per le riforme. Washington consoliderà grazie ai finanziamenti la sua influenza su Yerevan e tuttavia l’Armenia dovrà affrontare non solo cambiamenti interni. Il rafforzamento dell’influenza degli Stati Uniti non è affatto una buona notizia non solo per la Russia ma anche per Turchia, Azerbaigian e Iran, perché una cellula di destabilizzazione permanente apparirà nelle loro immediate vicinanze.

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Hrant Dink, voce di libertà e resistenza del popolo armeno (Ultimavoce 19.01.25)

Hrant Dink, giornalista di origini armene, è stato una figura emblematica nella lotta per la riconciliazione tra turchi e armeni e per la libertà di espressione in Turchia. Fondatore del giornale “Agos”, Dink ha dedicato la sua vita a dar voce alla comunità armena, denunciando apertamente il genocidio del 1915 e sfidando le restrizioni imposte dall’articolo 301 del codice penale turco. Il suo assassinio, avvenuto il 19 gennaio 2007, ha scosso profondamente il Paese, evidenziando le tensioni tra la difesa dell’identità turca e il diritto alla verità storica.

Un tragico epilogo per un giornalista scomodo

Il 19 gennaio 2007, Hrant Dink, 52 anni, giornalista di spicco della comunità armena in Turchia, fu assassinato davanti alla sede del quotidiano Agos, di cui era direttore. Due colpi di pistola posero fine alla vita di un uomo che aveva dedicato la sua carriera alla riconciliazione tra turchi e armeni, una delle diaspore più grandi del 1900 e fortemente revisionata dal governo turco. Le sue posizioni sul genocidio armeno del 1915, che Dink definiva apertamente tale, lo resero un bersaglio dei nazionalisti turchi, ma anche di un sistema giuridico e mediatico che lo perseguitò fino alla fine.

Hrant Dink non era soltanto un giornalista; era un simbolo della lotta per i diritti civili e umani, un ponte tra due popoli divisi da una storia dolorosa. Tuttavia, la sua figura divenne troppo scomoda, e il suo assassinio fu l’epilogo di una campagna di odio e intimidazione alimentata da molti settori della società turca.

La persecuzione giudiziaria e mediatica

Fin dall’inizio del nuovo millennio, Hrant Dink fu vittima di una lunga serie di processi penali. Nel 2002, durante una conferenza a Urfa, dichiarò di non essere turco, ma un cittadino turco di origine armena. Questa affermazione che lo portò in tribunale con l’accusa di insulto all’identità turca. Sebbene assolto in quella circostanza, Dink continuò a essere perseguitato.

Nel 2004 e nel 2005, ulteriori dichiarazioni pubbliche lo portarono nuovamente davanti ai giudici, in particolare per aver affermato che la figlia adottiva di Mustafa Kemal Atatürk fosse di origine armena.

Nel 2006, un’intervista rilasciata a Reuters nella quale definiva “genocidio” gli eventi del 1915 aggravò la sua posizione. Accusato di “offesa all’identità turca”, Hrant Dink venne condannato a sei mesi di carcere, una sentenza simbolica che, tuttavia, non spense il suo impegno per la verità storica e la riconciliazione.

Il coraggio di restare

Nonostante le minacce di morte e il clima di ostilità, Hrant Dink rifiutò di lasciare Istanbul. Il giornalista era consapevole dei pericoli che correva, ma sentiva il dovere morale di continuare la sua battaglia. Poco prima della sua morte, scrisse un articolo in cui paragonava la sua situazione a quella di una colomba: sempre in allerta, ma determinata a non arrendersi.

Se non comprenderemo al più presto cosa sia esattamente questo qualcosa – il nazionalismo – e non ne definiremo le regole, a causa della bandiera scorrerà ancora molto sangue.

Il 19 gennaio 2007, davanti alla sede del quotidiano Agos, un diciassettenne ultranazionalista, Ogun Samast, lo uccise a sangue freddo. Le indagini successive rivelarono l’esistenza di una rete più ampia di mandanti, probabilmente legata ai servizi segreti e a gruppi ultranazionalisti. La vicenda portò alla luce un’organizzazione segreta, nota come Ergenekon, che mirava a eliminare le voci critiche nel Paese.

Le proteste e il ricordo

L’omicidio di Hrant Dink scatenò un’ondata di indignazione in tutta la Turchia e oltre. Migliaia di persone si radunarono per le strade di Istanbul, portando cartelli con la scritta “Siamo tutti Hrant Dink”. Ogni anno, l’anniversario della sua morte diventa occasione per commemorare il suo coraggio e denunciare la repressione della libertà di espressione in Turchia.

Il processo contro il suo assassino, iniziato nel 2007, mise in luce molteplici responsabilità. Il diciassettenne Samast venne condannato a ventidue anni di carcere, ma rimanevano interrogativi sulle complicità istituzionali. Nel 2010, il Ministero dell’Interno fu condannato per non aver garantito la sicurezza di Dink, nonostante le minacce ricevute.

Il ruolo di Agos e l’eredità di Hrant Dink

Fondato nel 1996, Agos fu il primo settimanale bilingue in turco e armeno, simbolo del dialogo e della coesistenza. Il termine “Agos”, che significa “furrow” cioè “solco”, rappresentava l’idea di seminare nuove opportunità per la comprensione reciproca. Hrant Dink utilizzò le pagine del giornale per affrontare temi spinosi come il genocidio armeno e il rapporto tra la comunità armena e lo Stato turco.

Il giornalista era convinto che solo attraverso il dialogo e la conoscenza reciproca fosse possibile superare le divisioni storiche. Le sue idee trovarono resistenze sia all’interno della comunità armena, timorosa di esporsi troppo, sia nella società turca, dove il nazionalismo rimaneva una forza dominante.

La censura dell’articolo 301 e i tabù turchi

L’articolo 301 del Codice penale turco, entrato in vigore nel 2005, punisce chiunque “offenda la turchicità”, un concetto vago che è stato spesso usato per reprimere la libertà di espressione. Questo articolo rappresenta una delle principali barriere al dibattito pubblico su temi delicati come la questione armena, i diritti dei curdi e il ruolo dei militari nella società.

Dink, come molti altri intellettuali turchi, si scontrò con questa legge, simbolo di un sistema incapace di affrontare il proprio passato. La sua morte evidenziò la necessità di una riforma profonda per garantire la libertà di pensiero e superare i “tabù” che soffocano il progresso democratico del Paese.

La figura di Hrant Dink resta un modello per coloro che lottano per la verità e la giustizia, per i diritti umani e quelli civili, contro ogni forma di revisionismo storico da parte di politici e storiografici nazionali e nazionalisti. La sua voce, sebbene spezzata, continua a ispirare migliaia di persone in Turchia e nel mondo. Dink non è solo un martire della libertà di stampa, ma un simbolo di speranza per una società capace di riconoscere i propri errori e costruire un futuro basato sul rispetto reciproco.

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“Uniti nella gratitudine: un abbraccio lungo un secolo” (Corrierepl 19.01.24)

Uniti nella gratitudine: un abbraccio lungo un secolo” è un’iniziativa del Consolato Onorario della Repubblica d’Armenia in Bari, con la gentile collaborazione dell’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia. Essa intende sensibilizzare i propri amici e sostenitori alla Donazione di Sangue.

Come afferma il Console Onorario della Repubblica d’Armenia in Bari, Dario Rupen Timurian: “In un contesto di accoglienza e integrazione, è importante avere un forte senso di dovere morale verso la terra che ci ospita. L’evento “Uniti nella gratitudine: un abbraccio lungo un secolo” nasce da questo sentimento di riconoscenza e dalla volontà di contribuire al bene della comunità italiana e pugliese in particolare, attraverso un gesto concreto e nobile, come la donazione di sé.

L’iniziativa è una risposta tangibile a questo principio: donare il sangue, un’azione che salva vite, è un atto di profonda solidarietà e di appartenenza alla società che ci comprende e che ci accoglie. Con questa semplice ma fondamentale azione, vogliamo dimostrare che, per quanto piccolo possa sembrare il nostro contributo, esso può fare la differenza. Invitiamo tutti quindi tutti a partecipare a questa giornata, dando il proprio supporto e mostrando con un gesto concreto il desiderio di essere parte attiva del tessuto sociale che ci circonda.”

A seguire nell’ambito della medesima iniziativa alle ore 18,30 presso il Museo Civico di Bari si terrà la presentazione della “Trilogia di Yeghishe Charents” pubblicata dalla Leonida ed. a cura di Naira Ghazaryan che dialogherà dell’opera con Siranush Quaranta e Carlo Coppola. Per l’intera durata della manifestazione sarà a Bari una rappresentanza del personale della missione diplomatica della Repubblica d’Armenia in Italia.

Per adesione alla Donazione di Sangue e info:

tel. e WhatsApp il numero +393759092438

email: info@consolatoarmenobari.it

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Amerikatsy, favola armena in corsa per l’Oscar (Ansa e altri 18.01.25)

Amerikatsy’ di e con Michael Goorjian – in sala con Cineclub Internazionale Distribuzione e nella short list degli Oscar per l’Armenia – è una bella favola di resistenza e di amore per questo paese ambientata durante il tragico periodo sovietico staliniano.”Di solito i film sull’Armenia si concentrano su quell’evento cruciale che è stato il Genocidio, ma in realtà è limitante raccontare la cultura e la vita di un paese intero limitandosi a quel capitolo tragico – dice il regista armeno-americano -.
Amerikatsi celebra tutto questo e racconta al mondo aspetti e sfaccettature dell’Armenia, che sin dalla mia giovinezza avevo desiderio di scoprire”.
Protagonista del film Charlie (interpretato dallo stesso Goorjian), scappato al genocidio armeno nascondendosi in un camion diretto negli Stati Uniti. Ma, come molti altri rifugiati, soffre molto di nostalgia del suo Paese e così nel 1948 rimpatria in Armenia, dove viene accolto dalla dura realtà del Comunismo Sovietico nel periodo staliniano.
Lo spirito armeno è ormai soffocato dall’integralismo marxista e Charlie viene addirittura arrestato ingiustamente da un comandante russo, Dmitry, solo perché geloso di sua moglie Sona.
Messo in isolamento perché non contamini con il suo ‘cosmopolitismo’ gli altri prigionieri, come le stesse guardie carcerarie, Charlie che per il suo modo di essere viene soprannominato in carcere ‘Chaplin’, non si lascia abbattere da nulla. Scopre così che dalla finestrella dentro la sua cella può osservare l’appartamento di fronte con la giovane coppia che ci abita, Tigran e Ruzan.
La vita di questa famiglia diventa per lui come una serie tv da seguire e imitare. Charlie è sempre lì in finestra ad osservare cosa fanno Tigran e Ruzan che diventano lentamente quella famiglia armena che non ha mai avuto, per lui comunque il modo più diretto per immergersi in quella cultura in cui ci sono le sue radici.


“Amerikatsi”: La favola di resistenza e amore nell’Armenia sovietica di Michael Goorjian (Gaeta.it)


Amerikatsi (Altrenotizie)


“Amerikatsi”, il mondo di Charlie visto dalla finestra. La recensione di Roberto Nepoti (La Repubblica)

L’Armenia ‘divisa’ tra Stati Uniti, Unione Europea e Russia (MSN 18.01.25)

L’Armenia, ex stato sovietico che per decenni è stata ancorato alla Russia, sta vivendo un periodo di grande fermento geopolitico, segnato da mosse decisive che sembrano segnare un distacco dai tradizionali alleati e una ricerca di nuove alleanze. Il paese, infatti, ha recentemente firmato una carta di partenariato strategico con gli Stati Uniti e ha approvato un progetto di legge per avviare la sua candidatura all’Unione Europea. Questi sviluppi sono il frutto di un contesto internazionale in rapido mutamento, che vede la regione del Caucaso, e l’Armenia in particolare, come un campo di battaglia per le influenze delle potenze globali.Un passo verso Bruxelles
La scorsa settimana, il governo armeno ha approvato una legge fondamentale per l’integrazione del Paese nell’Unione Europea. Il primo ministro Nikol Pashinyan ha dichiarato che questa legge rappresenta una svolta storica per l’Armenia, ma ha anche avvertito che il processo sarà arduo e richiederà non solo la volontà politica del governo ma anche un ampio sostegno popolare. La legge, infatti, non implica una adesione immediata, ma segna l’inizio di un lungo cammino che, se approvato dal Parlamento e confermato tramite un referendum, porterà alla formalizzazione della candidatura armena a Bruxelles.

Il passo verso l’Ue arriva in un momento di grande instabilità per l’Armenia. Negli ultimi anni, i legami con la Russia si sono progressivamente indeboliti, in parte a causa della percezione che Mosca non abbia sostenuto adeguatamente il Paese durante gli eventi della Seconda guerra del Karabakh, che si è conclusa con la riconquista del territorio da parte dell’Azerbaigian. La mancanza di un intervento decisivo da parte della Russia ha spinto l’Armenia a riconsiderare le sue alleanze strategiche, e ora si trova in una posizione complessa, divisa tra il desiderio di avvicinarsi all’Occidente e la difficoltà di rompere con un partner storico come la Russia.

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Genocidio degli armeni, presentata una nuova edizione de “La Masserie delle allodole” (Rainews e altri 17.10.25)

La cerimonia a Ferrara, alla presenza dell’autrice Antonia Arslan, cittadina onoraria della città estense

Avent’anni dalla sua pubblicazione, pubblicata una nuova edizione de “La Masseria delle Allodole” celebre romanzo che racconta una “storia negata”: quella del genocidio degli armeni, perseguitati dalla nuova Turchia nazionalista, che nasceva su basi etniche. Presente alla cerimonia anche l’autrice del romanzo Antonia Arslan, discendente di un’illustre famiglia italo-armena, scrittrice e professoressa di letteratura italiana a Padova, e divenuta cittadina onoraria di Ferrara nel 2021

Nel servizio di Francesco Satta (montaggio Giuseppe Di Marco) le interviste alla scrittrice Arslan e a Marco Gulinelli, Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara

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Arslan racconta ’La masseria delle allodole’ : “Sono la cantastorie del genocidio infinito” (Il Resto del Carlino)


La scrittrice Antonia Arslan al Lux per il film “Amerikasti” con il regista Michael A. Goorjian (PadovaOggi)


Ferrara celebra Antonia Arslan: emozione e memoria con “La masseria delle allodole”


ANTONIA ARSLAN HA PRESENTATO – PER LA PRIMA VOLTA – LA RIPUBBLICAZIONE DE ‘LA MASSERIA DELLE ALLODOLE’. (AgneParl)