Processo di Baku con Accuse Farsesche agli Armeni del Nagorno. Richiesta la Presenza di Osservatori Internazionali. (Stilum Curiae 16.01.25)

PROCESSO DI BAKU: CHIEDIAMO L’INVIO DI OSSERVATORI INTERNAZIONALI

Il 17 gennaio si apre a Baku (Azerbaigian) il processo agli otto ex leader del Nagorno Karabakh/Artsakh. Tra di loro tre ex presidenti, un ministro degli Esteri, un ex ministro di Stato della Repubblica di Artsakh, l’ultimo presidente del parlamento, tutti catturati nel settembre 2023, durante l’aggressione azera che portò alla pulizia etnica finale degli armeni del Nagorno Karabakh.

Attualmente ci sono 23 prigionieri armeni internati illegalmente a Baku e ostaggi del regime di Aliev. Il processo, che inizierà il 17 gennaio, riguarda sedici di loro. Lungi dal rispondere

secondo gli standard del diritto internazionale, sarà una ennesima parodia della giustizia, davanti a una corte che non sarà né indipendente né imparziale.

I detenuti sono perseguiti penalmente sulla base di ridicole accuse politicamente e sostanzialmente infondate (genocidio, riduzione in schiavitù, sparizione forzata di persone, tortura, finanziamento del terrorismo, creazione di un’associazione criminale…) seguendo una tattica familiare all’Azerbaigian ovvero quella di rovesciare sugli armeni le nefandezze compiute negli anni dal regime azero.

Gli avvocati azeri loro assegnati esercitano i loro poteri sotto la pressione della procura a sua volta anche controllata dal potere; in Azerbaigian è vietato l’ingresso degli avvocati stranieri, gli imputati (che rischiano l’ergastolo) non hanno potuto prendere atto della voluminosa documentazione raccolta contro di loro perché scritta in lingua azera e senza possibilità di traduzione!

Gli imputati e gli altri prigionieri di guerra armeni sono solo ostaggi nelle mani del dittatore Aliyev.

Facciamo appello alle istituzioni italiane affinché, anche eventualmente d’intesa con l’Unione europea, invii osservatori internazionali a monitorare l’andamento dei processi farsa di Baku.

Facciamo appello ai media affinché diano quanto più spazio possibile a questi processi farsa

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA

NOTA INFORMATIVA

Secondo le informazioni delle ONG per i diritti umani, confermate dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, l’Azerbaigian detiene ancora almeno 23 prigionieri armeni, tra cui 9 prigionieri di guerra, 6 civili e 8 leader politici della Repubblica autodeterminata dell’Artsakh (Nagorno Karabakh), Alcuni di loro sono stati accusati di terrorismo e condannati tra i 15 e i 20 anni di carcere dopo processi farsa. in violazione del diritto internazionale e degli impegni assunti dall’Azerbaigian ai sensi della dichiarazione di cessate il fuoco del 10 novembre 2020.

Nel settembre 2020, per la seconda volta dalla fine dell’URSS, l’Azerbaigian ha lanciato una guerra su vasta scala nel Nagorno Karabakh, dopo 26 anni di conflitto congelato. A seguito di questa guerra di 44 giorni, il 9 novembre 2020 è stata firmata una dichiarazione tripartita di cessate il fuoco tra i presidenti dell’Azerbaigian, della Russia e del primo ministro armeno, in vista di un successivo accordo di pace. ​Questa dichiarazione prevedeva lo scambio di tutti i prigionieri di guerra tra l’Azerbaigian da un lato e l’Armenia e il Nagorno Karabakh dall’altro. Così, dall’inizio del 2021, tutti i prigionieri di guerra azeri sono stati restituiti dall’Armenia.

​Il processo di restituzione di alcuni prigionieri di guerra con civili armeni catturati è stato effettuato in diverse ondate nel 2021, ma l’Azerbaigian ha deliberatamente interrotto il ritorno dei prigionieri rimanenti, rendendo il loro rilascio un oggetto di ricatto nelle sue relazioni con l’Armenia. Inoltre, dal 2021 l’esercito azero ha compiuto diverse incursioni nel territorio dell’Armenia stessa, prendendo ogni volta nuovi prigionieri.

​​Oltre ai 23 prigionieri confermati dall’Azerbaigian, ci sono ampie prove che indicano l’esistenza di almeno altre 80 persone catturate (video della loro cattura, testimonianze di ex prigionieri rilasciati…) di cui non si hanno ulteriori notizie, e di cui l’Azerbaigian nega l’esistenza. Il destino di questi “scomparsi con la forza” rimane incerto, poiché il Comitato Internazionale della Croce Rossa non ha informazioni su di loro e non è in grado di visitarli. Secondo Siranouch Sahakyan, avvocato delle famiglie dei prigionieri di guerra, l’Azerbaigian ha restituito all’Armenia quaranta corpi di soldati uccisi, anche se ci sono prove video della loro cattura. L’Azerbaigian non ha mai dato alcuna spiegazione per le uccisioni.

Il 15 giugno 2021, durante un viaggio in Nagorno Karabakh in compagnia del presidente turco Erdogan e di sua moglie, il presidente azero ha ammesso apertamente di “detenere ancora molti prigionieri di guerra armeni”, e di poterli utilizzare per costringere l’Armenia a fare concessioni non previste dall’accordo tripartito del novembre 2020.

In conformità con il diritto internazionale umanitario e il diritto dei conflitti armati, i soldati catturati prima e dopo il cessate il fuoco devono essere riconosciuti come prigionieri di guerra e beneficiare della protezione della Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei prigionieri di guerra del 12 agosto 1949 (“Convenzione di Ginevra III”).

LISTA DEI PRIGIONIERI (ACCERTATI)

– Allaverdyan Davit (37 anni), militare (data della cattura 29.09.23), a processo il 17.01.25.

– Babayan Davit (51), ex ministro Esteri e ministro di Stato (28.09.23), a processo il 17.01.25.

– Babayan Madat, (72), civile (29.09.23), a processo il 17.01.25.

– Balayan Levon (47), militare (29.09.23), a processo il 17.01.25.

– Beglaryan Rashid (52), civile (1.08.23), processato e condannato 12.07.24 a 15 anni.

– Beglaryan Vasili (32), militare (29.09.23), a processo il 17.01.25.

– Davtyan Davut, (31), civile (11.11.20), processato e condannato il 26.07.21 a 15 anni.

– Euljekjan Viken (45), civile (10.11.20), processato e condannato il 14.06.21 a 20 anni.

– Ghazaryan Erik (40), militare (29.09.23), a processo il 17.01.25.

– Ghukasyan Arkadi (67), ex presidente della repubblica (3.10.23), a processo il 17.01.25.

– Harutyunyan Araiyk (51), ex presidente della repubblica (3.10.23), a processo il 17.01.25

– Ishkhanyan Davit (56), ex presidente Assemblea nazionale, a processo il 17.01.25

– Khachatryan Vagif (69), civile (29.07.23), processato e condannato il 14.05.24 a 15 anni.

– Khosrovyan Aliosha (57), militare (31.10.20), processato e condannato il 2.08.21 a 20 anni.

– Manukyan Davit (53), ex ministro della Difesa (27.09.23), a processo il 17.01.25.

– Martirosyan Garik (53), militare (29.09.23), a processo il 17.01.25.

– Mkrtchyan Lyudvig (55), militare (31.01.20), processato e condannato il 2.08.21 a 20 anni

– Mnatsakanyan Levon (59), ex ministro della Difesa (29.09.213), a processo il 17.01.25

– Pashayan Melikset (54), militare (29.09.23), a processo il 17.01.25

– Sahakyan Bako (64), ex presidente della repubblica (3.10.23), a processo il 18.01.25

– Stepanyan Gurgen (38), militare (29.09.23), a processo il 18.01.25

– Sujyan Gevorg (35), civile (11.11.20), processato e condannato il 26.07.21 a 15 anni.

– Vardanyan Ruben (56), ex ministro di Stato ((27.09.23), a processo il 17.01.25

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Aliyev non si ferma e l’Azerbaigian minaccia l’Armenia (Tempi 16.01.25)

Il regime dittatoriale di Baku, che definisce l’Armenia uno “stato fascista”, incarna il fascismo attraverso le sue stesse azioni. Più evidente tra queste, i noti livelli di propaganda nazionalista anti-armena e discorsi di odio i quali culminarono nel 2023 nella completa pulizia etnica degli armeni dall’Artsakh (Nagorno-Karabakh).

Ricordiamo che lo status dell’Azerbaigian come stato fascista è evidente nella sua orchestrazione della pulizia etnica di Artsakh, ciò è avvenuto dopo un blocco di nove mesi e la deliberata fame imposta alla popolazione armena – in totale disprezzo della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che aveva richiesto l’apertura del corridoio di Lachin.

Oggi, a distanza di quasi due anni dalla pulizia etnica in Artsakh (Karabakh) i riflettori dei media internazionali sono sul nuovo regime terrorista siriano, i cui leader portano sulle mani il sangue dei cristiani. Va detto in questo contesto che se gli armeni siriani, che combattevano per il diritto dell’esistenza pacifica dell’Artsakh venivano etichettati come “terroristi” dalla macchina propagandistica di Baku, oggi quest’ultima si impegna interamente a “giustificare” le attività disumane dei terroristi estremisti in Siria. Degno di nota è il gruppo estremista islamico Hayat Tahrir al-Sham che è riconosciuto come organizzazione terroristica non solo dagli Stati Uniti e dalla Russia, ma anche dalla Turchia. Tuttavia, i media statali di Baku lo definiscono “opposizione siriana”, cercando di sminuire la sua natura apertamente terroristica. Questo vergognoso rebranding riflette l’impegno del regime nell’allinearsi con gli estremisti e nel legittimare i loro atti barbarici.

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Un manifesto con la scritta “Karabakh è Azerbaijan!” a Baku (foto Ansa)

Lo sfondo geopolitico

La diminuzione dell’influenza dell’Iran nella regione rappresenta uno sviluppo cruciale, evidenziato in particolare dalle sue perdite in Siria. Il rapido rovesciamento del regime di Assad in soli dieci giorni segna una sconfitta per l’Iran sul piano internazionale. Ad aggravare questa battuta d’arresto, il tandem turco-azero sta intensificando la pressione economica sull’Iran, ostacolando il transito dei camion iraniani attraverso i propri territori.

Questa stretta geopolitica spiega perché il presidente azero Ilham Aliyev abbia intensificato la sua retorica bellicista contro l’Armenia, affermando che il corridoio extraterritoriale attraverso l’Armenia «deve e sarà aperto». La sua retorica e le sue politiche non sono solo anarchiche, ma fondamentalmente anti civiltà. Un esempio lampante è il genocidio culturale in corso in Artsakh, dove le chiese armene vengono sistematicamente deturpate e distrutte.

Inoltre, il dittatore di Baku sta arricchendo l’arsenale di narrazioni anti-armene e anti-iraniane per avanzare ulteriormente il suo programma espansionistica. Al centro di ciò vi è oggi la grottesca fabbricazione di un cosiddetto “Azerbaigian occidentale”, una narrativa che disconosce apertamente l’integrità territoriale e la sovranità dell’Armenia. Questa è l’ennesima narrazione inventata dal regime di Aliyev per prolungare il suo dominio come dittatore egemone dell’Azerbaigian, che ha ereditato il potere dal suo defunto padre Heydar. Il termine “Azerbaigian occidentale” si riferisce audacemente al territorio armeno riconosciuto a livello internazionale, in ritorsione al termine Armenia occidentale, che designa un’area geografica concreta nell’attuale Turchia, un tempo casa di milioni di armeni massacrati durante il primo genocidio del ventesimo secolo. Inoltre, per prevenire il legittimo ritorno dei rifugiati armeni alla loro terra ancestrale in Artsakh, Aliyev ha persino iniziato a propagare la falsità di un numero immaginario di “cittadini azeri sfollati” che, secondo la sua tesi, dovrebbero essere autorizzati a tornare in quello che lui etichetta “Azerbaigian occidentale”.

Proteste a Yerevan (Armenia) per l'invasione azera in Artsakh, 20 settembre 2023 (Ansa)
Proteste a Yerevan (Armenia) per l’invasione azera in Artsakh, 20 settembre 2023 (Ansa)

L’Azerbaigian minaccia l’Armenia

Sotto questa cinica rivendicazione si cela un piano terroristico meticolosamente orchestrato, che prevede l’infiltrazione di agenti terroristici nella Repubblica d’Armenia per fomentare odio, incitare scontri interetnici con lo scopo di fabbricare giustificazioni per l’intervento delle forze armate azere sotto il pretesto di “proteggere i civili turco-azeri” presumibilmente oppressi dagli armeni nel cosiddetto “Azerbaigian occidentale”.
Aliyev usa la terminologia coniata da Putin.

In un confronto palesemente impari con una democrazia che supera l’Azerbaigian di centinaia di passi nei diritti umani e nelle libertà, il regime di Aliyev ha avuto l’audacia di invocare la “demilitarizzazione e denazificazione” dell’Armenia. Questo mentre lo stesso Azerbaigian accumula armi d’assalto da Israele, Pakistan, Bielorussia e altri stati apertamente anti-armeni. Appropriandosi della stessa retorica incendiaria usata da Putin prima della sua invasione dell’Ucraina, Aliyev minaccia ora un altro attacco contro il territorio sovrano della democratica Armenia. Secondo le sue richieste, l’Armenia dovrebbe restituire tutte le armi acquistate, modificare la propria costituzione, bloccare la missione civile dell’Ue in Armenia e ritirare le denunce internazionali presentate contro l’Azerbaigian dopo la guerra del 2020 – tutto ciò nel tentativo di legittimare la pulizia etnica e il massacro sistematico degli armeni tra il 2020 e il 2023 e per aprire la strada a nuove aggressioni.

In sostanza, la dittatura fascista neo-ottomana sta incessantemente progettando nuove strategie per lanciare una nuova guerra contro l’Armenia, con l’obiettivo finale del suo completo annientamento.

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Uno sguardo dall’interno

A conclusione, citiamo le potenti parole della giornalista azera Nurlana Khalil, membro dei media d’opposizione che, per le sue opinioni politiche dissenzienti, subisce minacce di morte dalla macchina repressiva della dittatura di Aliyev. Rispondendo alla retorica bellicosa incessante del dittatore contro l’Armenia, Khalil afferma con precisione: «Guardate questo dittatore miserabile dell’#Azerbaigian #Aliyev, il cane di #Putin, che arresta giornalisti, accademici, attivisti, persino cittadini europei venuti in Azerbaigian. Usa la tortura contro i prigionieri, ruba miliardi dal bilancio statale, mentre il popolo vive in povertà».

Nel frattempo, le nazioni europee continuano ad armare una dittatura che definisce la prima nazione cristiana “fascista” e il “dittatore miserabile” si prepara apertamente a lanciare un nuovo attacco per conquistare ulteriori territori della Repubblica d’Armenia. È evidente che questa complicità ipocrita mina i principi di democrazia e diritti umani che tali nazioni europee dichiarano di sostenere.

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“Armenia a prova di tensione: l’ultima pericolosa mossa di Pashinyan”, l’Editoriale dell’Amb. Bruno Scapini (Gazzetta Diplomatica 15.01.25)

a firma apposta ieri dal Ministro degli Affari Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, all’Accordo di Partenariato Strategico con gli USA, sembra gettare ineluttabilmente Yerevan in un pericolosissimo “cul-de-sac”.

L’atto, infatti, concluderebbe quel lungo processo avviato fin dal 2018, anno di ascesa al potere di Pashinyan in esito ad una quanto mai generosa “rivoluzione di velluto”, fatto di ambigui, quanto sottili, ma comunque continui, passi verso un progressivo allontanamento del Paese da Mosca in favore di una deriva euro-atlantista dalle prospettive purtroppo assai incerte e non scontate.

Il Trattato testé firmato con Washington, ovvero con una Amministrazione americana uscente, a poche ore dall’insediamento alla Casa Bianca del nuovo Presidente Donald Trump, assume così tratti perplessi, inducendoci a immaginare che qualche ragione sotterranea abbia giocato un determinante ruolo nell’assumere questa decisione. Ma cerchiamo di capire.

L’ Armenia, contrariamente al passato, è venuta a rivestire in questi più recenti anni un rilievo vieppiù crescente per Washington quale pedina da usarsi al momento opportuno per un progetto anti-Russia nel quadro di quel processo di destabilizzazione perseguita dai circoli militaristi occidentali in tutta l’area già appartenuta alla ex Unione Sovietica. Yerevan, si sa, è storicamente integrata nei fondamentali interessi strategici di Mosca di cui condivide la partecipazione all’Unione Economica Euroasiatica e alla CSTO (Collective Security Treaty Organization), sebbene quest’ultima recentemente “sospesa” per scelta del Primo Ministro Pashinyan. Costui, d’altra parte, già oppositore dei precedenti Governi democraticamente eletti e internazionalmente riconosciuti, si sarebbe chiaramente prestato ai Paesi occidentali  – con una sorprendente  loro vampata di interesse per il Paese che chiaramente tradisce la pigra indifferenza del trentennio precedente –  quale personaggio ideale per condurre l’Armenia ad una decisiva svolta pro-occidentale, sottraendola in tal modo all’influenza del Cremlino, e integrarla sempre più nei circuiti economici e militari euro-atlantisti.

Dopo la sconfitta subita da Pashinyan (ma non dal suo popolo) nella seconda guerra del Karabagh del 2020  – guerra peraltro votata fin dall’inizio ad una preannunciata capitolazione per la maniera “non convinta” di condurla – Yerevan si è trovata ad affrontare – senza alcun aiuto occidentale, ma con la sola assistenza iniziale di una Russia delusa dal corso politico del nuovo Governo – le pretese velleitarie del Presidente azero, Ilham Aliyev, determinato ad ottenere dalla vittoria il massimo beneficio ricorrendo perfino alla minaccia di un nuovo ricorso all’usa della forza.

Il conseguente indebolimento della posizione armena vis-à-vis col nemico azero, avrebbe così offerto facile pretesto al Primo Ministro armeno per accusare Mosca di non essere intervenuta a sua difesa (il che se fosse accaduto avrebbe sollevato di certo aspre critiche da parte dei Paesi occidentali avverso la Russia tacciata di invadenza e aggressività), giustificando così, con inconsistenti ragioni, la decisione già antecedentemente presa, di volersi allontanare dalla sfera di interessi del Cremlino.

Orbene, proprio in questi primi giorni del 2025 la temperatura della tensione tra Yerevan e Baku sembra sia salita bruscamente. Mentre il Presidente azero, tronfio della vittoria conseguita, alza i toni della retorica bellicista, il Primo Ministro armeno, forse intimorito dalla tracotante inverecondia del suo rivale, cerca di ammansirlo nelle sue intemperanze offrendogli appetibili concessioni purché sia fatta salva la pace. Ma all’azero le profferte armene né piacciono, né bastano.

Aliyev, peraltro, ha fatto chiaramente intendere nella conferenza stampa tenuta lo scorso 7 gennaio, che non potrà mai accedere ad un trattato di pace con l’Armenia se le sue condizioni non verranno soddisfatte. Da parte di Baku, infatti, oltre alla riconquista di tutto il Karabagh con i  7 territori azeri occupati e all’ottenimento di parte della regione armena di Tavush, si chiederebbe ora tutta una serie di ulteriori concessioni  tra cui principalmente: l’apertura del Corridoio di Zangezur,  l’area di Syunik (col rischio di una pericolosa separazione del territorio armeno a beneficio di un collegamento diretto tra Azerbaijan, Nakhchivan e Turchia), lo scioglimento del Gruppo di Minsk dell’OSCE (istituito quale meccanismo negoziale di pacificazione fin dalla fine della prima guerra del Karabagh), il ritorno dei rifugiati azeri, la cessazione del riarmo e, men che non si creda, addirittura la modifica della Costituzione per rimuovere il riferimento operato dalla Dichiarazione di Indipendenza – giudicato oltremodo insidioso per gli effetti di reviviscenza che avrebbe sullo spirito nazionalista armeno – alle cause storiche della riunificazione del Karabagh alla Madrepatria e al perseguimento del riconoscimento universale del Genocidio armeno del 1915. Un efferato crimine di portata storica ancora, purtroppo, misconosciuto da molti Governi e principalmente negato dalla Turchia suo esecutore materiale.

Ecco allora che il Trattato testé firmato a Washington viene ad acquistare di intellegibilità e chiarezza.

Collocandolo nel contesto del rapporto conflittuale con l’Azerbaijan, la mossa dell’ultim’ora compiuta da Pashinyan  si spiegherebbe con la necessità di concludere con l’Amministrazione Biden, la stessa che avrebbe pilotato l’Armenia in questi anni verso un distacco da Mosca, un accordo in grado di tutelare in qualche modo l’Armenia da una eventuale nuova aggressione azera. Da qui, dunque, l’urgenza di porre il Paese sotto tutela americana. L’Accordo, anche se non si può definire tecnicamente un’alleanza militare, si concede, tuttavia, ad una varietà di opzioni alternative, di indubbio effetto deterrente su Baku, come l’invio di unità doganali e di controllo dei confini, esercitazioni militari congiunte (Eagle Partner) – magari rafforzando quelle già svolte nei due anni precedenti – e altre forme di collaborazione strategica come nel settore del nucleare.

Collocato, per contro, nel contesto del confronto/scontro condotto da Washington nei confronti di Mosca, che ha nella guerra in corso in Ucraina il suo centro focale, il Trattato assumerebbe un indubbio aspetto strategico consolidando il distacco dell’Armenia dall’area di influenza moscovita per farne un altro possibile progetto contro la Russia in linea di continuità con quel processo di destabilizzazione avviato ai suoi confini dall’allargamento ad Est della NATO.  Perché allora non attendere per la firma del Trattato la nuova Amministrazione americana destinata in fondo a dare esecuzione effettiva alle intese? La ragione risiederebbe nella opportunità di evitare, non solo una rielaborazione dell’accordo in sé con una Amministrazione del tutto estranea ai precedenti negoziali dell’intesa, ma anche, e soprattutto, il rischio che la prospettiva più che mai concreta oggi di un possibile riavvicinamento di Trump a Mosca – e non dimentichiamo in proposito l’accusa mossa dal “tycoon” a Biden di aver commesso un errore storico nel promuovere una “proxy war” con Mosca di cui ora potrebbe anche comprenderne le ragioni –  valesse a vanificare l’intera iniziativa negoziale. Con la firma oggi dell’accordo, invece, è l’Amministrazione americana come tale impegnata e non tanto Trump della cui proclività a continuare l’esercizio strategico con Yerevan vi sarebbero valide ragioni per dubitare.  In ogni caso, gli USA si troverebbero ben avvantaggiati dalla mossa di Pashinyan in quanto in grado di mettere piede in terra armena in maniera stabile, quale presunto esito di una “libera” scelta democratica del Paese a consentirlo, e in disprezzo di una concomitante presenza militare della Russia, non solo con unità ai confini con la Turchia, ma anche con la sua base militare di Gyumri e le connesse diramazioni nelle aree di Artashat, Armavir e Meghri.

Lo schieramento così attuato da Pashinyan con gli USA, qualora non dovessero intervenire nell’immediato decisive reazioni da parte di Mosca, certamente implicherà negative conseguenze sulla tradizionale cooperazione intrattenuta da Yerevan con il Cremlino. E rileverebbe in tal senso la possibile compromissione derivante dalla svolta armena di tutti quei vantaggi di cui storicamente il Paese fruisce poggiando sull’amicizia con Mosca, senza, per contro, avere certezza di ottenere equivalenti benefici dall’adesione ad una Unione Europea (del cui interesse è testimonianza la recente legge governativa intesa a delinearne il percorso), oggi sulle difensive sul piano migratorio, in recessione su quello  economico, e in regressione politicamente per un possibile avanzamento dei recenti corsi nazionalisti tesi, a seguito della attuale montata delle forze politiche sovraniste, a sovvertire le politiche comunitarie. Non dimentichiamo, infatti, che la Russia è il primo Paese di emigrazione per l’Armenia registrando ben 2.8 milioni di cittadini residenti, e che è anche il primo Paese per volume di interscambio commerciale (9.9 miliardi di dollari nel 2024) con un export armeno di valore triplo rispetto all’import. Non solo, ma a completamento del quadro informativo, giungerebbe, infine, anche un ulteriore elemento di valutazione: ovvero come la ricca disponibilità di fonti energetiche fornite oggi da Mosca a basso costo, non troverebbe assolutamente compensazione stando l’Armenia in Europa con conseguente grave compromissione dello sviluppo economico e sociale del Paese.

Ma ancor più gravi, a ben guardare, sarebbero gli effetti sul piano strategico.

Il rischio, infatti, non ipotetico, ma reale, per l’Armenia di Pashinyan di non trovare per il settore della sicurezza e della difesa quell’auspicato aiuto occidentale – come indurrebbe a pensare il sostegno dato dalla NATO alla Turchia e, più significativamente, la recente dichiarazione del Segretario di Stato, Antony Blinken, secondo cui gli USA non potrebbero mai divenire garanti delle posizioni armene nella crisi del Nagorno Karabagh – implicherà prevedibilmente una pericolosissima esposizione del Paese – già per sua collocazione geografica vulnerabile – alle politiche aggressive ed espansionistiche dei suoi più immediati vicini: l’Azerbaijan, quale storico antagonista di una Armenia che considera come Azerbaijan Occidentale, e la Turchia protesa oggi più che in passato a svolgere un ruolo assertivo all’estero nella prospettiva – confermata dalla sconcertante retorica del suo Presidente Erdogan – di realizzare un auspicato revisionismo storico di ottomana matrice, come dimostrato peraltro dai tentativi di espansione condotti da Ankara in Siria, in Libia e nella stessa Africa. L’esito di tale radicale cambiamento sarebbe, dunque, drammatico per l’Armenia che resterebbe isolata in una regione altamente critica, qual è per l’appunto il Transcaucaso, con l’esito intuibilmente fatale un domani per la integrità territoriale del Paese che perderebbe, da un lato, sostegno dalla Russia e fiducia dall’Iran, un vicino in fondo fino ad oggi amico e interessato al mantenimento dello “statu quo” sul fronte meridionale dell’Armenia, senza, dall’altro, acquisire certezze dall’Occidente incline, non tanto a sostenere il Paese nel suo sviluppo, quanto piuttosto ad usarlo come pedina nello scacchiere geopolitico incurante dei suoi destini. Del resto l’indifferenza con cui l’Occidente assisteva al Genocidio del popolo armeno nel lontano 1915, senza neanche un minimo intervento a sua protezione, dovrebbe insegnare qualcosa alle nuove generazioni armene affinché, traendo giusta lezione dalla Storia, comprendano i reali rischi della situazione in cui oggi il Paese si trova.

Bruno Scapini

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L’Armenia firma un memorandum d’intesa con gli Stati uniti (Il Manifesto 15.01.25)

Ieri l’Armenia ha firmato un documento che ufficializza la nascita di un partenariato strategico con gli Usa. Il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, ha incontrato a Washington il Segretario di Stato americano uscente, Antony Blinken, per firmare il memorandum d’intesa strategica che porta a compimento un processo iniziato con la Rivoluzione di velluto del 2018.
Il Paese caucasico lo scorso 9 gennaio ha anche approvato un progetto di legge che mira a portare a termine tutte le riforme necessarie per il processo di adesione all’Unione europea, come è già avvenuto in Georgia.

A tale proposito, la Russia, con la quale l’Armenia condivideva l’alleanza militare Csto, ha subito avvertito Erevan che non le sarà permesso di aderire contemporaneamente all’Ue e all’Unione economica eurasiatica (Ueea), rievocando il contrasto del 2012 sul percorso europeista dell’Ucraina. In Armenia, da quando nel 2018 migliaia di persone scesero in piazza per invocare un cambiamento di rotta deciso nella politica nazionale e l’allontanamento da Mosca, molte cose sono cambiate e l’entusiasmo filo-occidentale di una parte della popolazione si è molto ridimensionato. La causa principale è il mancato intervento di Usa e Ue durante le due guerre del Nagorno-Karabakh contro l’Azerbaijan del 2020 e del 2023. Per motivi analoghi, tuttavia, anche le simpatie filo-russe della parte più tradizionalista del Paese negli ultimi anni sono crollate. Il Cremlino è accusato di non essere intervenuto a difesa dell’Armenia contro Baku (che invece era sostenuta attivamente dalla Turchia) e di non aver ordinato di intervenire al corpo di interposizione stanziato nella regione a garanzia della tregua del 2020.

La firma del trattato con gli Usa mette Erevan in una posizione delicata nello scacchiere caucasico, senza delle effettive garanzie di sicurezza ma con la minaccia militare di Azerbaijan e Turchia tuttora presente per il cosiddetto corridoio di Zangezur nel sud del Paese. Mosca, inoltre, ha dichiarato chiaramente che non tollererà ingerenze di Washington ai suoi confini e nelle sue aree storiche di influenza.

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ARMENIA: Verso la candidatura all’UE per uscire dall’orbita russa (EastJournal 15.01.25)

Il governo armeno ha presentato un disegno di legge per dare il via al processo di adesione all’Unione europea. Sullo sfondo interessi comuni, dall’economia alla geopolitica in funzione antirussa, ma anche il monitoraggio degli equilibri nella regione del Nagorno-Karabakh.

Un primo, timido passo di avvicinamento all’Unione europea. L’Armenia ha delineato un disegno di legge in cui si esprime la volontà di inoltrare domanda di adesione all’Ue, in netta contrapposizione alla storica vicinanza della piccola repubblica del Caucaso alla sfera di influenza russa. Il governo guidato dal premier Nikol Pashinyan ha fatto la sua mossa, adesso toccherà al parlamento armeno esprimersi sulla possibilità che Yerevan presenti formalmente la sua candidatura a Bruxelles.

Ad attendere l’Armenia è un percorso lungo e complesso, già affrontato in passato da Estonia, Lettonia e Lituania, che condividono con il Paese caucasico lo status di ex repubblica sovietica: all’eventuale approvazione parlamentare farà seguito un referendum su scala nazionale, dopodiché – se Bruxelles darà l’ok – cominceranno le negoziazioni con l’Unione europea e, contemporaneamente, un processo di adeguamento legislativo all’acquis europeo.

L’euroadesione, tra sforzi e ritorsioni

Già nel 2023, intervenendo all’emiciclo di Strasburgo, Pashinyan aveva affermato la disponibilità dell’Armenia a compiere tutti gli sforzi necessari per avvicinarsi all’Ue, pur senza esprimere aspirazioni all’adesione formale. Sostegno che adesso, a distanza di neanche due anni, sembra essere maturato nelle decisioni del governo, intenzionato a intavolare con Bruxelles una discussione quanto mai concreta per definire i prossimi passi.

Le difficoltà, però, non mancano. Con una popolazione che non supera i tre milioni di abitanti, la piccola repubblica è un alleato storico della Russia, tanto che il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha risposto alla volontà di aderire all’Unione europea sottolineando da un lato la libertà di scelta di Yerevan, ma ribadendo dall’altro l’urgenza di estrometterla dall’Unione economica eurasiatica il giorno in cui dovessero spalancarsi definitivamente le porte di Bruxelles.

Intanto lunedì 13 gennaio, proprio dalla capitale belga, il portavoce della Commissione, Anouar El Anouni, è intervenuto in conferenza stampa incalzato da un giornalista che ha domandato chiarimenti sulla posizione europea, proprio in considerazione della celere replica da Mosca. «Le discussioni in corso dimostrano l’attrattività dell’UE e dei nostri valori: Armenia e Europa non sono mai state tanto vicine come adesso, e il 2024 l’ha mostrato in modo evidente, con l’avvio del dialogo per la liberalizzazione dei visti e un’assistenza alle forze armate armene del valore di dieci milioni di euro. L’obiettivo è incrementare il sostegno finanziario attraverso il piano di resilienza e crescita, l’integrazione commerciale e la diversificazione energetica».

La questione del Nagorno-Karabakh

Le nubi che offuscano l’orizzonte europeo dell’Armenia riguardano i rapporti con il vicino Azerbaigian riguardo al Nagorno-Karabakh, la regione contesa fra i due Stati e teatro di ripetute violazioni dei diritti umani, più volte criticate anche da Bruxelles. Ad alimentare la tensione le recenti dichiarazioni del presidente azero Ilham Aliyev, secondo il quale «l’Armenia rappresenta una minaccia fascista che dev’essere annientata»: per il Paese guidato da Pashinyan, parole che suonano come il preludio a una riacutizzazione dello scontro.

Eppure, proprio gli screzi con Baku hanno in un certo senso permesso all’Armenia di sganciarsi dal giogo della Russia, sia pur bruscamente: nell’autunno del 2023, l’esercito di Mosca fallì nel tentativo di difendere l’autoproclamata repubblica di Artsakh, un feudo abitato dalla popolazione armena minacciato dalle truppe di Baku. Persa quell’enclave strategica nel Nagorno-Karabakh, di tutta risposta l’Armenia fuoriuscì dall’alleanza militare che la teneva legata proprio alla Russia.

Via da Mosca, direzione Bruxelles?

Quel gesto, effettuato in aperta polemica col Cremlino, ha dato inizio a un percorso di allontanamento dalla Russia e, contestualmente, ha finito per intensificare proprio il dialogo con l’Europa: visite ufficiali, scambi istituzionali e alcuni piccoli tentativi di riforma a livello normativo, tutti elementi che possono rappresentare oggi un fattore chiave per l’adesione alla famiglia europea.

Presto o tardi, la speranza dalle parti di Bruxelles è che il piccolo Stato caucasico non faccia la fine della vicina Georgia, dilaniata da forti scontri sociali e, per il momento, costretta a mettere da parte gli scenari europei per perseguire il sogno del partito di governo, quel “Sogno Georgiano” che intende continuare a tenere Tbilisi nell’orbita del Cremlino.

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Armenia-UE: leader discutono i piani di adesione (Corrierepl 14.01.25)

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha telefonato al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, per discutere i piani di adesione all’UE, quattro giorni dopo che il suo governo aveva annunciato l’intenzione di chiedere l’adesione dell’Armenia all’Unione europea. Pashinian ha elogiato i legami sempre più profondi dell’Armenia con l’UE e ha informato Costa sullo stato attuale del processo di pace tra Armenia e Azerbaigian. L’invio di osservatori civili in Armenia e l’aumento dei contatti diplomatici sono attività con cui l’UE intende rafforzare il suo status di facilitatore neutrale che contraddice il predominio storico su quest’area concesso alla Russia. L’Armenia spera che il suo coinvolgimento rafforzerà gli impegni di sicurezza, spingendo ulteriormente la democratizzazione. Tuttavia, l’UE si sta confrontando con notevoli difficoltà nell’istituire un’unica politica estera comune per il conflitto. Gli Stati membri hanno atteggiamenti diversi nei confronti dell’Azerbaijan, in particolare perché l’Azerbaijan è un partner energetico per l’Europa.

Armenia-UE: leader discutono i piani di adesione

Pertanto il conflitto tra Armenia e Azerbaigian è uno degli aspetti più salienti delle relazioni dell’UE, con la prima che opera in questo complesso ambiente geopolitico. È solo di recente che il ruolo dell’UE nel processo di pacificazione tra i due è aumentato, soprattutto da quando l’offensiva militare dell’Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh ha costretto più di 100.000 armeni ad andarsene. Tradizionalmente, l’UE ha mantenuto un eclettismo, rivolgendosi a entrambe le parti e rimandando in gran parte la mediazione al Gruppo di Minsk dell’OSCE. La spinta all’adesione, sostenuta da gruppi filo-occidentali, segue una petizione che ha raccolto, l’anno scorso, 60.000 firme a sostegno di un referendum sull’adesione all’UE. Pashinyan ha affermato che tale referendum  dovrebbe tenersi solo dopo che Yerevan e l’UE avranno elaborato una “roadmap” per l’adesione dell’Armenia al blocco. Nessuno Stato membro dell’UE ha finora espresso sostegno a tale prospettiva. L’iniziativa ha scatenato tensioni con la Russia, tradizionale alleato dell’Armenia, che ha messo in guardia dalle conseguenze economiche qualora l’Armenia cercasse di entrare a far parte dell’UE. Tuttavia, il ministro dell’Economia armeno ha chiarito, il 13 gennaio, che il governo non ha piani immediati di ritirarsi dall’Unione economica eurasiatica (UEE) guidata dalla Russia, nonostante i recenti passi avanti verso legami più stretti con l’UE. La Russia ha rappresentato oltre il 41% del commercio estero dell’Armenia nei primi 11 mesi del 2024, mentre il commercio con i paesi dell’UE è sceso del 14% al 7,5% del commercio totale. L’Armenia continua a fare affidamento sul gas naturale russo, acquistato a una frazione dei prezzi di mercato dell’UE, sottolineando la profondità dei suoi legami economici con Mosca.

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AZERBAIJAN VS ARMENIA/ Aliyev inventa i fascisti a Yerevan per attaccare: punta al corridoio di Zangezur (Il Sussidiario 14.01.25)

Adesso sarebbe addirittura diventata uno Stato fascista. Così ha definito l’Armenia il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, dopo che in passato ne aveva persino disconosciuto l’esistenza, sostenendo che in realtà si tratta di Azerbaijan occidentale. Di fronte a dichiarazioni del genere, e al fatto che i negoziati fra i due Paesi sui confini non finiscono mai, anche il Pentagono (secondo quanto riportato da Army Times) ipotizza una possibile guerra, voluta dagli azeri, tra il 2025 e il 2026. La piccola Armenia, racconta Pietro Kuciukianattivista e saggista italiano di origine armena, console onorario dell’Armenia in Italia, anche per questo sta cercando sostegno militare accordandosi con altri Paesi, muovendosi pure in direzione dell’Unione Europea. Il presidente Nikol Pashinyan sta sforzandosi di risolvere tutto in via diplomatica in un’area che, per diversi motivi, interessa a molti Paesi stranieri, dell’area (Russia, Iran, Turchia) e non (USA e Cina). Ma deve fare i conti con un mondo in cui il ricorso alla forza sembra sempre più considerato. E un Azerbaijan che, grazie alla produzione e alla commercializzazione del gas, riesce a tenere in scacco diversi Paesi che non possono fare a meno della sua energia.

Il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, dice che “l’Armenia è essenzialmente uno Stato fascista e il fascismo deve essere distrutto. Sarà distrutto dalla leadership armena o da noi. Non abbiamo altra scelta”. E gli analisti del Pentagono prevedono un’operazione militare nel 2025-2026. Il rischio di un conflitto è sempre più alto?

Questo è un momento disgraziato. A livello mondiale ormai, al posto della politica, si preferisce l’uso della forza. Lo vediamo in Ucraina come in ambito mediorientale: anche l’Armenia è sotto attacco. La diplomazia non è più in auge come metodo per risolvere le controversie, basta vedere cosa sta dicendo Trump su Canada, Groenlandia e Panama. E queste esternazioni sull’uso della forza riguardano anche l’ambito Armenia-Azerbaijan.

In un contesto del genere, Aliyev, a oltre un anno dall’attacco in Nagorno Karabakh, si sente autorizzato a giustificare una guerra contro Yerevan?

Sicuramente è invogliato a prendere in considerazione questa opportunità. Finora non l’ha fatto anche perché, secondo me, la Turchia lo sta frenando un po’: Ankara ha interessi più globali. Però può darsi benissimo che gli azeri scatenino lo stesso un conflitto, anche se forse in questo momento neanche Aliyev lo sa.

Il presidente azero, tuttavia, ha alzato i toni contro l’Armenia. Rimane comunque un segnale preoccupante?

Non aveva mai detto che l’Armenia è uno Stato fascista, ma ormai tacciare di fascista l’avversario è di moda. Gli armeni, in realtà, non possono essere accusati di questo in nessun modo: cercano di mettersi d’accordo con tutto il mondo, con l’Europa, con la Russia, con l’America, vogliono mantenere buoni rapporti con tutti. Il fascismo in questo atteggiamento non ce lo vedo proprio.

Ma se Baku, Dio non voglia, prendesse veramente in considerazione l’idea di un conflitto, chi potrebbe incoraggiare gli azeri e chi invece frenarli?

Credo che ci siano poche possibilità che la Russia possa fare qualcosa. L’Armenia, però, si sta preoccupando della sua difesa e sta stringendo alleanze militari con Francia, Grecia e India. L’unica interferenza positiva che vedo possibile, tuttavia, potrebbe essere quella dell’Iran, che è molto interessato a conservare la situazione così com’è e quindi ad avere buoni rapporti anche con gli armeni, come è sempre successo. Fin dall’inizio, fin da quando si è disintegrata l’Unione Sovietica, l’unico aiuto dall’estero è venuto da Teheran. L’Iran, tuttavia, ha problemi con Israele che, tra l’altro, ha una base proprio in Azerbaijan, un elemento che rende ancora più complicata la situazione.

Paradossalmente, quindi, questa volta la Turchia potrebbe avere interesse a frenare un’operazione militare contro l’Armenia?

L’Armenia è così piccola che potrebbe essere conquistata non in una ma in mezza giornata: abbiamo visto cos’è successo al Nagorno Karabakh. La Turchia potrebbe non essere così interessata. Ciò che le converrebbe, invece, è avere un passaggio dal Nakhicevan (regione autonoma azera che non confina con il resto del territorio nazionale, nda) all’Azerbaijan, attraverso il famoso corridoio di Zangezur, che poi è un’invenzione degli azeri.

Un corridoio che interessa a molti.

L’esercito russo in quella zona controllava il confine fra Iran e Armenia, ma adesso si è ritirato in seguito a un accordo siglato dal presidente armeno Pashinyan. I russi si sono ritirati anche dall’aeroporto di Zvartnots, ma non ancora dal confine tra la Turchia e l’Armenia. La zona a sud del Zangezur è una zona cruciale per le due grandi vie di comunicazione Sud-Nord ed Est-Ovest. Alla prima è interessata anche la Cina e con lei l’Iran; al collegamento Ovest-Est, invece, è interessata la Turchia e, in un certo senso, l’America, perché potrebbe arrivare, se Ankara resta alleata, fino in Cina. Gli USA, tra l’altro, hanno rapporti con l’Armenia dal punto di vista militare.

In questo contesto, come si colloca l’iniziativa di Pashinyan di approvare un disegno di legge che traccia la strada per l’adesione all’Unione Europea?

Pashinyan ci sta andando con i piedi di piombo, anche perché la Russia, ogni volta che si sente parlare di Europa, ovviamente si irrigidisce. Finora l’Armenia è riuscita a mantenere la situazione in equilibrio, cosa per niente facile: abbiamo visto come sta andando a finire in Georgia. Non credo che si arrivi a quei livelli, Pashinyan è molto più avveduto, diplomaticamente più maturo. Siamo comunque in una situazione che potrebbe evolversi in maniera rapida, rapidissima, per cui quello che si dice oggi domani non vale.

Armenia e Azerbaijan, però, sono da tempo impegnate in trattative per i confini. Non c’è la possibilità che si raggiunga un accordo?

Sono negoziati che alla fine si prolungano sempre: non si arriva mai al dunque. Quando si giunge al momento di concludere, l’Azerbaijan esibisce nuove richieste. Hanno messo a posto in parte i confini, ma non tutto. Da parte azera ci sono continue provocazioni, probabilmente vorrebbero che gli armeni reagissero, che decidessero di adottare una linea più dura, così potrebbero attaccarli. Ma Yerevan cerca di superare le difficoltà diplomaticamente. Fino a che ci riesce.

(Paolo Rossetti)

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“Amerikatsi”, il film di Michael A. Goorjian al cinema (L’Opinionista 13.01.25)

Dal 16 gennaio nelle sale cinematografiche una favola di resistenza, speranza e amore dell’Armenia Sovietica stanliniana

amerikatsiIl film “Amerikatsi” di Michael A. Goorjian arriverà nelle sale italiane dal 16 gennaio grazie a Cineclub Internazionale Distribuzione, con il supporto di Dna srl. Scritto, diretto e interpretato dal cineasta americano di origine armene Michael A. Goorjian, il film è stato designato dall’Armenia per la corsa al Premio Oscar® 2024 come Miglior Film Internazionale, rientrando nella short list finale.

Protagonista Charlie, scampato al genocidio Armeno fuggendo negli Stati Uniti quando era ragazzo. Nel 1948 torna in Armenia, dove viene accolto dalla dura realtà del comunismo sovietico stalinista e finisce rocambolescamente in prigione.

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Ma nella sua cella c’è una finestra, da cui può osservare l’appartamento di fronte e scoprire così la ricchezza e vivacità della vita e della cultura armena, facendosi coinvolgere dalle storie che si avvicendano – comiche, romantiche, drammatiche – come se guardasse una serie tv su uno schermo. Il regista Michael A. Goorjian interpreta e realizza una favola di resistenza, speranza e amore nell’Armenia sovietica staliniana, attraverso un film che evoca in premessa uno dei più efferati delitti della Storia, il genocidio armeno, di cui elabora il lutto con grazia, umorismo e sentimento in una “romcom” commovente e coinvolgente.

“Di solito i film sull’Armenia si concentrano su quell’evento cruciale che è stato il Genocidio, ma in realtà è limitante raccontare la cultura e la vita di un paese intero limitandosi a quel capitolo tragico” – ha dichiarato il cineasta Michael A. Goorjian – “Musica, cibo, passione, generosità, amore per la vita: Amerikatsi celebra tutto questo e racconta al mondo aspetti e sfaccettature dell’Armenia, che sin dalla mia giovinezza avevo desiderio di scoprire e riconnettermi. Il sogno di Charlie di tornare nel suo paese natio non riflette soltanto il sogno di molti che hanno fatto parte della diaspora armena, ma rappresenta il sogno di milioni di persone nel mondo che hanno un legame forte e ancestrale con il loro paese nativo. Molti di noi sogniamo di riconnetterci con il nostro paese. Ma, come per Charlie, la realtà non sempre è come l’abbiamo immaginata”.

SINOSSI

Nel 1948 un americano di origine armena rimpatria in Armenia e finisce rocambolescamente in una prigione sovietica. Ma nella sua cella c’è una finestra… Da lì può osservare l’appartamento di fronte e, attraverso le scene di vita quotidiana che si svolgono al suo interno, scoprire la ricchezza e vivacità della vita e della cultura armena. Una favola di speranza dall’ Armenia, un film che evoca in premessa uno dei più efferati delitti della Storia, il genocidio armeno, di cui elabora il lutto con grazia, umorismo e sentimento, in una “romcom” assolutamente commovente e coinvolgente.

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Alessandro Ferranti nuovo ambasciatore d’Italia in Armenia (Aise 13.01.25)

ROMA\ aise\ – “Assumo con orgoglio la guida dell’Ambasciata d’Italia a Jerevan. Italia e Armenia sono due Paesi legati da storica amicizia e un comune retaggio di civiltà millenarie. Lavorerò con determinazione e impegno per rafforzare le relazioni bilaterali e promuovere nuovi canali di cooperazione in ogni campo”. Con queste parole, Alessandro Ferranti ha commentato la sua nuova nomina a nuovo Ambasciatore d’Italia in Armenia.
Dopo le lauree alla “Luiss” di Roma, in scienze politiche, e poi in scienze della sicurezza interna ed esterna all’Università di Tor Vergata, Ferranti ha intrapreso la carriera diplomatica con il ruolo di segretario di legazione presso la Segreteria particolare del Sottosegretario di Stato, nel 2001, per poi passare nel 2004 alla Direzione Generale Paesi Europa. In seguito, si è trasferito in Messico, dove diventa, sempre nel 2004, secondo segretario commerciale a Città del Messico. Ruolo in cui è stato poi confermato con funzioni di Primo segretario commerciale. Dopo 4 anni si trasferisce in Guatemala come primo segretario commerciale. Diventa poi, sempre in Guatemala, consigliere di legazione nel 2011 e poi consigliere commerciale.
Nel 2012 si sposta alla Segreteria particolare del Sottosegretario di Stato e l’anno seguente viene confermato alla Segreteria del Vice Ministro, Sottosegretario di Stato. Confermato, per cambiamento di Governo, alla Segreteria del Vice Ministro.
Nel 2013 diventa Console Generale a Casablanca, mentre 4 anni dopo viene nominato consigliere ad Atene, nel 2017 e poi confermato ad Atene con funzioni di Primo consigliere.
Ultimi incarichi prima di trasferirsi a Jerevan e assumere il ruolo di Ambasciatore in Armenia, alla Direzione Generale per le Risorse e l’Innovazione, nel 2021, dove diventa Capo Ufficio VI della stessa Direzione Generale e poi Capo dell’Unità per il personale a contratto della Direzione Generale Risorse e Innovazione, il 1° gennaio 2024. (aise)

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Arslan racconta il genocidio armeno. La nuova edizione del suo romanzo (Il Resto del Carlino 12.01.25)

a scrittrice e autrice Antonia Arslan, insignita nel 2021 della cittadinanza onoraria, torna a Ferrara per presentare la ripubblicazione del suo romanzo ‘La masseria delle allodole’ (nuova edizione Bur – Rizzoli). La presentazione della ripubblicazione del libro si terrà giovedì alle 17.30 nella sala Arnoldo Foà al Ridotto del teatro Comunale. All’incontro col pubblico, insieme ad Antonia Arslan, ci sarà l’assessore alla Cultura Marco Gulinelli. Modera l’incontro Cristiano Bendin, caposervizio del Resto del Carlino di Ferrara.

“Ferrara si conferma ancora una volta città della cultura e della memoria, accogliendo con orgoglio Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena amata e apprezzata a livello internazionale. Con i suoi scritti e la sua testimonianza, ha dato voce a una realtà che rischiava di essere dimenticata. La ristampa di ‘La masseria delle allodole’, infatti, non è solo un omaggio alla sua straordinaria e commovente opera, dedicata alla memoria del genocidio armeno, ma è anche un importante momento di riflessione sui valori di giustizia e riconciliazione. Invito tutti i cittadini a partecipare a questo evento”, sottolinea il sindaco Alan Fabbri.

“Quattro anni fa il sindaco, a nome della città, le aveva conferito la cittadinanza onoraria, giovedì festeggeremo insieme la ristampa e i ventun anni dalla prima edizione di un romanzo essenziale, che rappresenta una pietra miliare della letteratura”, aggiunge l’assessore Gulinelli. “Sono trascorsi 110 anni dalla tragedia che ha sterminato quasi due milioni di armeni da cui si è codificato, insieme alla ferocia nazista, nel diritto internazionale il reato di genocidio. Un’altra ricorrenza, che suona come un monito per il dovere che abbiamo nel non dimenticare mai, è l’uscita dopo vent’anni dalla sua prima pubblicazione del libro di Antonia Arslan ‘La masseria delle allodole’, un romanzo forte e toccante che riesce a trasformare la storia di una famiglia armena in un racconto toccante di sopravvivenza in libro di tragedia, ma anche di speranza. Sarà un’occasione unica per ascoltare direttamente dalla voce della scrittrice il racconto della genesi di questo libro straordinario, che continua a commuovere e ispirare così tanti lettori in tutto il mondo”, conclude Gulinelli. L’ingresso all’incontro di giovedì è libero fino a esaurimento dei posti disponibili.

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