Gli 8 luoghi religiosi che Papa Leone XIV visiterà in Turchia e Libano (EWTN 27.11.25)

Nel suo primo viaggio apostolico internazionale, Papa Leone XIV si recherà in Turchia e in Libano dal 27 novembre al 2 dicembre 2025, visitando luoghi sacri che testimoniano la ricca eredità cristiana del Medio Oriente e il dialogo interreligioso.

8 luoghi religiosi che Papa Leone XIV visiterà in Turchia e Libano

Il viaggio apostolico di Papa Leone XIV in Turchia e Libano assume un profondo valore spirituale e storico, toccando luoghi significativi per la fede cattolica, il dialogo ecumenico con l’Ortodossia e l’incontro con l’Islam. Dal 27 novembre al 2 dicembre 2025, il Santo Padre visiterà questi nove luoghi emblematici.

Cattedrale dello Spirito Santo (Istanbul, Turchia)

Inaugurata nel 1846, la Cattedrale dello Spirito Santo è la sede del vicariato apostolico di Istanbul. Al suo interno sono custodite reliquie di santi, tra cui San Pietro e San Lino, i primi due pontefici.

Nel 1884, Papa Leone XIII donò alla cattedrale una reliquia di San Giovanni Crisostomo, patrono del Vicariato Apostolico di Costantinopoli. Quattro papi hanno già visitato questa basilica minore: San Paolo VI, San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco.

Nel cortile sorge una statua di Papa Benedetto XV, in ricordo del suo impegno durante la Prima Guerra Mondiale a favore delle vittime turche e degli armeni cristiani.

Basilica di San Neofito (İznik, Turchia)

Situata nei pressi dell’antica Nicea, l’attuale İznik, la basilica risale al 380 ed è costruita sul sito del Primo Concilio Ecumenico (325 d.C.), che portò alla definizione del Credo niceno. Il luogo è anche legato al martirio del giovane San Neofito, morto per aver rifiutato di sacrificare agli dei pagani. Gli scavi recenti hanno rivelato tombe di primi cristiani.

Moschea Sultan Ahmed – “Moschea Blu” (Istanbul, Turchia)

Costruita tra il 1609 e il 1617 sul sito dell’antico Palazzo Imperiale di Costantinopoli, è una delle moschee più emblematiche di Istanbul. Fu visitata da Benedetto XVI nel 2006 e da Papa Francesco nel 2012 come gesto di dialogo interreligioso.

Chiesa Patriarcale di San Giorgio (Istanbul, Turchia)

Sede del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, è il cuore spirituale dell’Ortodossia orientale. Al suo interno sono custodite importanti reliquie, tra cui quelle di Sant’Andrea, San Gregorio il Teologo e San Giovanni Crisostomo.

Chiesa ortodossa armena di San Gregorio l’Illuminatore (Istanbul, Turchia)

Nota anche come Cattedrale Patriarcale della Santa Madre di Dio, è la più antica chiesa armena in Turchia, costruita nel 1391. Papa Leone XIV sarà il primo pontefice a visitare questo luogo di culto, caro alla comunità armena di Istanbul da oltre sei secoli.

Monastero di San Marone (Annaya, Libano)

Luogo di vita e preghiera di San Charbel Makhlouf, è oggi una meta di pellegrinaggio molto frequentata. Dopo la beatificazione del santo nel 1965, fu costruita una nuova chiesa in suo onore, consacrata nel 1974. Il luogo attira pellegrini cristiani e non cristiani ispirati dalla sua santità.

Santuario di Nostra Signora del Libano (Harissa, Libano)

Costruito nel 1904 per il 50º anniversario del dogma dell’Immacolata Concezione, è uno dei più importanti luoghi di culto mariani del Medio Oriente. Ogni anno attira migliaia di pellegrini cristiani e musulmani. La statua di bronzo della Vergine Maria domina la baia di Jounieh. Papa Giovanni Paolo II lo visitò nel 1997, seguito da Benedetto XVI nel 2012.

Patriarcato Maronita di Antiochia (Bkerké, Libano)

Residenza invernale del Patriarca maronita dal 1830, fu edificato sul sito di un antico monastero del 1703. La Chiesa maronita è sempre rimasta in piena comunione con Roma. L’attuale patriarca è il cardinale Béchara Boutros Raï, O.M.M.

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MILANO – 9 aprile 2025 – Presentazione libro Non ti scordar di me Storia e oblio del Genocidio Armeno

Milano Piazza Velasca 4 MM Missori – III piano tel.:  0039 340210117
Facebook: Casa Armena – Hay Dun 

 

 CASA ARMENA 

HADUN

 
Mercoledì 9 Aprile 
alle h. 21.00
 
Antonia Arslan
e
Vittorio Robiati Bendaud 
presentano
Non ti scordar di me
Storia e oblio del Genocidio Armeno
 
di Vittorio Robiati Bendaud
 
Non ti scordar di me. Storia e oblìo del genocidio armeno - Vittorio Robiati Bendaud - copertina
Liberilibri
 
Forget-me-not in inglese, Non ti scordar di me in italiano, è un imperativo e finanche una prece. Questo piccolo e delicato fiore perenne è stato scelto come emblema del centenario del Genocidio Armeno, il Metz Yeghérn, che è stato definito il peccato originale del Novecento. Da allora a oggi, la Repubblica di Turchia, erede diretta dell’Impero ottomano, non è stata sanzionata né punita, come invece accadde alla Germania alla fine della Prima guerra mondiale, né tantomeno obbligata a fare i conti con la propria tenebra genocidaria, come avvenne successivamente alla caduta del nazismo. Gli armeni, ancora oggi sotto l’attacco di Ankara e di Baku, sono vittime di pulizia etnica e di etnocidio nei territori dell’Artsakh (o Nagorno-Karabakh) nel silenzio quasi assoluto del mondo libero. Funzionale alle antiche e nuove politiche antiarmene è il negazionismo del Metz Yeghérn, un inquietante e mostruoso case study perdurante da oltre un secolo. Tale negazionismo, “di Stato” in Turchia e in Azerbaijan, grazie a politici, giornalisti e intellettuali compiacenti e a finanziamenti a dipartimenti accademici, trova insidiosa sponda anche in Occidente. Vittorio Robiati Bendaud non solo racconta e analizza la storia e le cause di questa colossale tragedia, ma ne mostra anche la bruciante attualità. In tal senso, quindi, il Genocidio Armeno è «tuttora in essere». 
Con saggio introduttivo di Paolo Mieli.

Armenia, Centemero (Lega): ritorno armeni in Nagorno Karabakh sia in cima ad agenda politica (Agenparl 04.11.24)

(AGENPARL) – lun 04 novembre 2024 Armenia, Centemero (Lega): ritorno armeni in Nagorno Karabakh sia in cima ad agenda politica
Roma 4 nov. – “Ritengo importante che la questione del Nagorno Karabakh rimanga in cima all’agenda politica internazionale, soprattutto in vista della Cop 29. In questo senso, positivo il recente contatto tra Donald Trump e il capo della Chiesa Armena Aram I, centrato proprio sul ritorno degli armeni nella regione contesa storicamente con l’Azerbaijan. La tutela dei diritti degli oltre 120mila armeni che si sono trovati costretti ad abbandonare la propria terra deve rimanere una priorità per tutti i governi”.
Lo dichiara il deputato della Lega Giulio Centemero.

 

Nagorno Karabakh tra fughe e ripopolamenti (RSI 20.09.24)

La strada che attraversa la città di Agdam costeggia interminabili file di costruzioni distrutte che si estendono su entrambi i lati fino all’orizzonte. La maggior parte sono scoperchiate, piante ed erbacce si arrampicano sulle pareti rimaste in piedi. I vicoli sono abbandonati e deserti se non per due sminatori che, armati di metal detector, scandagliano il terreno alla ricerca di ordigni inesplosi. Poco più avanti, di fianco ad una bandiera dell’Azerbaigian piantata nel terreno, sventola una grande bandiera turca. “Questa è la Hiroshima del Caucaso” dice il funzionario azerbaigiano che ci accompagna.

Agdam è una delle tante città del Nagorno Karabakh ad essere state distrutte e spopolate nell’arco degli ultimi trent’anni. Abitata storicamente sia da armeni che da azerbaigiani e riconosciuta internazionalmente come parte dell’Azerbaigian, questa regione è stata sconvolta dai conflitti a partire dalla fine dell’Unione Sovietica, quando i due popoli iniziarono a combattersi. La prima guerra venne vinta dagli armeni che fondarono in loco la Repubblica dell’Artsakh, uno Stato indipendente (seppur non riconosciuto internazionalmente) legato a doppio filo alla vicina Armenia. Oltre mezzo milione di azerbaigiani vennero espulsi, le loro città e villaggi distrutti o lasciati andare in rovina. Negli ultimi anni, però, l’Azerbaigian ha lanciato ripetuti vittoriosi attacchi, l’ultimo dei quali, avvenuto esattamente un anno fa, ha costretto l’Artsakh alla capitolazione e gli armeni alla fuga di massa verso l’Armenia, abbandonando per sempre le proprie città, villaggi, chiese, monasteri e cimiteri. Oggi il Nagorno Karabakh è una scacchiera in cui gli insediamenti abbandonati dagli armeni si sovrappongono a quelli degli azerbaigiani fuggiti trent’anni fa. Questi ultimi stanno venendo oggi ricostruiti e ripopolati.

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Sminatori al lavoro

  • Luca Steinmann
Tonnellate di mine sepolte nel terreno

Di fianco alle rovine di Agdam si alzano decine di gru che stanno ricostruendo la città ex novo. Prima della guerra essa era abitata da 40’000 azerbaigiani, tutti fuggiti in direzione di Baku. Oggi il governo azerbaigiano sta stanziando miliardi per la ricostruzione e per favorire il trasferimento in loco dei propri cittadini, a partire da coloro che fuggirono trent’anni fa. Ad Agdam le ricostruzioni sono nel vivo, il ripopolamento invece non è ancora iniziato. A rallentarlo sono, tra le altre cose, le tonnellate di mine sepolte nel terreno dai soldati armeni in fuga che hanno reso le campagne circostanti un enorme campo minato. Lungo gli sterminati prati si vedono decine di artificieri, spesso accompagnati da cani lupo, alla ricerca degli ordigni da fare brillare. Dal 2020 ad oggi sono morte a causa delle mine 69 persone, sia militari che civili.

Nella città di Fizuli, 60 chilometri più avanti, sono arrivate recentemente 3’000 persone che vivono in enormi palazzoni appena edificati. La maggior parte sono famiglie che da qui vennero sfollate negli Anni Novanta e che ora vi fanno ritorno, ricevendo dallo Stato una nuova casa, un sussidio mensile per tre anni, assistenza medica e sociale. Possono stabilirsi qui anche gli azerbaigiani non originari del Karabakh, che devono però acquistare autonomamente i possedimenti. Il governo incentiva il ripopolamento attraverso sgravi fiscali per le aziende che vengono esentate dalle tasse per dieci anni e ricevono crediti vantaggiosi dalle istituzioni. Finora si sono spostate nel Karabakh circa 8’000 persone e i numeri sono destinati a crescere rapidamente. Viaggiando per la regione la maggior parte delle città che si incontrano sono degli enormi cantieri a cielo aperto.

Città e villaggi fantasma

Restano invece completamente abbandonate e fatiscenti le città e i villaggi da cui gli armeni sono fuggiti. Spostandosi per la regione si passa attraverso decine di essi, fatti di file di case ad uno o due piani lasciate in fretta e furia un anno fa dagli abitanti. Le porte sono aperte, sulle pareti e sui tetti crescono piante rampicanti, l’erba è alta e incolta nei giardini. Tutt’intorno i campi e i frutteti sono lasciati andare in malora.

Su un grosso cartello azzurro reca la scritta “Khankendi”, il nome azerbaigiano della più grande città della regione, che gli armeni chiamano Stepanakert. Fino ad un anno fa vivevano qui quasi 100’000 armeni, oggi gli unici movimenti sono quelli dei poliziotti azerbaigiani che stazionano ai posti di blocco e dei cani randagi che si aggirano tra i vicoli. Per chilometri e chilometri non si vedono che case, chiese e massicci palazzoni in calcestruzzo completamente vuoti.

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Armenia, Chiesa e Stato si scontrano a Sardarapat (Osservatorio Balcani e Caucaso 31.05.24)

Anche se le proteste contro la delimitazione e la demarcazione dei confini avevano iniziato a scemare nelle ultime settimane, piccoli atti di disobbedienza civile potrebbero aver dato nuovo slancio al movimento guidato dall’arcivescovo ribelle che chiede le dimissioni del Primo Ministro

31/05/2024 –  Onnik James Krikorian

Le manifestazioni guidate dall’arcivescovo Bagrat Galstanyan sono riprese domenica dopo essersi fermate dal 12 maggio, probabilmente a causa del calo di partecipazione, anche se nella capitale sono continuati atti sparsi di disobbedienza civile. Mentre la prima manifestazione aveva attirato fino a 30.000 persone, le due successive ne hanno raccolte rispettivamente solo 11.000 e 9.000. Il raduno di domenica ha visto il numero salire a circa 23.000. Anche se ancora insufficiente per un cambiamento politico nel Paese, è stato sufficiente per ritrovare lo slancio perduto.

Il raduno del movimento Tavush per la Patria, ora spesso chiamato Fronte nazionale, ha annunciato che il religioso 53enne sarà proposto per la carica di Primo Ministro nel caso, ancora improbabile, che le due fazioni parlamentari dell’opposizione guidate dagli ex presidenti Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan presentino una mozione di impeachment contro Pashinyan.

Secondo la Costituzione, Galstanyan non è idoneo a candidarsi poiché possiede la doppia cittadinanza armena e canadese. Sebbene affermi che rinuncerà a quest’ultima, deve ancora farlo e anche questo non cambierebbe la sua situazione: per legge, avrebbe dovuto possedere solo la cittadinanza armena nei quattro anni precedenti. Ciò ha portato a ipotizzare che Galstanyan e l’opposizione intendano rovesciare l’ordine costituzionale con la forza.
Anche se si tratta di proteste contro la delimitazione e la demarcazione di una sezione del confine nel nord-est del paese, i critici sostengono che l’obiettivo reale del movimento è solo il cambio di regime.

La notte prima, forti piogge hanno allagato due regioni nel nord-est del Paese, una delle quali è la diocesi di Galstanyan. Eppure, quest’ultimo non si è minimamente interessato della situazione sul luogo, anche se Pashinyan si era recato a valutare i danni e supervisionare i soccorsi. Dal canto suo, Galstanyan ha guidato una marcia verso la residenza del Primo Ministro a Yerevan nell’improbabile speranza di incontrarlo.
Galstanyan ha invitato i manifestanti a riunirsi la mattina seguente per continuare i loro atti di disobbedienza nella speranza di fermare la città.

Lunedì pomeriggio, 284 persone erano state arrestate prima che fosse annunciato un corteo di automobili al complesso commemorativo di Sardarapat. Anche se Galstanyan non ha spiegato perché si sarebbero fermati anche per la notte, era chiaro ad alcuni, ma a quanto pare non al governo, che intendevano impedire a Pashinyan di entrare nel sito la mattina successiva per commemorare l’anniversario della Repubblica armena del 1918.

Gli alti funzionari si riuniscono ogni anno per una commemorazione ufficiale che coincide anche con la sconfitta delle forze ottomane nello stesso luogo. Quest’anno Pashinyan ha dovuto aspettare che Galstanyan se ne andasse nel pomeriggio.

L’imbarazzante situazione ha chiaramente infastidito Pashinyan, che è sembrato criticare la Chiesa nel suo discorso al memoriale. “[…] quando parliamo del sogno del popolo armeno, spesso intendiamo i sogni di gruppi che si considerano elitari, quando parliamo del potere del popolo, spesso intendiamo il potere di gruppi che si considerano elitari. E a volte, anche spesso, al popolo viene assegnato il ruolo di massa governata e dettata, il ruolo di sudditi obbedienti. […] Viva il governo del popolo”.

Ulteriore imbarazzo si è verificato più tardi, quando anche al Catholicos armeno è stato impedito di entrare nel luogo della memoria. Le scene condivise sui social media hanno fatto arrabbiare molti quando Karekin II e il suo entourage sono stati temporaneamente bloccati dalla polizia. Fino allo scontro tra i due, in seguito alla guerra di 44 giorni con l’Azerbaijan nel 2020, il Catholicos era sempre stato nella delegazione ufficiale. Secondo Pashinyan, il Catholicos non era stato invitato e la polizia era semplicemente preoccupata che stesse progettando, come Galstanyan, di interrompere gli eventi.

La Sala Stampa della Santa Sede di Etchmiadzin, però, afferma che il governo è stato informato in anticipo dell’arrivo di Karekin II e parla di “provocazione”.

Anche se è chiaro che le azioni di Galstanyan sono condonate e appoggiate dal Catholicos, presumibilmente allo scopo di avvantaggiare le forze politiche vicine ai precedenti regimi, l’incidente con Karekin II minaccia ora di trasformarsi in uno scontro diretto tra Chiesa e Stato.

Anche se Pashinyan potrebbe essere ancora in grado di mantenere la presa sul potere, la sua posizione si sta indebolendo ulteriormente, rendendo potenzialmente ancora più delicati i tentativi di Yerevan di normalizzare le relazioni con Baku. Certamente le proteste sono lungi dall’essere terminate e potrebbero continuare ancora per diverse settimane.

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Il resistente armeno Missak Manouchian, simbolo degli stranieri nella Resistenza francese entra al Pantheon (Ambasciata francese

Il resistente armeno Missak Manouchian, simbolo degli stranieri nella Resistenza francese entra al Pantheon il 21 febbraio 2024, insieme alla moglie Mélinée.

I nomi dei suoi compagni di lotta, fucilati in gran parte al suo fianco il 21 febbraio 1944 al Mont-Valérien, figureranno anche loro su una targa al Pantheon ; fra loro 5 italiani: Rino Della Negra, Spartaco Fontanot, Cesare Luccarini, Antoine Salvadori, Amedeo Usseglio.

Su volontà del Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, mercoledì 21 febbraio alle 18.30, le spoglie di Missak Manouchian e di sua moglie Mélinée entreranno solennemente al Panthéon di Parigi, dove risposano le grandi personalità della Patria. Poeta, ex-operaio di Citroën, Manouchian si rifugiò in Francia nel 1925, dopo avere scampato al genocidio armeno, nel 1943 si arruolò nella resistenza comunista contro l’occupante tedesco e i collaborazionisti di Vichy. Entrato nei gruppi armati dei Francs-tireurs et partisans – Main-d’œuvre immigrée (FTP-MOI) ne divenne presto uno dei leader, coordinando azioni di sabotaggio, attentati e agguati contro i gerarchi e le forze di occupazione naziste e i collaborazionisti francesi di Vichy, nell’area di Parigi.

Arrestato nel 1943, sarà fucilato dai tedeschi il 21 febbraio 1944 al Mont-Valérien, insieme a 22 dei suoi compagni di lotta. La moglie Mélinée riuscì a sfuggire alla cattura, trascorrerà tutta la sua vita in Francia, dove mori’ nel 1989.

In modo simbolico, con l’iscrizione dei loro nomi su una targa, faranno ingresso al Pantheon anche i suoi compagni di lotta, stranieri morti per la Francia al suo fianco. Fra loro, al Mont-Valérien, 5 italiani furono uccisi dai soldati nazisti: Rino Della Negra, Spartaco Fontanot, Cesare Luccarini, Antoine Salvadori, Amedeo Usseglio. Di seguito i loro ritratti.

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Il giro del mondo in 5 vini rossi (Winwandfoodtour 10.02.24)

Amanti del nettare di Bacco, oggi vi portiamo in un entusiasmante tour del mondo in 5 vini rossi. Dalla Spagna all’Armenia, dalla California alla Slovenia, dalla Francia all’Australia: quali sono i vitigni rossi più buoni e famosi del globo? In questo viaggio al posto del passaporto serve un calice di buon vino. Siete pronti? Si parte! 

Rosso di Montalcino

Il nostro viaggio degustativo alla scoperta dei 7 vini rossi più buoni del mondo non può che iniziare dal Rosso di Montalcino. Succoso e terribilmente fragrante, asciutto e un po’ tannico, morbido e persistente, questo vino lascia un palato da favola. Il suo colore rosso rubino intenso.

Vini rossi più famosi del mondo- wineandfoodtour.it

Ricco di profumi intensi fruttati di sottobosco, prugna e ciliegia, è un vino molto gradito sia per il suo colore caratteristico che per il suo sapore caldo e il profumo elegante.

Sevuk Red Dry Armenia

Da Montalcino ci spostiamo in Armenia alla scoperta di un altro vino rosso rubino degno di merito. Stiamo parlando del Sevuk Red Dry Armeni.  Al naso si possono chiaramente percepire sentori di ribes nero, frutti rossi e sul finale anche spezie dolci, Al palato ha un sapore dolce, delicato ed elegante con tannini vivaci. Nel complesso è un vino succoso e ben bilanciato, intenso e ricco di sfumature. Per chi fino a questo momento aveva ignorato l’Armenia come regione vinicola deve ricredersi.

Amarone della Valpolicella

Torniamo in Italia con un vino rosso potente e aromatico che non ha bisogno di nessuna presentazione. Stiamo parlando del celebre Amarone della Valpolicella. Rispetto ad altri rossi della stessa zona, ha sicuramente una gradazione alcolica più elevata e un mix di aromi importante.

Barolo piemontese

Definito giustamente il “re dei vini e il vino dei re”, il Barolo viene realizzato con uve Nebbiolo coltivate nell’Italia nord occidentale. Si sposa con carne e formaggi stagionati. Se amate i vini da invecchiamento, è la scelta giusta per voi. Questo è un vino che i francesi ci invidiano da sempre.

Prodotto da uve coltivate nelle Langhe, viene invecchiato almeno 3 anni di cui 2 anni in botti di legno di rovere o castagno che diventano 5 anni se è la variante Riserva.

Cabernet Sauvignon

Spostiamoci nella Napa Valley, nella soleggiata California, celebre terra di vino, per assaggiare il Cabernet Sauvignon. Presenta un sapore intense e deciso. Al naso si notano note di frutta scura, come ribes nero, mora e prugna, ma anche sfumature erbacee, come menta ed eucalipto. Inoltre, si possono chiaramente riconoscere note di tabacco, cedro e vaniglia, dovute all’invecchiamento in botti di rovere. Un vino profumato, strutturato e ben bilanciato, perfetto per abbinamenti da re come carni e taglieri di formaggi stagionati francesi.

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CAUCASO. Zangezur contro Aras: i due corridoi azero turco armeni (Agc 07.02.24)

La prima guerra del Nagorno-Karabakh interruppe il collegamento ferroviario diretto e la strada tra l’Azerbaigian e l’exclave di Nakhchivan. Per uscire dall’empasse, aggirando l’Armenia attraverso l’Iran, la via terrestre di Bileh Savar nella provincia settentrionale di Ardabil, vicino al confine iraniano e a 220 chilometri da Baku, è diventata la principale via di transito tra l’Azerbaigian e Nakhchivan, nonché la Turchia. Questo transito è strategicamente importante per l’Azerbaigian.

Tuttavia, il 10 novembre 2020, l’accordo tripartito di cessate il fuoco che ha concluso la seconda guerra del Karabakh ha stabilito che “tutti i collegamenti economici e di trasporto nella regione saranno sbloccati”, creando la speranza che i collegamenti potessero riprendere. Tuttavia, tutto è ancora fermo a causa delle continue tensioni dell’area, nonostante l’accordo del marzo 2022 tra Teheran e Baku, riporta il Caci, Central Asia and Caucasus Institute.

Dopo la presa del Nagorno-Karabakh da parte delle forze azere nel settembre 2023, Iran e Azerbaigian hanno concordato una via di transito che collegasse l’Azerbaigian occidentale con il Nakhchivan attraverso l’Iran il 9 ottobre 2023. 

Il vice primo ministro dell’Azerbaigian Shahin Mustafayev e il ministro iraniano delle strade e delle infrastrutture urbane, Mehrdad Bazrpash, ha preso parte alla cerimonia di posa della prima pietra per un ponte che collega i due paesi sul fiume Aras. Questa linea autostradale e ferroviaria di 55 chilometri attraversa la provincia iraniana dell’Azerbaigian orientale e collega il villaggio di Aghband nell’angolo sud-occidentale del distretto di Zangilan alla città di Ordubad nel Nakhchivan meridionale. Affinché l’autostrada possa raggiungere Ordubad, dovranno essere costruiti altri due ponti ferroviari e uno stradale sul fiume Aras.

Questa via di transito, chiamata Corridoio di Aras per l’Iran è un’alternativa al Corridoio Zangezur, che può anche ridurre le preoccupazioni del Paese sull’instabilità lungo il confine comune con l’Armenia. Una delle motivazioni per garantire che la costruzione iniziata di una via di transito dall’Azerbaigian a Nakhchivan attraverso l’Iran sarà completata è che ciò ridurrà l’incentivo per l’Azerbaigian a stabilire con la forza il transito attraverso l’Armenia.

Il Corridoio Aras è il risultato dell’opposizione e della resistenza dell’Iran al Corridoio Zangezur; un mezzo per ridurre la tensione con l’Azerbaigian, mantenendo l’approccio equilibrato dell’Iran nel Caucaso meridionale e rafforzando il formato 3+3. D’altra parte, alcuni esperti iraniani vedono il Corridoio Aras con cautela e dubbio e credono che la preferenza del governo azerbaigiano per esso sia temporanea e tecnica, e mirata principalmente a fare pressione sull’Armenia affinché cooperi riguardo al Corridoio Zangezur. In questa prospettiva, il Corridoio Zangezur rimane l’opzione preferita sia per Baku che per Ankara e quando verranno stabiliti collegamenti terrestri e ferroviari diretti tra l’Azerbaigian e Nakhchivan attraverso l’Armenia, Baku si ritirerà dal Corridoio Aras.

Mentre la costruzione della ferrovia e della strada nella parte azera del corridoio Zangezur sta progredendo rapidamente e dovrebbe essere completata entro la fine del 2024, le recenti dichiarazioni delle autorità azere e turche hanno rafforzato queste percezioni in Iran. 

Agli inizi di gennaio, Azerbaijan e Turchia hanno ribadito l’interesse per il corridoio Zangezur. Inoltre, il primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha annunciato il progetto “Crocevia della pace” durante la conferenza internazionale “Via della seta” a Tbilisi il 26 ottobre 2023. Sulla base dei quattro principi incorporati in questo progetto, mira a migliorare la comunicazione tra Armenia, Turchia, Azerbaigian e l’Iran attraverso lo sviluppo delle infrastrutture, tra cui strade, ferrovie, condutture, cavi e linee elettriche.

Il piano proposto dall’Armenia, che ha incontrato opposizione interna, è apparentemente un tentativo di abbandonare il corridoio Zangezur e continuare a rispettare la nona clausola dell’accordo di cessate il fuoco del Karabakh del 2020 per l’accesso al transito e il trasporto tra l’Azerbaigian e Nakhchivan. Pertanto, dal punto di vista dell’Iran e dell’Armenia, sia il progetto Crocevia della pace che il Corridoio Aras possono impedire la realizzazione del Corridoio Zangezur aprendo al contempo vie di transito e trasporto nella regione.

In questo momento, mentre Teheran e Baku hanno firmato un accordo sul Corridoio di Aras il 9 ottobre 2023, Armenia e Azerbaigian stanno adottando misure per firmare un trattato di pace dopo la fine del lungo conflitto del Nagorno-Karabakh. Il 7 dicembre i due Stati hanno rilasciato una dichiarazione congiunta inaspettata, la prima di questo genere che non portava la firma di alcun mediatore esterno. Se i due stati firmassero un trattato di pace e se si realizzasse il riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale e l’instaurazione di relazioni diplomatiche tra Armenia, Azerbaigian e Turchia, gli attuali vantaggi del corridoio di Aras diminuirebbero. Inoltre, l’Azerbaijan sta cercando di ridurre o eliminare la dipendenza energetica e di transito dall’Iran attraverso vari progetti, sempre ammesso che Pashinyan resti al governo.

Anna Lotti

Politica e discorsi d’odio nei media turchi (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.06.23)

Durante le elezioni appena concluse in Turchia i candidati sono ricorsi ad una retorica discriminante e aggressiva. Ne abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink

13/06/2023 –  Francesco Brusa Istanbul

Durante le ultime elezioni in Turchia, entrambi i candidati alla presidenza non hanno esitato a utilizzare una retorica discriminante e aggressiva. In particolare, soprattutto fra il primo e il secondo turno, categorie di persone che vivono ai margini della società come la comunità dei rifugiati siriani si sono ritrovate esposte al fuoco (verbale) incrociato dei due schieramenti: rimpatriare tutte le persone fuggite dalla guerra in Siria sembrava a un certo punto l’assoluta priorità per il paese. Similmente, durante i vari comizi elettorali, diverse figure politiche come l’attuale ministro degli Interni Süleyman Soylu non hanno esitato a tirare in ballo lo spauracchio dei diritti Lgbt+ come una minaccia incombente per l’integrità del paese.

Abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink  (con sede a Istanbul) per capire meglio l’entità e le conseguenze di questo fenomeno, che è parso essere molto pervasivo durante l’ultimo appuntamento elettorale nel paese. La fondazione si occupa infatti di redigere report e analisi sulla presenza di discorsi d’odio e discorsi discriminanti sui media e nel dibattito politico da più di un decennio, oltre che di portare avanti campagne per arginare il problema e aumentare la consapevolezza su queste tematiche nella società turca.

Come mai pensate sia necessario occuparsi del fenomeno del discorso d’odio?

La nostra associazione è stata fondata dopo l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, e il suo caso è strettamente legato alla diffusione e alla pratica dei discorsi d’odio. Prima della sua morte, la sua figura veniva regolarmente presa di mira dai canali di comunicazione turchi e come risultato finale di un tale accanimento c’è stato appunto un crimine d’odio. Ovviamente non tutti i discorsi d’odio sfociano in un crimine ma, dal nostro punto di vista, costituiscono un primo livello in cui si creano e si acuiscono le discriminazione interne alla società.

Perciò dal 2009 abbiamo deciso di monitorare la presenza di discorsi d’odio nel dibattito pubblico del nostro paese, analizzando in particolare sia i media locali che nazionali. Ci preoccupiamo di identificare le varie categorie del discorso d’odio ma soprattutto i gruppi che ne diventano di volta in volta i bersagli. Da una parte ci interessa porre l’attenzione sulla responsabilità dei giornalisti, che sono tenuti a essere consapevoli dei toni con cui si esprimono, dall’altra vogliamo far conoscere quanto più possibile la questione presso l’opinione pubblica. In questo senso, è molto importante l’aspetto quantitativo della nostra ricerca: molto spesso quello dei discorsi d’odio può apparire come un fenomeno vago e tutto sommato non così rilevante, ma se si viene messi di fronte alla sua pervasività in termini di dati oggettivi si è più propensi a rifletterci e a considerarlo come una questione da affrontare.

 

Cosa avete osservato durante l’ultima tornata elettorale?

Durante le elezioni e la campagna elettorale in Turchia, abbiamo notato come discorsi d’odio e di natura discriminatoria siano stati utilizzati da tutt’e due le parti politiche e hanno avuto come oggetto molto spesso la categoria dei rifugiati e delle persone Lgbt+. Il fatto positivo è che si è verificata una discrepanza in termini quantitativi fra la presenza di discorsi d’odio nelle dichiarazioni dei leader politici, da una parte, e negli articoli e nei report dei giornali, dall’altra: come accennavo, credo che si sia creata nel tempo una maggiore consapevolezza del problema da parte dei professionisti dei media e, pertanto, molto spesso si evita di veicolare nei resoconti giornalistici discorsi d’odio che provengono dalla classe politica, anche se solo in forma di citazione.

Ciò detto, analizzando invece il dibattito che si è sviluppato sui social media e nello specifico su Twitter, abbiamo notato alcune tendenze: il termine “alevita”, per il quale ci aspettavamo un’alta diffusione dal momento che uno dei due candidati aveva utilizzato le proprie origini alevite come rivendicazione elettorale, è stato molto spesso associato in maniera il più delle volte indistinguibile dal termine “armeno” e magari usato come un insulto; per la categoria delle persone migranti di origine soprattutto siriana o afghana, uno degli elementi interessanti è come nel discorso pubblico se ne parli ponendo l’attenzione esclusivamente alla componente maschile di quei gruppi: i “rifugiati”, i “migranti”, insomma, sono quasi sempre uomini che arrivano nel nostro paese e in un modo o nell’altro costituiscono una minaccia; infine un termine molto utilizzato come insulto, applicato sia alla categoria dei rifugiati che a quella delle persone Lgbt+, è “pervertito”: anche qui, in diversi discorsi d’odio, migranti e persone dall’orientamento sessuale e/o identità di genere non conformi vengono viste come una minaccia alla struttura tradizionale della famiglia o come un problema di natura morale per l’intero corpo sociale.

Si tratta di un problema che ha a che fare con la mentalità della classe politica?

Tutte le forze politiche, in un modo o nell’altro, hanno fatto uso di discorsi di natura discriminatoria. Si tratta davvero di una pratica, purtroppo, molto comune e se è vero che esistono determinate figure politiche che insistono più di altre su una tale strategia comunicativa, non credo che il problema sia semplicemente individuale. Sicuramente si tratta anche del riflesso di una questione più strutturale che riguarda l’intera società e per la quale, pertanto, è necessario un cambiamento complessivo.

Aggiungo anche che la diffusione dei discorsi d’odio o dei discorsi discriminatori è qualcosa che non si limita al periodo elettorale, ma rimane costante più o meno lungo tutto l’arco dell’anno. Questo è vero soprattutto per determinate categorie, come siriani, armeni, cristiani, ebrei che sono praticamente sempre oggetto di un linguaggio aggressivo nei media (l’intensità del quale è magari influenzata anche dai cambiamenti nelle relazioni internazionali del paese). La soluzione per noi continua dunque a essere rappresentata dalla necessità di lavorare sulla consapevolezza generale, imparare a riconoscere la discriminazione insita nell’uso di certi tipi di linguaggio e offrire strumenti per raggiungere questo obiettivo a un sempre maggiore numero di persone.