Madonna dei Debitori Speranza dell’Artsakh (La Voce del Parlamento 05.11.24)

La Madonna dei Debitori:  Speranza per il Popolo Armeno dell’Artsakh

di Lelio Antonio Deganutti
In un momento di grande sofferenza e incertezza per il popolo dell’Artsakh, la Madonna dei Debitori diventa un simbolo di speranza e solidarietà. Così come questa figura sacra è stata invocata dai fedeli italiani per sostenere chi è oppresso da debiti e ingiustizie, ora si fa portatrice della voce di chi, lontano, vive il dramma dell’esilio e della perdita.
La Madonna dei Debitori: Un Faro di Speranza per il Popolo Armeno dell'Artsakh
La Madonna dei Debitori: Un Faro di Speranza per il Popolo Armeno dell’Artsakh
Da mesi, oltre 120 mila armeni dell’Artsakh sono stati costretti a lasciare le loro terre ancestrali, subendo persecuzioni, distruzioni di chiese e monumenti culturali e il calvario di un’identità che rischia di essere cancellata.
Mentre i loro leader e sostenitori sono trattenuti come prigionieri, la loro comunità affronta il rischio di un’intera scomparsa culturale e umana, nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale.
I fedeli della Madonna dei Debitori, guidati dai principi di giustizia e pace del Vangelo, si sentono chiamati a prendere una posizione e a rispondere a questo grido di aiuto.
In particolare, il passo di Matteo 5,9 – “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” – risuona con forza, richiamando il popolo cristiano a farsi strumento di pace e compassione.
Per questo, si annuncia una messa speciale in onore della Madonna dei Debitori, dedicata alla protezione del popolo dell’Artsakh. Durante la celebrazione, i fedeli pregheranno affinché la Vergine interceda presso Dio e doni al popolo armeno conforto, speranza e la forza di rimanere saldi nella propria fede e identità.
La Madonna dei Debitori è conosciuta per la sua capacità di intervenire nei momenti di bisogno, di ascoltare le preghiere di chi è vessato e perseguitato, offrendo sostegno e luce nelle situazioni più buie.
Ora, i fedeli italiani estendono il suo abbraccio al popolo armeno, nella speranza che questo atto di comunione possa attirare l’attenzione dei governi e della comunità internazionale sulla giusta causa di un popolo che chiede solo di poter vivere nella propria terra, in pace e dignità.
La Madonna dei Debitori: Un Faro di Speranza per il Popolo Armeno dell'Artsakh
La Madonna dei Debitori: Un Faro di Speranza per il Popolo Armeno dell’Artsakh
Questa celebrazione sarà un simbolo di unità spirituale tra due popoli e un richiamo a tutti i credenti: non si può restare indifferenti di fronte a chi soffre.
La Madonna dei Debitori diventa così il ponte che unisce la sofferenza e la speranza, ricordando che la fede e la giustizia sono la base di ogni vera libertà e pace.
di Lelio Antonio Deganutti.
La Madonna dei Debitori: Un Faro di Speranza per il Popolo Armeno dell'Artsakh
La Madonna dei Debitori: Un Faro di Speranza per il Popolo Armeno dell’Artsakh
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Matera Film Festival, Atom Egoyan: «Vorrei portare in piazza a Matera una rappresentazione di Salomè» (Lagazzettadelmezzogiorno 05.11.24)

MATER – «Sono contento di essere stato invitato a Matera e di aver potuto vedere questa città misteriosa e antica, scoperta guardando la pellicola di Pier Paolo Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo”, visto che ero molto interessato ai film che parlavano di Gesù. Sto pensando di fare qui una rappresentazione teatrale di Salomè nella piazza centrale». Le parole sono di Atom Egoyan, 64 anni, regista, armeno naturalizzato canadese, di levatura internazionale, ospite d’eccezione della quinta edizione del Matera Film Festival, durante la quale venerdì presenterà in anteprima nazionale il suo ultimo lavoro Seven Veils con Amanda Seyfried, già diretta dal regista nel film Chloe – Tra seduzione e inganno del 2009.

Il maestro, sceneggiatore e produttore cinematografico nel corso della conferenza stampa di ieri ha raccontato il suo rapporto con la tecnologia, con il cinema che sta subendo una profonda trasformazione, sempre più aperto alla sperimentazione di nuovi linguaggi e prossimo all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Ma anche con il cinema italiano del Dopoguerra, ricordando grandi registi come Pasolini, Fellini, Visconti e Antonioni che lo hanno in qualche modo influenzato e ispirato nel corso di una lunga carriera iniziata quarant’anni fa.

Il suo ultimo lavoro è Seven Veils, «dove – spiega il regista – ho cercato di raccontare nuovamente la storia di Salomè di Richard Strauss (riportata nel film diretto da Egoyan per la prima volta nel 1996, ndr), il cui libretto è basato sulla traduzione in tedesco dell’omonima tragedia di Oscar Wilde, dove tutti i livelli di interpretazione sono maschili, e dove tutti uomini guardano un personaggio femminile che, in quest’opera, si assume la responsabilità di chiedere la testa di Giovanni Battista, sulla base di qualcosa che non può avere, ossia l’amore carnale».

La storia però viene attualizzata, con la protagonista che è una regista teatrale, che deve riportare in scena la «Salomé», ma nel farlo è tormentata dai traumi non ancora risolti. «Uno dei momenti clou della storia – sottolinea il regista – è quando Salomé bacia Giovanni Battista, un gesto che crea una separazione tra testa e corpo. È un’immagine scioccante, ma il compito dell’arte proprio quello di risvegliare ciò che è dentro di noi. Da questo punto di vista, se pensiamo ai tanti conflitti che ci sono oggi nel mondo, l’arte ricopre un ruolo molto importante nel restituire un significato ai nostri sentimenti».

Quanto ai registi italiani che hanno influenzato la sua produzione. Egoyan non ha dubbi: «Oltre a Pier Paolo Pasolini, anche i film di Marco Bellocchio, Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti che ha questa eccezionale capacità di unire il realismo di Rossellini con la tradizione barocca di altri registi. E naturalmente Federico Fellini». Sul futuro del cinema il regista parla di «un momento di transizione. Dobbiamo incominciare a realizzare che lavoreremo anche con l’intelligenza artificiale. Adesso dobbiamo vedere a cosa ci porterà».

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Armenia: Œuvre d’Orient, manifestazione oggi pomeriggio a Parigi “Nessuna Cop29 in Azerbaigian senza rilascio degli ostaggi del Nagorno-Karabakh” (SIR 05.11.24)

Con lo slogan “Nessuna Cop29 in Azerbaigian senza rilascio degli ostaggi del Nagorno-Karabakh”, si svolgerà oggi pomeriggio a Parigi dalle 18.30 alle 20 una manifestazione dell’Œuvre d’Orient. L’appuntamento – fa sapere l’organizzazione – è in piazza dei Diritti Umani, Esplanade du Trocadéro. L’iniziativa è promossa insieme a Consiglio di coordinamento delle Associazioni armene di Francia e all’Associazione a sostegno dell’Artsakh. “La decisione di organizzare la COP29 in Azerbaigian – dichiara nella nota mons. Pascal Gollnisch, direttore generale dell’Œuvre d’Orient – è un affronto ai valori di giustizia, pace ed ecologia che questo vertice mondiale dovrebbe difendere”.

Armenia: firmato decreto per nomina Srbuhi Galyan come nuova ministra Giustizia (Agenzia Nova 05.11.24)

Erevan, 05 nov 11:20 – (Agenzia Nova) – Il presidente armeno Vahagn Khachaturyan ha firmato il decreto di nomina di Srbuhi Galyan come nuova ministra della Giustizia. Il decreto è stato pubblicato sul sito ufficiale del presidente dell’Armenia. Da settembre del 2020, Galyan ha ricoperto l’incarico di vice procuratrice capo con delega alle attività di confisca dei beni di origine illegale. Il primo ottobre Grigor Minasyan ha presentato le sue dimissioni da ministro della Giustizia, mentre lo scorso 29 ottobre i vertici del partito di governo Contratto civile hanno deciso di nominare Srbuhi Galyan per succedergli all’incarico. (Rum)

“Difendere i diritti del popolo dell’Artsakh”, appello dei leader della Chiesa armena (Vaticanews 04.11.24)

Aram I, Raphael Bedros XXI e Paul Haydostian, leader della Chiesa armena apostolica, cattolica ed evangelista, firmano una dichiarazione congiunta in cui esprimono preoccupazione e protesta per la crisi tra Armenia e Azerbaigian e l’evacuazione forzata di 120 mila persone. A pochi giorni dalla Cop29 di Baku, chiedono il rientro in patria e la sovranità sotto la protezione della comunità internazionale, una sensibilizzazione di ambienti politici e diplomatici, preghiere speciali per i prigionieri

Vatican News

A pochi giorni dalla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici, la cosiddetta Cop29, che si terrà a Baku, in Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre 2024, i leader spirituali della Chiesa armena apostolica, cattolica ed evangelista – rispettivamente Sua Santità Catholicos Aram I, Sua Beatitudine Catholicos-Patriarca Raphaël Bedros XXI, il reverendo Paul Haidostian, presidente dell’Unione delle Chiese Evangeliche Armene nel Vicino Oriente – firmano e diffondono un appello congiunto in cui esprimono “ancora una volta la nostra giusta protesta e preoccupazione per la guerra scatenata dall’Azerbaigian contro gli armeni dell’Artsakh (2020-2023) e di conseguenza, l’evacuazione forzata di 120 mila persone dalla loro patria storica, la distruzione pianificata di edifici e monumenti religiosi e culturali armeni e la detenzione illegale dei leader politici dell’Artsakh”.

“Non possiamo rimanere in silenzio”

Pertanto, in quanto “leader spirituali dediti al servizio di Dio Onnipotente e del nostro popolo”, nonché “impegnati nei principi di giustizia, pace e protezione dei diritti umani”, Aram I, Bedros XXI, Haidostian scrivono di non poter “rimanere in silenzio di fronte alla violazione da parte dell’Azerbaigian dei diritti degli armeni dell’Artsakh e all’indifferenza della comunità internazionale”. Richiamano dunque l’attenzione dei propri rappresentanti spirituali e comunitari su alcune precise azioni.

Ritorno alle proprie terre, sensibilizzazione generale, preghiere speciali

Anzitutto, si legge nel comunicato, “alla vigilia e nel corso della Conferenza internazionale Cop29 a Baku, è di particolare importanza evidenziare la continua ingiustizia contro il popolo armeno dell’Artsakh. Richiedere il loro diritto al ritorno nelle proprie terre ancestrali e a riaffermare la propria sovranità sotto la protezione della comunità internazionale”. I tre leader spirituali chiedono poi di “mobilitare tutte le nostre risorse in difesa dei diritti degli armeni dell’Artsakh attraverso la sensibilizzazione degli ambienti politici, governativi e diplomatici, nonché attraverso le relazioni interreligiose e interecclesiastiche, con l’ampio utilizzo di mezzi pertinenti e informativi”. Infine, terza azione richiesta, quella che “durante le funzioni religiose, si tengano preghiere speciali per la rapida liberazione dei prigionieri dell’Artsakh detenuti dall’Azerbaigian: leader politici, funzionari governativi, personale militare, soldati e sostenitori della causa”.

Un’agenda pan-armena

“La nostra nazione – afferma ancora il documento – si trova attualmente in una congiuntura critica e deve affrontare molte sfide. È quindi imperativo unire e riorganizzare le nostre risorse attorno a un’agenda pan-armena. Dobbiamo essere prudenti e lungimiranti. I valori nazionali dovrebbero avere la precedenza su tutte le altre considerazioni esterne e temporanee”. Da qui, una preghiera a Dio di “proteggere la nostra nazione e la nostra Patria da tutti i mali e i pericoli del mondo”.

Preghiera ecumenica per i prigionieri

Intanto domenica prossima, 10 novembre, alle 17, si terrà una preghiera ecumenica “per gli armeni attualmente in prigione in Azerbaigian” presso la Chiesa di San Nicola da Tolentino a Roma. Il momento liturgico è promosso dal Pontificio Collegio Armeno e dal rappresentante della Chiesa Armeno Apostolica presso la Santa Sede; sarà presieduto dall’arcivescovo lan Ernest, rappresentante personale dell’Arcivescovo di Canterbury presso la Santa Sede. “Tutti gli uomini di buona volontà che credono nella verità e nella giustizia sono invitati ad unirsi”.

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Armenia: appello leader Chiese cristiane “in difesa dei diritti legittimi del popolo dell’Artsakh” e per la liberazione dei prigionieri (SIR 04.11.24)

Alla vigilia della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici COP29 che si terrà a Baku (Azerbaigian) dall’11 al 22 novembre 2024, i tre leader spirituali delle Chiese cristiane hanno lanciato un appello, per esprimere “ancora una volta la nostra giusta protesta e preoccupazione per la guerra scatenata dall’Azerbaigian contro gli armeni dell’Artsakh (2020-2023) e di conseguenza, l’evacuazione forzata di 120.000 persone dalla loro patria storica, la distruzione pianificata di edifici e monumenti religiosi e culturali armeni e la detenzione illegale dei leader politici dell’Artsakh”. L’appello è firmato da Sua Santità Catholicos Aram I (Chiesa Apostolica Armena, Sede di Cilicia), da Sua Beatitudine Catholicos-Patriarca Raphaël Bedros XXI (Chiesa Cattolica Armena), e dal Rev. Dr. Paul Haidostian, presidente dell’Unione delle Chiese Evangeliche Armene nel Vicino Oriente. “In quanto leader spirituali dediti al servizio di Dio Onnipotente e del nostro popolo, nonché impegnati nei principi di giustizia, pace e protezione dei diritti umani, non possiamo rimanere in silenzio di fronte alla violazione da parte dell’Azerbaigian dei diritti degli armeni dell’Artsakh e all’indifferenza della comunità internazionale”. In particolare i leader cristiani chiedono di rispettare il diritto del popolo armeno dell’Artsakh a fare “ritorno nelle proprie terre ancestrali e a riaffermare la propria sovranità sotto la protezione della comunità internazionale”.

Nell’appello le Chiese chiedono di dedicare nelle funzioni religiose “preghiere speciali per la rapida liberazione dei prigionieri dell’Artsakh detenuti dall’Azerbaigian: leader politici, funzionari governativi, personale militare, soldati e sostenitori della causa”. “La nostra Nazione – scrivono i tre leader cristiani – si trova attualmente in una congiuntura critica e deve affrontare molte sfide. È quindi imperativo unire e riorganizzare le nostre risorse attorno a un’agenda pan-armena. Dobbiamo essere prudenti e lungimiranti. I valori nazionali dovrebbero avere la precedenza su tutte le altre considerazioni esterne e temporanee”.

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Armenia: il 10 novembre, alla vigilia della Cop29, preghiera ecumenica a Roma per la liberazione dei prigionieri armeni detenuti in Azerbaigian (SIR 04.11.2024)

Domenica 10 novembre, alla vigilia dell’apertura dei negoziati sul clima (Cop29) in Azerbaigian, il Pontificio Collegio armeno e la Rappresentanza della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede  organizzano  anche a Roma una preghiera ecumenica che si terrà alle ore 17 presso la Chiesa armena di San Nicola Da Tolentino (Via S. Nicola da Tolentino 17), per “pregare il Signore per la liberazione di coloro dei nostri fratelli che sono stati fatti prigionieri”.  “L’attacco militare contro la Repubblica dell’Artsakh (nel settembre-ottobre 2020) – scrivono i promotori dell’iniziativa in un comunicato diffuso oggi -, seguito dal blocco di dieci mesi del corridoio Lachin e dallo sfollamento forzato di circa 120.000 armeni dalle loro terre ancestrali nel settembre 2023, nonché la demolizione pianificata di edifici e monumenti religiosi e culturali armeni e la cattura illegale della leadership politica dell’Artsakh, continua a destare enorme preoccupazione”. La preghiera ecumenica è promossa alla vigilia della conferenza internazionale COP29 che si terrà a Baku (Azerbaigian) dall’11 al 22 novembre 2024,e su invito del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC) che ha esortato “tutte le persone di buona volontà” a unirsi alla giornata di preghiera per l’Armenia, “giornata che sarà ricordata in tutto il mondo, dalle comunità armene e non, con una preghiera speciale dedicata ai prigionieri armeni attualmente detenuti illegalmente in Azerbaigian”.

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Clima, inizia la COP29 a Baku e i capi delle chiese cristiane firmano appello per i prigionieri armeni (Il Messaggero 04.11.2024)

«Non possiamo restare in silenzio». Alla vigilia della COP29 sui cambiamenti climatici che si aprirà in Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre, i leader religiosi della Chiesa armena, il Catholicos Aram I, il Patriarca Raphaël Bedros XXI, e il reverendo Paul Haidostian, presidente dell’Unione delle Chiese Evangeliche Armene hanno firmato un appello congiunto per «protestare» per le conseguenze della «guerra scatenata dall’Azerbaigian contro gli armeni dell’Artsakh (2020-2023) e di conseguenza, l’evacuazione forzata di 120 mila persone dalla loro patria storica, la distruzione pianificata di edifici e monumenti religiosi e culturali armeni e la detenzione illegale dei leader politici dell’Artsakh».

I religiosi scrivono di non poter «rimanere in silenzio di fronte alla violazione dei diritti degli armeni dell’Artsakh e all’indifferenza della comunità internazionale».

In pratica chiedono «il loro diritto della gente al ritorno nelle proprie terre ancestrali e a riaffermare la propria sovranità sotto la protezione della comunità internazionale». Infine chiedono « la rapida liberazione dei prigionieri dell’Artsakh detenuti dall’Azerbaigian: leader politici, funzionari governativi, personale militare, soldati e sostenitori della causa».

«La nostra nazione – si legge nel documento – si trova attualmente in una congiuntura critica e deve affrontare molte sfide. È quindi imperativo unire e riorganizzare le nostre risorse attorno a un’agenda pan-armena. Dobbiamo essere prudenti e lungimiranti. I valori nazionali dovrebbero avere la precedenza su tutte le altre considerazioni esterne e temporanee».

Intanto domenica 10 novembre, alle 17, si terrà una preghiera ecumenica per gli armeni attualmente in prigione in Azerbaigian, presso la Chiesa di San Nicola da Tolentino a Roma. Il momento liturgico è promosso dal Pontificio Collegio Armeno e dal Vaticano.

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Cop29, il rebranding climatico dell’Azerbaijan (Irpimedia 04.11 24)

Alla fine del grande viale che dall’aeroporto conduce fino al centro di Baku, la capitale dell’Azerbaijan, si erge maestoso lo Stadio Olimpico. È qui che dall’11 al 22 novembre 2024, si terrà la Cop29. Durante l’estate azera si sono velocizzati i preparativi per uno degli eventi di maggior rilevanza internazionale mai svoltosi nel Paese dalla sua indipendenza nel 1991. Intorno allo stadio, si sono moltiplicati gli idranti e i giardinieri che curano senza sosta le aiuole e i prati per assicurare che la conferenza sia incorniciata di verde, malgrado il terreno desertico di Baku e il suo clima che si fa di anno in anno sempre più soffocante.

L’inchiesta in breve

  • L’Azerbaijan è l’ennesimo petrol-Stato a ospitare la Cop, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima. Il Paese cerca di presentarsi come portavoce nella lotta contro i cambiamenti climatici, ma nell’agenda della Conferenza manca l’impegno a eliminare gradualmente i combustibili fossili, il grande traguardo della Cop28
  • All’interno del Paese, le attività estrattive di gas e petrolio devastano il territorio e pongono sfide ambientali enormi, in particolare nella penisola di Absheron, già gravemente contaminata
  • Per il rebranding “green”, Baku cerca di attirare investimenti nel settore delle energie rinnovabili. Tuttavia, secondo molti analisti e ong, questi progetti serviranno unicamente a liberare maggiori risorse fossili per l’export verso l’Europa, e non ridurranno le emissioni
  • Mentre il governo azero ha invocato una tregua mondiale per la Cop29, l’Azerbaigian prosegue le ostilità verso l’Armenia. Investendo in Nagorno-Karabagh per farne una “Green energy zone”, Baku promuove un piano di greenwashing che si intreccia con la pulizia etnica
  • Attualmente sono più di 300 gli accademici, giornalisti e oppositori politici nelle carceri azere. Alla vigilia della Cop, gli attivisti denunciano l’inasprirsi della repressione

La sigla Cop indica la “Conferenza delle parti”, la riunione annuale dei Paesi firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), ovvero il principale trattato ambientale internazionale in materia di contrasto ai cambiamenti climatici, entrato in vigore nel 1994.

L’Azerbaijan è il terzo Paese fortemente dipendente dall’estrazione di gas e petrolio a ospitare l’evento, dopo gli Emirati Arabi Uniti nel 2023 e l’Egitto nel 2022. Le fonti energetiche fossili sono la sua principale fonte di introiti, soprattutto per l’élite al potere. Il principale partner internazionale per l’export di beni e risorse è l’Unione europea (l’Italia in particolare è in cima alla lista); per l’import invece la Russia.

La statua in centro a Baku dell’ex-Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian, Heydar Aliyev, che ha ricoperto la carica di presidente dal 1993 fino alla sua morte, nel dicembre 2003. Gli è succeduto il figlio, Ilham Aliyev © Cecilia Fasciani

Quest’anno la Conferenza avrebbe dovuto svolgersi in Europa orientale, come previsto dal sistema di turnazione tra i gruppi regionali del Unfccc. La Russia aveva però bloccato ogni altra candidatura di Paesi europei a causa del loro coinvolgimento nella guerra in Ucraina, mentre l’Ue non appoggiava la Russia e i suoi alleati. L’Azerbaijan è stato scelto per la sua vicinanza sia con l’Unione europea sia con la Russia.

Un Paese in teoria neutro, «che però in questi processi ha molti interessi dal punto di vista energetico ma anche politico», spiega Francesco Sassi, ricercatore in geopolitica e mercati dell’energia presso il think tank Ricerche industriali ed energetiche (Rie).

Nell’agenda presentata a settembre del 2023 da Baku, tra le priorità compaiono la creazione di fondo che unisca Paesi produttori di combustibili fossili e aziende del settore per iniziative green, l’aumento della capacità globale di stoccaggio di energia e delle reti elettriche e lo sviluppo del mercato dell’idrogeno.

Eppure, c’è un grande assente: l’obiettivo di eliminare progressivamente le fonti fossili, prima causa di emissioni di CO2 a livello mondiale, che era stato un importante traguardo della Cop28 a Dubai.

All’inizio del 2024 è stato annunciato che il ministro dell’Ecologia azero Mukhtar Babayev, personaggio che ha trascorso oltre vent’anni presso la compagnia statale di petrolio e gas Socar, sarebbe stato nominato presidente dei colloqui sul clima delle Nazioni Unite. Tra i partner della conferenza ci sono le principali aziende del Paese tra cui, come “impact partner”, la Pasha Holding, già coinvolta nell’inchiesta #BakuConnection.

Le devastazioni ambientali dei combustibili fossili

Per arrivare al centro di Baku, si percorre un boulevard dal quale è stata ritagliata una corsia di marcia riservata alle auto di chi parteciperà alla conferenza. È intitolata al defunto presidente dell’Azerbaijan. Da quando non è più Unione Sovietica, al palazzo presidenziale di Baku si sono insediati solo degli Aliyev: prima Heydar – fino alla morte negli Stati Uniti nel 2003 – poi il figlio Ilham, al potere ancora oggi.

Ai lati del boulevard, sorgono grattacieli futuristici dalle forme più svariate. Tra questi si innalza sinuosa la Socar Tower, dove ha sede la società nazionale di gas e petrolio della Repubblica azera, fondata nel 1992. Alta quasi 200 metri, la torre ricorda una grande fiamma, simbolo della storia del Paese caucasico, profondamente intrecciata con l’energia fossile.

Le conseguenze ambientali sono lampanti: nella penisola di Absheron, dove vive il 40% della popolazione, già nel 2018 il giornale scientifico Journal of Gynecology and Women’s Health ha pubblicato uno studio sulla regione dove si calcola una superficie inquinata di oltre 33 mila ettari su 222 mila. In questa stessa regione, l’industria petrolifera ha soppiantato qualunque altra impresa, con ripercussioni devastanti:

«Innanzitutto, il terreno diventa inutilizzabile per qualsiasi altro scopo, è solo di scarto. E le persone che vivono lì intorno sentono un odore molto forte, è quantomeno sgradevole vivere lì», spiega in videocall dalla Gran Bretagna, Javid Qara. È il fondatore di Ecofront, l’unico gruppo ambientalista indipendente attivo in Azerbaijan. Per quanto distante, Qara continua a seguirne le attività: «Ci vorrà molto tempo e molti investimenti per bonificare il terreno in futuro, se mai ci sarà la volontà», prosegue.

«Ci sembra assurdo organizzare la Cop in un Paese con una situazione ambientale così compromessa», commenta Aliyev Araz, insegnante universitario di trent’anni e membro di Nida, una delle pochissime organizzazioni del Paese. Nata nel 2011, sulla scia delle primavere arabe, il suo nome significa “esclamazione” in azero, a rappresentare la speranza di una generazione di giovani di risvegliare il proprio Paese e guidarlo verso un sistema democratico. «All’epoca c’era molto fermento, voglia di democrazia – racconta Araz – Negli ultimi dieci anni il governo è diventato sempre più autoritario. Adesso siamo in modalità sopravvivenza».

Un lago contaminato dagli sversamenti nella penisola di Pirallahi, Absheron, non lontano dalla capitale Baku. Per coprirlo alla vista dei passanti, è circondato da grandi cartelli inneggianti all’ambientalismo © Cecilia Fasciani

Come tutti gli esponenti di organizzazioni critiche al governo, Araz conosce bene il carcere: è stato arrestato in precedenza ed è attualmente sottoposto al divieto di espatrio. Acconsente a incontrarci con massima riservatezza nel ristorante di un amico fidato, nel cuore di Baku.

L’arma del clima nel Nagorno-Karabakh

Sul lungomare della capitale, vicino al futuristico Museo del tappeto, si trova il mega-stand di promozione della Cop. Qui delle giovani hostess guidano gli spettatori a scoprire l’immagine del nuovo Azerbaijan “green”: negli ultimi anni, infatti, il governo azero sta facendo grandi sforzi per ripulire la propria reputazione di “Paese fossile”.

Se nel 2023 le energie rinnovabili del Paese ammontano al 7% dell’energia totale, i piani governativi prevedono di portare la percentuale al 30% entro il 2030, grazie ai progetti come il parco fotovoltaico Garadagh, una distesa di pannelli solari da 230 megawatt inaugurata nell’ottobre 2023, e l’impianto eolico da 240 megawatt di Khizi-Absheron, sviluppato insieme alla società saudita Acwa Power.

Tra schermi luminosi e realtà virtuale, si può giocare a calcolare la propria impronta climatica individuale che, per essere compensata, ha bisogno della piantumazione di nuovi alberi. Nella simulazione al mega-stand della Cop29, la regione prescelta per l’operazione è il Nagorno-Karabakh, che dal 2021 è stata indicata da Baku come territorio compromesso dall’inquinamento dove realizzare progetti “verdi”: una “Green energy zone”.

Cartelloni per la Cop29 appesi sui cantieri di grandi palazzi nel centro città della capitale © Cecilia Fasciani

Il Nagorno-Karabakh è la regione che l’Azerbaijan ha occupato militarmente nel settembre del 2023. Il territorio, ex-enclave di cittadini di etnia armena all’interno dell’Azerbaijan, era già stato oggetto di altre incursioni dell’esercito. De facto era governata da un’amministrazione indipendente, la Repubblica dell’Artsakh, sostenuta dall’Armenia. I confini erano sotto la responsabilità delle forze di peacekeeping della Russia. Dal momento in cui Mosca si è impegnata sul fronte ucraino, a febbraio del 2022, l’Azerbaijan ne ha approfittato per completare il suo piano per sconfiggere il governo autonomista dell’Artsakh, ufficialmente dissolto dal gennaio del 2024.

Centoventimila cittadini del Nagorno-Karabakh di etnia armena sono rimasti senza cibo, medicine e beni essenziali dal dicembre del 2022 fino all’occupazione azera. A ostruire l’unica via di fuga in Armenia, il corridoio di Lachin, c’erano decine di manifestanti azeri. Secondo un comunicato delle Nazioni Unite che chiedeva la riapertura del corridoio per motivi umanitari, pubblicato il 16 agosto del 2023, si erano radunati «con il falso pretesto di preoccupazioni per l’ambiente» per lo sfruttamento di alcune miniere della regione. Alcuni di loro sono stati coinvolti nella macchina organizzativa della Cop29. Il processo di pace è ancora in stallo, seppur ci siano state delle aperture di recente.

«È una vittoria per tutti»

Lo stesso governo in guerra con l’Armenia, il 21 settembre del 2024, attraverso la presidenza della Cop, ha lanciato ufficialmente la sua iniziativa “Tregua per la Cop”. Nell’«appello solenne» alla pace nel mondo si legge che «i conflitti aumentano le emissioni di gas serra e devastano l’ambiente, inquinando il suolo, l’acqua e l’aria. La devastazione degli ecosistemi e l’inquinamento causati dai conflitti peggiorano il cambiamento climatico e minano i nostri sforzi per salvaguardare il pianeta».

Lo stesso documento si chiude affermando che «i colloqui sul clima devono unire, con un’attenzione e cooperazione indivisa da parte di tutti», per quanto l’Azerbaijan sia tra i Paesi che non rispettano i vincoli sul clima stabiliti dagli accordi precedenti. Ha aumentato la produzione di gas, di cui l’Unione europea è la prima acquirente, nonostante nel 2023, nell’ambito degli Accordi di Parigi, abbia sottoscritto l’impegno di ridurre le sue emissioni di gas serra del 40% entro il 2050. Lo scriveva nell’aggiornamento dei propri Contributi determinati a livello nazionale (Ndc), le promesse fatte dalle diverse nazioni contro il cambiamento climatico ispirate dagli accordi internazionali.

Il centro informazioni per la Cop29, sul lungomare di Baku, aperto ai visitatori © Cecilia Fasciani

Secondo il primo procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Luis Moreno Ocampo, «Aliyev finge di essere il campione dei diritti umani, mentre ha commesso un genocidio in Nagorno-Karabakh; finge di essere un campione del cambiamento climatico, mentre si basa sull’energia fossile. È una grande operazione di branding», spiega a IrpiMedia. Dalla fine della Repubblica di Artsakh ad oggi, Aliyev ha già messo in programma la costruzione di circa 40 centrali idroelettriche nella regione, oltre alle almeno quattro già costruite in passato.

Per le organizzazioni internazionali, quello di Baku è puro greenwashing. «Affidare a un petrol-Stato, un Paese che si impegna addirittura ad aprire nuovi giacimenti, le redini dei più importanti colloqui sul clima, è davvero scandaloso», commenta Dominic Eagletonsenior campaigner che per la ong internazionale Global Witness si occupa di gas. Climate Action Tracker sottolinea che l’andamento generale dell’Azerbaijan è «gravemente insufficiente» mentre l’impegno per rallentare il cambiamento climatico è troppo modesto e rappresenta un passo indietro rispetto alla versione precedente dell’Ndc.

«L’Azerbaijan non è affatto in linea con i suoi obiettivi climatici», rincara Kate Watters, direttrice dell’ong americana Crude Accountability, secondo cui il Paese «non sostituirà affatto la produzione di gas».

La complicità dell’Europa e delle sue aziende

Complice dell’operazione del governo di Baku è l’Unione europea, che nel 2022 ha stretto accordi con il Paese caucasico per aumentare le forniture di gas a venti milioni di metri cubi entro il 2027. «La retorica è: “Aiuteremo a ridurre le emissioni”, ma in realtà l’energia che verrà creata dall’Azerbaijan con questi progetti “green” verrà usata per il consumo interno», precisa Jeffrey Dunn, ricercatore nella stessa Crude Accountability. Questo significa “liberare” del gas da esportare in Europa, visto che l’obiettivo degli accordi mette alla prova le riserve del Paese. Così mentre l’Azerbaijan potrà dire di avanzare nella transizione energetica, l’Ue potrà continuare a incamerare gas. «È una vittoria per tutti – chiosa Dunn –: questi progetti rinnovabili sposteranno solo le emissioni altrove».

Per fare un esempio: a Jibrail, nel Nagorno-Karabakh, il Progetto Sunrise per la realizzazione del’impianto fotovoltaico di Shafag, di proprietà della British petroleum (Bp), rifornirà il terminal da cui parte gas diretto all’Europa. «Le società che stanno investendo insieme a Baku nello sfruttamento della regione del Nagorno Karabakh potrebbero essere complici dei crimini dell’Azerbaijan», sostiene invece l’ex procuratore della Cpi Moreno-Ocampo in un’intervista a IrpiMedia. Né il ministero dell’Energia azero né quello dell’Ecologia hanno invece risposto alle richieste di commento.

Monumenti e cartelloni in memoria dei soldati azeri caduti durante le guerre del Nagorno-Karabakh sorgono numerosi lungo le strade del Paese © Cecilia Fasciani

Anche importanti aziende italiane sono coinvolte nella supposta svolta “green” dell’Azerbaijan.

A luglio del 2024, l’amministratore delegato di Saipem Alessandro Puliti ha incontrato il ministro dell’Energia azero Parviz Shahbazov al congresso Global Energy Transition (Get) di Milano. Il tema al centro della discussione era l’energia verde, in particolare l’eolico offshore nel Caspio, già discusso a Baku il mese precedente. Contatta da IrpiMedia per conoscere maggiori dettagli della collaborazione, Saipem ha spiegato in una risposta inviata via mail che «per quanto concerne il settore delle energie rinnovabili, incluso l’eolico offshore, nel suo ruolo di contractor Saipem guarda sempre con interesse a tutti i possibili sviluppi di mercato nell’ambito della transizione energetica, che costituisce una delle traiettorie del piano strategico della società».

Eni da tempo collabora con la società nazionale azera dell’oil&gas Socar. L’ultimo protocollo d’intesa tra le due riguarda la filiera di produzione dei biocarburanti, cioè carburanti prodotti da «materie prime di scarto come gli oli da cottura usati e da residui dell’industria agroalimentare», spiega Eni sul suo sito. «In particolare – si legge nell’accordo tra le due imprese – saranno valutati progetti di sviluppo in Azerbaijan e nell’area caucasica di colture energetiche su terreni degradati». Le richieste di chiarimenti di IrpiMedia a Eni riguardo a quali aree fossero coinvolte, e se fosse incluso il Nagorno-Karabakh, sono rimaste senza risposta.

Diversi europarlamentari hanno chiesto di cessare gli accordi con l’Azerbaijan, e nel 2023 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione non vincolante per condannare l’operazione militare nel Nagorno-Karabakh.

Questa la risposta di Hikmet Hajiyev, responsabile del dipartimento Affari esteri dell’amministrazione presidenziale azera raccolta da Politico: «Vorrei consigliare al Commissario europeo per i diritti umani di occuparsi seriamente dei crescenti problemi dei diritti umani nell’Unione europea invece di fare prediche agli altri».

Reprimere e rifarsi l’immagine pubblica

Per ripulire la sua immagine agli occhi del mondo il governo azero ha firmato a giugno un contratto da 4,7 milioni di dollari con Teneo, l’agenzia di pubbliche relazioni americana di area conservatrice che, stando alle parole del suo Ceo Leonard Leo riportate da ProPublica, «vuole distruggere la dominazione liberal». Nel 2019 un suo dirigente aveva affermato che l’organizzazione aveva «molte, molte, molte dozzine» di dipendenti al lavoro per l’amministrazione di Donald Trump.

L’accordo prevede la costante presenza a Baku di un team da cinque a sei dirigenti, tra cui Geoff Morrell, ex capo della comunicazione esterna in Bp ed ex funzionario del governo americano. Nominato da George W. Bush, ha continuato a lavorare anche con l’amministrazione di Barack Obama.

Esiste un legame inscindibile tra lo sfruttamento delle risorse fossili e la repressione delle libertà democratiche nel Paese, sostiene l’attivista di Nida, Aliyev Araz: «Firmando accordi per le forniture di energia con il nostro Paese, l’Europa legittima la dittatura di Aliyev, continuando a fornire il lasciapassare per silenziare le voci dell’opposizione e della società civile».

Grattacieli a forma di fiamma con proiezioni di ispirazone nazionalista spiccano dal lungomare di Baku © Cecilia Fasciani

Negli ultimi due anni, e in particolare nei mesi precedenti alla Cop, la repressione delle libertà politiche e civili ha subito una forte accelerata. I grandi eventi in Azerbaijan sono stati storicamente accompagnati da ondate repressive, prima, dopo e durante. La società civile spera di utilizzarli per portare l’attenzione sulle condizioni in cui vive il Paese, il governo ne approfitta per silenziare le voci critiche in vista della maggiore visibilità.

Sono più di 300 i giornalisti, ricercatori, e attivisti rinchiusi nelle carceri azere, molti in attesa di una data di processo. Tra gli ultimi arresti si conta Bahruz Samadov, ricercatore azero di 29 anni che studiava all’estero, arrestato il 21 agosto 2024 con accuse di tradimento per i suoi articoli critici del regime azero e per aver partecipato a un meeting con colleghi armeni. Secondo quanto scrive, la Europe’s Civic University Alliance (comunità di otto atenei tra i più importanti d’Europa che riunisce 384 mila studenti, ndr), Bahruz Samadov è stato maltrattato psicologicamente e fisicamente, e ha iniziato uno sciopero della fame dopo aver subito violenze. Amici e colleghi di Samadov sono stati fermati e interrogati dalla polizia.

Nel 2012, quando Baku ha ospitato la competizione canora europea Eurovision Song Contest, è stata costruita la sfavillante arena Crystal Hall sul lungomare della capitale. Oltre agli sfratti di chi abitava prima quell’area, le manifestazioni degli oppositori prima dell’evento sono state represse dalla polizia, come denunciato da Amnesty International. Approfittando dell’attenzione internazionale, molti attivisti hanno continuato a organizzare proteste e manifestazioni anche durante l’evento per chiedere la liberazione dei prigionieri politici. La risposta è stata una nuova ondata di arresti.

Gli stessi metodi repressivi si sono visti anche alle ultime elezioni parlamentari, anticipate al 1 settembre scorso per non coincidere con la Cop. Il voto è stato marcato da brogli e molti candidati indipendenti hanno fatto molta fatica a presentarsi, alcuni hanno ricevuto «chiamate e sono state prese misure per dissuaderli», spiegano gli attivisti di Nida. È mancato anche un meccanismo di monitoraggio indipendente delle elezioni, visto che il presidente dell’Election Monitoring and Democracy Studies Center Anar Mammadli è stato imprigionato lo scorso 29 aprile.

Le richieste di commenti inviate da IrpiMedia all’autorità garante per i diritti umani azera sono rimaste senza risposta.

«Cercano di ripulire l’immagine autoritaria e mostrarsi diversi agli occhi del mondo. Ma sotto la realtà rimane, è tutto questo è solo un velo», sostiene Aliyev Araz di Nida. Nonostante la situazione di estrema repressione in cui vivono gli attivisti, rimane per alcuni la speranza che la Cop rappresenti un palcoscenico internazionale su cui denunciare l’ipocrisia di Baku: «È una delle poche volte in cui possiamo pensare a livello globale, approfittiamo di questo evento per cercare di risolvere anche i problemi ambientali locali e mettere il governo sotto pressione», conclude Javid Qara di Ecofront.

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Nell’antica capitale del regno d’Armenia i resti di una delle chiese più antiche al mondo (Renovatio21 03.11.24)

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

Il luogo di culto, del IV secolo, rinvenuto ad Artaxata. Una scoperta frutto del lavoro congiunto di archeologi dell’università di Münster e dell’Accademia nazionale delle scienze dell’Armenia. Per gli esperti è un evento «significativo» anche perché il regno è stato il primo nella storia «ad adottare il cristianesimo come religione ufficiale».

Nei giorni in cui papa Francesco nomina nuovo membro del dicastero per le Chiese orientali il patriarca di Cilicia degli Armeni Raphaël Bedros XXI Minassian, un gruppo di studiosi annuncia la scoperta dei resti di una chiesa del quarto secolo ad Artaxata, l’antica capitale del regno d’Armenia. Per gli esperti l’edificio rappresenta uno dei più antichi luoghi di culto rinvenuti al mondo e la più antica dell’area in cui sorgeva il regno che è anche il primo nella storia ad aver abbracciato il cristianesimo come religione ufficiale.

I resti della chiesa, dalla forma ottagonale, sono stati riportati alla luce ad Artaxata, l’antica capitale del regno di Armenia, da una squadra congiunta di archeologi dell’università di Münster e dell’Accademia nazionale delle scienze dell’Armenia, che hanno lavorato sul sito da settembre. La scoperta «consiste in una struttura con estensioni cruciformi» che «corrisponde a edifici commemorativi paleocristiani» come spiega l’ateneo tedesco in una nota. La costruzione era caratterizzata da “un diametro di circa 30 metri” e aveva “un semplice pavimento in malta e piastrelle di terracotta».

I ricercatori hanno anche trovato frammenti di marmo che indicano quanto fosse «riccamente decorata» con materiali di pregio da importazione. «Nelle estensioni a forma di croce, i ricercatori hanno scoperto i resti di piattaforme di legno che sono state datate al radiocarbonio» e risalirebbero «alla metà del IV secolo d.C.»  prosegue la dichiarazione.

Questa datazione ha permesso ai ricercatori di stabilire che la struttura «è la più antica chiesa archeologicamente documentata del Paese e una prova sensazionale del primo cristianesimo in Armenia» come evidenzia Achim Lichtenberger, docente dell’università di Münster.

La città di Artaxata, ora in rovina, situata su una collina nel sud del Paese lungo il confine con la Turchia, è stata fondata nel 176 a.C. e si è sviluppata nel tempo sino a diventare «una importante metropoli», in particolare durante il periodo ellenistico.

Una crescita consistente, spiegano i ricercatori, tanto da farla diventare la «capitale del regno d’Armenia per quasi sei secoli». La stessa collina, che vanta una vista spettacolare sul monte Ararat, appena al di là del confine turco, ospita Khor Virap, un antico monastero ancora attivo che è anche un luogo di pellegrinaggio.

Interpellata dal Times of Israel l’archeologa classica, biblista e storica delle religioni Jodi Magness, docente all’università di Chapel Hill nella Carolina del Nord (Stati Uniti), parla anche lei di «scoperta significativa».

«La scoperta di questa chiesa – aggiunge – ha senso dal momento che il regno armeno è stato il primo Stato ad adottare il cristianesimo come religione ufficiale all’inizio del IV secolo». E nello stesso periodo, conclude, gli armeni hanno stabilito «una presenza a Gerusalemme, che hanno mantenuto attuale sino ad oggi».

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