Il resistente armeno Missak Manouchian, simbolo degli stranieri nella Resistenza francese entra al Pantheon (Ambasciata francese

Il resistente armeno Missak Manouchian, simbolo degli stranieri nella Resistenza francese entra al Pantheon il 21 febbraio 2024, insieme alla moglie Mélinée.

I nomi dei suoi compagni di lotta, fucilati in gran parte al suo fianco il 21 febbraio 1944 al Mont-Valérien, figureranno anche loro su una targa al Pantheon ; fra loro 5 italiani: Rino Della Negra, Spartaco Fontanot, Cesare Luccarini, Antoine Salvadori, Amedeo Usseglio.

Su volontà del Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, mercoledì 21 febbraio alle 18.30, le spoglie di Missak Manouchian e di sua moglie Mélinée entreranno solennemente al Panthéon di Parigi, dove risposano le grandi personalità della Patria. Poeta, ex-operaio di Citroën, Manouchian si rifugiò in Francia nel 1925, dopo avere scampato al genocidio armeno, nel 1943 si arruolò nella resistenza comunista contro l’occupante tedesco e i collaborazionisti di Vichy. Entrato nei gruppi armati dei Francs-tireurs et partisans – Main-d’œuvre immigrée (FTP-MOI) ne divenne presto uno dei leader, coordinando azioni di sabotaggio, attentati e agguati contro i gerarchi e le forze di occupazione naziste e i collaborazionisti francesi di Vichy, nell’area di Parigi.

Arrestato nel 1943, sarà fucilato dai tedeschi il 21 febbraio 1944 al Mont-Valérien, insieme a 22 dei suoi compagni di lotta. La moglie Mélinée riuscì a sfuggire alla cattura, trascorrerà tutta la sua vita in Francia, dove mori’ nel 1989.

In modo simbolico, con l’iscrizione dei loro nomi su una targa, faranno ingresso al Pantheon anche i suoi compagni di lotta, stranieri morti per la Francia al suo fianco. Fra loro, al Mont-Valérien, 5 italiani furono uccisi dai soldati nazisti: Rino Della Negra, Spartaco Fontanot, Cesare Luccarini, Antoine Salvadori, Amedeo Usseglio. Di seguito i loro ritratti.

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Il giro del mondo in 5 vini rossi (Winwandfoodtour 10.02.24)

Amanti del nettare di Bacco, oggi vi portiamo in un entusiasmante tour del mondo in 5 vini rossi. Dalla Spagna all’Armenia, dalla California alla Slovenia, dalla Francia all’Australia: quali sono i vitigni rossi più buoni e famosi del globo? In questo viaggio al posto del passaporto serve un calice di buon vino. Siete pronti? Si parte! 

Rosso di Montalcino

Il nostro viaggio degustativo alla scoperta dei 7 vini rossi più buoni del mondo non può che iniziare dal Rosso di Montalcino. Succoso e terribilmente fragrante, asciutto e un po’ tannico, morbido e persistente, questo vino lascia un palato da favola. Il suo colore rosso rubino intenso.

Vini rossi più famosi del mondo- wineandfoodtour.it

Ricco di profumi intensi fruttati di sottobosco, prugna e ciliegia, è un vino molto gradito sia per il suo colore caratteristico che per il suo sapore caldo e il profumo elegante.

Sevuk Red Dry Armenia

Da Montalcino ci spostiamo in Armenia alla scoperta di un altro vino rosso rubino degno di merito. Stiamo parlando del Sevuk Red Dry Armeni.  Al naso si possono chiaramente percepire sentori di ribes nero, frutti rossi e sul finale anche spezie dolci, Al palato ha un sapore dolce, delicato ed elegante con tannini vivaci. Nel complesso è un vino succoso e ben bilanciato, intenso e ricco di sfumature. Per chi fino a questo momento aveva ignorato l’Armenia come regione vinicola deve ricredersi.

Amarone della Valpolicella

Torniamo in Italia con un vino rosso potente e aromatico che non ha bisogno di nessuna presentazione. Stiamo parlando del celebre Amarone della Valpolicella. Rispetto ad altri rossi della stessa zona, ha sicuramente una gradazione alcolica più elevata e un mix di aromi importante.

Barolo piemontese

Definito giustamente il “re dei vini e il vino dei re”, il Barolo viene realizzato con uve Nebbiolo coltivate nell’Italia nord occidentale. Si sposa con carne e formaggi stagionati. Se amate i vini da invecchiamento, è la scelta giusta per voi. Questo è un vino che i francesi ci invidiano da sempre.

Prodotto da uve coltivate nelle Langhe, viene invecchiato almeno 3 anni di cui 2 anni in botti di legno di rovere o castagno che diventano 5 anni se è la variante Riserva.

Cabernet Sauvignon

Spostiamoci nella Napa Valley, nella soleggiata California, celebre terra di vino, per assaggiare il Cabernet Sauvignon. Presenta un sapore intense e deciso. Al naso si notano note di frutta scura, come ribes nero, mora e prugna, ma anche sfumature erbacee, come menta ed eucalipto. Inoltre, si possono chiaramente riconoscere note di tabacco, cedro e vaniglia, dovute all’invecchiamento in botti di rovere. Un vino profumato, strutturato e ben bilanciato, perfetto per abbinamenti da re come carni e taglieri di formaggi stagionati francesi.

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CAUCASO. Zangezur contro Aras: i due corridoi azero turco armeni (Agc 07.02.24)

La prima guerra del Nagorno-Karabakh interruppe il collegamento ferroviario diretto e la strada tra l’Azerbaigian e l’exclave di Nakhchivan. Per uscire dall’empasse, aggirando l’Armenia attraverso l’Iran, la via terrestre di Bileh Savar nella provincia settentrionale di Ardabil, vicino al confine iraniano e a 220 chilometri da Baku, è diventata la principale via di transito tra l’Azerbaigian e Nakhchivan, nonché la Turchia. Questo transito è strategicamente importante per l’Azerbaigian.

Tuttavia, il 10 novembre 2020, l’accordo tripartito di cessate il fuoco che ha concluso la seconda guerra del Karabakh ha stabilito che “tutti i collegamenti economici e di trasporto nella regione saranno sbloccati”, creando la speranza che i collegamenti potessero riprendere. Tuttavia, tutto è ancora fermo a causa delle continue tensioni dell’area, nonostante l’accordo del marzo 2022 tra Teheran e Baku, riporta il Caci, Central Asia and Caucasus Institute.

Dopo la presa del Nagorno-Karabakh da parte delle forze azere nel settembre 2023, Iran e Azerbaigian hanno concordato una via di transito che collegasse l’Azerbaigian occidentale con il Nakhchivan attraverso l’Iran il 9 ottobre 2023. 

Il vice primo ministro dell’Azerbaigian Shahin Mustafayev e il ministro iraniano delle strade e delle infrastrutture urbane, Mehrdad Bazrpash, ha preso parte alla cerimonia di posa della prima pietra per un ponte che collega i due paesi sul fiume Aras. Questa linea autostradale e ferroviaria di 55 chilometri attraversa la provincia iraniana dell’Azerbaigian orientale e collega il villaggio di Aghband nell’angolo sud-occidentale del distretto di Zangilan alla città di Ordubad nel Nakhchivan meridionale. Affinché l’autostrada possa raggiungere Ordubad, dovranno essere costruiti altri due ponti ferroviari e uno stradale sul fiume Aras.

Questa via di transito, chiamata Corridoio di Aras per l’Iran è un’alternativa al Corridoio Zangezur, che può anche ridurre le preoccupazioni del Paese sull’instabilità lungo il confine comune con l’Armenia. Una delle motivazioni per garantire che la costruzione iniziata di una via di transito dall’Azerbaigian a Nakhchivan attraverso l’Iran sarà completata è che ciò ridurrà l’incentivo per l’Azerbaigian a stabilire con la forza il transito attraverso l’Armenia.

Il Corridoio Aras è il risultato dell’opposizione e della resistenza dell’Iran al Corridoio Zangezur; un mezzo per ridurre la tensione con l’Azerbaigian, mantenendo l’approccio equilibrato dell’Iran nel Caucaso meridionale e rafforzando il formato 3+3. D’altra parte, alcuni esperti iraniani vedono il Corridoio Aras con cautela e dubbio e credono che la preferenza del governo azerbaigiano per esso sia temporanea e tecnica, e mirata principalmente a fare pressione sull’Armenia affinché cooperi riguardo al Corridoio Zangezur. In questa prospettiva, il Corridoio Zangezur rimane l’opzione preferita sia per Baku che per Ankara e quando verranno stabiliti collegamenti terrestri e ferroviari diretti tra l’Azerbaigian e Nakhchivan attraverso l’Armenia, Baku si ritirerà dal Corridoio Aras.

Mentre la costruzione della ferrovia e della strada nella parte azera del corridoio Zangezur sta progredendo rapidamente e dovrebbe essere completata entro la fine del 2024, le recenti dichiarazioni delle autorità azere e turche hanno rafforzato queste percezioni in Iran. 

Agli inizi di gennaio, Azerbaijan e Turchia hanno ribadito l’interesse per il corridoio Zangezur. Inoltre, il primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha annunciato il progetto “Crocevia della pace” durante la conferenza internazionale “Via della seta” a Tbilisi il 26 ottobre 2023. Sulla base dei quattro principi incorporati in questo progetto, mira a migliorare la comunicazione tra Armenia, Turchia, Azerbaigian e l’Iran attraverso lo sviluppo delle infrastrutture, tra cui strade, ferrovie, condutture, cavi e linee elettriche.

Il piano proposto dall’Armenia, che ha incontrato opposizione interna, è apparentemente un tentativo di abbandonare il corridoio Zangezur e continuare a rispettare la nona clausola dell’accordo di cessate il fuoco del Karabakh del 2020 per l’accesso al transito e il trasporto tra l’Azerbaigian e Nakhchivan. Pertanto, dal punto di vista dell’Iran e dell’Armenia, sia il progetto Crocevia della pace che il Corridoio Aras possono impedire la realizzazione del Corridoio Zangezur aprendo al contempo vie di transito e trasporto nella regione.

In questo momento, mentre Teheran e Baku hanno firmato un accordo sul Corridoio di Aras il 9 ottobre 2023, Armenia e Azerbaigian stanno adottando misure per firmare un trattato di pace dopo la fine del lungo conflitto del Nagorno-Karabakh. Il 7 dicembre i due Stati hanno rilasciato una dichiarazione congiunta inaspettata, la prima di questo genere che non portava la firma di alcun mediatore esterno. Se i due stati firmassero un trattato di pace e se si realizzasse il riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale e l’instaurazione di relazioni diplomatiche tra Armenia, Azerbaigian e Turchia, gli attuali vantaggi del corridoio di Aras diminuirebbero. Inoltre, l’Azerbaijan sta cercando di ridurre o eliminare la dipendenza energetica e di transito dall’Iran attraverso vari progetti, sempre ammesso che Pashinyan resti al governo.

Anna Lotti

Politica e discorsi d’odio nei media turchi (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.06.23)

Durante le elezioni appena concluse in Turchia i candidati sono ricorsi ad una retorica discriminante e aggressiva. Ne abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink

13/06/2023 –  Francesco Brusa Istanbul

Durante le ultime elezioni in Turchia, entrambi i candidati alla presidenza non hanno esitato a utilizzare una retorica discriminante e aggressiva. In particolare, soprattutto fra il primo e il secondo turno, categorie di persone che vivono ai margini della società come la comunità dei rifugiati siriani si sono ritrovate esposte al fuoco (verbale) incrociato dei due schieramenti: rimpatriare tutte le persone fuggite dalla guerra in Siria sembrava a un certo punto l’assoluta priorità per il paese. Similmente, durante i vari comizi elettorali, diverse figure politiche come l’attuale ministro degli Interni Süleyman Soylu non hanno esitato a tirare in ballo lo spauracchio dei diritti Lgbt+ come una minaccia incombente per l’integrità del paese.

Abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink  (con sede a Istanbul) per capire meglio l’entità e le conseguenze di questo fenomeno, che è parso essere molto pervasivo durante l’ultimo appuntamento elettorale nel paese. La fondazione si occupa infatti di redigere report e analisi sulla presenza di discorsi d’odio e discorsi discriminanti sui media e nel dibattito politico da più di un decennio, oltre che di portare avanti campagne per arginare il problema e aumentare la consapevolezza su queste tematiche nella società turca.

Come mai pensate sia necessario occuparsi del fenomeno del discorso d’odio?

La nostra associazione è stata fondata dopo l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, e il suo caso è strettamente legato alla diffusione e alla pratica dei discorsi d’odio. Prima della sua morte, la sua figura veniva regolarmente presa di mira dai canali di comunicazione turchi e come risultato finale di un tale accanimento c’è stato appunto un crimine d’odio. Ovviamente non tutti i discorsi d’odio sfociano in un crimine ma, dal nostro punto di vista, costituiscono un primo livello in cui si creano e si acuiscono le discriminazione interne alla società.

Perciò dal 2009 abbiamo deciso di monitorare la presenza di discorsi d’odio nel dibattito pubblico del nostro paese, analizzando in particolare sia i media locali che nazionali. Ci preoccupiamo di identificare le varie categorie del discorso d’odio ma soprattutto i gruppi che ne diventano di volta in volta i bersagli. Da una parte ci interessa porre l’attenzione sulla responsabilità dei giornalisti, che sono tenuti a essere consapevoli dei toni con cui si esprimono, dall’altra vogliamo far conoscere quanto più possibile la questione presso l’opinione pubblica. In questo senso, è molto importante l’aspetto quantitativo della nostra ricerca: molto spesso quello dei discorsi d’odio può apparire come un fenomeno vago e tutto sommato non così rilevante, ma se si viene messi di fronte alla sua pervasività in termini di dati oggettivi si è più propensi a rifletterci e a considerarlo come una questione da affrontare.

 

Cosa avete osservato durante l’ultima tornata elettorale?

Durante le elezioni e la campagna elettorale in Turchia, abbiamo notato come discorsi d’odio e di natura discriminatoria siano stati utilizzati da tutt’e due le parti politiche e hanno avuto come oggetto molto spesso la categoria dei rifugiati e delle persone Lgbt+. Il fatto positivo è che si è verificata una discrepanza in termini quantitativi fra la presenza di discorsi d’odio nelle dichiarazioni dei leader politici, da una parte, e negli articoli e nei report dei giornali, dall’altra: come accennavo, credo che si sia creata nel tempo una maggiore consapevolezza del problema da parte dei professionisti dei media e, pertanto, molto spesso si evita di veicolare nei resoconti giornalistici discorsi d’odio che provengono dalla classe politica, anche se solo in forma di citazione.

Ciò detto, analizzando invece il dibattito che si è sviluppato sui social media e nello specifico su Twitter, abbiamo notato alcune tendenze: il termine “alevita”, per il quale ci aspettavamo un’alta diffusione dal momento che uno dei due candidati aveva utilizzato le proprie origini alevite come rivendicazione elettorale, è stato molto spesso associato in maniera il più delle volte indistinguibile dal termine “armeno” e magari usato come un insulto; per la categoria delle persone migranti di origine soprattutto siriana o afghana, uno degli elementi interessanti è come nel discorso pubblico se ne parli ponendo l’attenzione esclusivamente alla componente maschile di quei gruppi: i “rifugiati”, i “migranti”, insomma, sono quasi sempre uomini che arrivano nel nostro paese e in un modo o nell’altro costituiscono una minaccia; infine un termine molto utilizzato come insulto, applicato sia alla categoria dei rifugiati che a quella delle persone Lgbt+, è “pervertito”: anche qui, in diversi discorsi d’odio, migranti e persone dall’orientamento sessuale e/o identità di genere non conformi vengono viste come una minaccia alla struttura tradizionale della famiglia o come un problema di natura morale per l’intero corpo sociale.

Si tratta di un problema che ha a che fare con la mentalità della classe politica?

Tutte le forze politiche, in un modo o nell’altro, hanno fatto uso di discorsi di natura discriminatoria. Si tratta davvero di una pratica, purtroppo, molto comune e se è vero che esistono determinate figure politiche che insistono più di altre su una tale strategia comunicativa, non credo che il problema sia semplicemente individuale. Sicuramente si tratta anche del riflesso di una questione più strutturale che riguarda l’intera società e per la quale, pertanto, è necessario un cambiamento complessivo.

Aggiungo anche che la diffusione dei discorsi d’odio o dei discorsi discriminatori è qualcosa che non si limita al periodo elettorale, ma rimane costante più o meno lungo tutto l’arco dell’anno. Questo è vero soprattutto per determinate categorie, come siriani, armeni, cristiani, ebrei che sono praticamente sempre oggetto di un linguaggio aggressivo nei media (l’intensità del quale è magari influenzata anche dai cambiamenti nelle relazioni internazionali del paese). La soluzione per noi continua dunque a essere rappresentata dalla necessità di lavorare sulla consapevolezza generale, imparare a riconoscere la discriminazione insita nell’uso di certi tipi di linguaggio e offrire strumenti per raggiungere questo obiettivo a un sempre maggiore numero di persone.

Al Liceo classico di Vibo la lezione di storia di Marcello Flores (Zoom24.it 24.05.23)

Questa mattina a partire dalle ore 9.30, presso l’aula magna del Liceo Classico di Vibo, gli studenti dell’IIS “Morelli-Colao”, guidati dalle referenti del progetto Gutenberg, le professoresse Anna Melecrinis e Chiara Marasco, hanno incontrato il professore Marcello Flores, per un dibattito vivo e partecipato intorno al volume scritto dallo studioso insieme a Giovanni Gozzini, “Perché il fascismo è nato in Italia”, edito dalla casa editrice Laterza nel 2022. La presentazione dell’autore e del volume sono stati a cura di Anna Sofia Lakehal della 4 E del Liceo Classico Morelli.

Marcello Flores, storico, autore di apprezzate pubblicazioni, si è occupato principalmente della storia del comunismo, del XX secolo, del genocidio degli Armeni durante la prima guerra mondiale, dei diritti umani e delle vittime di guerre. Ha fatto parte del comitato scientifico-editoriale per la monumentale “Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo” ha partecipato a diversi programmi televisivi divulgativi sul tema (ad esempio, Il tempo e la storia, Eco della Storia). Fa parte del comitato scientifico per la pubblicazione dei documenti diplomatici italiani sull’Armenia. Dal 1992 al 1994 è stato addetto culturale presso l’ambasciata italiana a Varsavia. Ha collaborato con diverse riviste (ne ha anche diretta una, I viaggi di Erodoto) e case editrici (ad esempio Mondadori).

Professore presso l’Università degli Studi di Siena e direttore del Master europeo in “Human Rights and Genocide Studies”, è stato anche Assessore alla Cultura presso il Comune di Siena (2006-2011). Fra le pubblicazioni ricordiamo: La fine del comunismo, Bruno Mondadori, Milano, 2011; Storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna, 2008; 1917. La rivoluzione, Einaudi, Torino, 2007; Il genocidio degli armeni, il Mulino, Bologna, 2006; Tutta la violenza di un secolo,Feltrinelli, Milano, 2005; Il secolo-mondo. Storia del Novecento, il Mulino, Bologna, 2001; Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo (a cura di), Bruno Mondadori, Milano, 2001; Verità senza vendetta. L’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma, 1999.

“Perché il fascismo è nato in Italia” intende rispondere ad una domanda che gli storici da tempo si pongono. Gli anni tra le due guerre sono infatti caratterizzati dalla diffusione sul suolo europeo di governi di destra, dittatoriali e totalitari, ma ad avviare questo processo politico è l’Italia incubatrice di quelle tendenze antidemocratiche che la guerra e la rivoluzione bolscevica incrementarono:  il ricorso alla violenza come prassi e strategia politica è, infatti, la caratteristica della dialettica politica dei primi decenni del XX secolo.

Gli autori, con  precisi e puntuali  riferimenti storici,  illustrano l’humus da cui il fenomeno ha tratto il suo sviluppo: la brutalizzazione della guerra. La trincea è l’incubatrice della violenza squadrista che riporta nella società e nella lotta politica la dicotomia amico-nemico di Schmittiana memoria. Il nemico diventa il socialista, il traditore neutralista che non ha sostenuto l’eroismo bellico esaltato a mito identitario dai reduci, soprattutto ex ufficiali che ritornati dalla guerra faticano a reinserirsi in posti di comando. Ignorati dallo Stato e  sbeffeggiati dai socialisti e popolari finiscono con l’ingrossare le fila delle organizzazioni paramilitari.

La lotta politica viene gestita militarmente, la violenza diventa strategia della paura, del terrore, volta a eliminare il nemico politico e a far rinchiudere la società civile nel privato. Ma – ed ecco il secondo elemento centrale nell’analisi dei due storici – la paura del nemico è legata ad un’altra conseguenza del conflitto che per oltre settant’anni condizionerà la storia e la geo-politica mondiale:  la rivoluzione bolscevica e la nascita dell’Urss.

Lo squadrismo fascista sulla cui violenza fonda la  sua strategia politica Mussolini, insiste sulla imminenza del pericolo rivoluzionario bolscevico che verbalmente, secondo una sorta di necessità storica, i massimalisti continuano a proporre come un credo religioso. In Italia questo “red scare” si innesta su un contesto agrario in movimento ma profondamente arretrato e in lotta, pertanto lo squadrismo e la violenza fascista si sposano con la reazione conservatrice degli agrari che vogliono stravincere, annientare ogni forma di lotta socialista per i diritti dei lavoratori. Gli agrari non trovando uno spazio di contrattazione con lo Stato decidono di far da sé utilizzando lo squadrismo come deterrente.

Il legame tra squadrismo e agrari rappresenta la base sociale su cui si fonda il legame tra la media e piccola borghesia e il fascismo. La borghesia usa il fascismo per mantenere (vedi caso del gerarca Caradonna) o per ottenere (vedi il caso del gerarca Farinacci) prestigio, potere, ricchezza, spazio di difesa di interessi agrario-industriali, e di ascesa sociale, di rivendicazione di ruoli politici.

Infatti gonfiare  il bisogno di “law and order” con la  violenza e l’aggressività delle camicie nere  finisce con legittimare nell’opinione pubblica borghese l’uso indiscriminato della violenza e presenta Mussolini come l’uomo, il capo destinato porre fine all’anarchie e all’assenza dello stato. Ed è proprio quest’ultimo  il terzo e peculiare elemento che permette al fascismo di nascere in Italia: lo sgretolamento dello Stato liberale e la crisi del sistema partitico, incapace, (questo vale soprattutto per il partito liberale di Giolitti), di rispondere con misure politico-economiche adeguate alle tensioni e alle necessità postbelliche.

Partito di notabili, in crisi per l’introduzione del proporzionale e incapace di competere con i partiti di massa socialisti e cattolici, il partito liberale assiste e avalla con scelte politiche dubbie (come il listone elettorale e la simpatia antisocialista per il fascismo, che Giolitti pensa di poter usare e ricondurre nell’alveo della dialettica politica legale e democratica) l’ascesa di Mussolini, ma soprattutto il governo e la classe dirigente assiste inerme alla progressiva perdita di un caposaldo dello Stato: il monopolio della forza. Lo Stato, grazie alla convivenza tra squadrismo, forze dell’ordine, prefetti guardie regie e magistratura, lascia spazio alla violenza privata di squadre paramilitari, la violenza privata sostituisce la forza pubblica in un contesto nel quale la catena di comando governo-forze dell’ordine si disgrega.

È questo l’aspetto più specifico che consente al fascismo di nascere in Italia: a differenza di quanto avverrà in Germania, dove la Repubblica di Weimar per un decennio riuscirà a mantenere saldo il comando dello Stato, superando i tentativi rivoluzionari di destra e di sinistra.  Lo Stato italiano come nel caso emblematico della marcia su Roma, rinuncerà al monopolio della forza per la paura di un sommovimento dal basso diffuso, creata ad arte da Mussolini e dei suoi ras. La paura del re di non controllare più le forze dell’ordine e l’intera catena di comando, consentirà ad una minoranza, di prendere il potere.

Mussolini approfitta del caos, della debolezza dei partiti, incapaci di una reale ed efficiente opposizione, poiché trincerati nel sospetto reciproco e su posizioni intransigenti. Navigando a vista, secondo quella che Simon definirà una razionalità limitata, e attraverso la politica del doppio binario, Mussolini  riesce ad ottenere il governo, l’ ascesa politica personale, presentandosi come colui che è capace di sopperire alle carenze di ordine dello Stato: agli italiani  prospetterà una nazione combattente, formata da cittadini soldati, un’immagine cara  ai reduci, che si riconoscono nel motto “credere, obbedire, combattere”.

Il fascismo, infatti, che  si nutre della violenza della guerra, proporrà una nazione escludente e divisiva, e come  in ogni regime totalitario utilizzerà come suoi strumenti di dominio la violenza di Stato organizzata, proporrà uno Stato forte politicamente, centrato sul culto del capo carismatico, elaborerà nuovi miti con cui costruire il consenso: il bellicismo, il maschilismo, la potenza alimentata attraverso la repressione delle dissidenze, la propaganda e l’esclusione.

L’ignavia della società civile alimenterà una crisi della democrazia, causata più  dalla paralisi delle coscienze e dall’espandersi di una “zona grigia” che dalle reali capacità rivoluzionarie del  leader o delle organizzazioni. Così la riflessione sulla nascita del fascismo ci riconduce al presente, alla fragilità della democrazia: quando istituzioni, società civili, e forme di partecipazione si indeboliscono il rischio di una svolta autoritaria, pende, come una spada di Damocle, sulle nostre teste.

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162° giorno del #ArtsakhBlockade. Azioni e dichiarazioni dell’Armenia volte a riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian sono inaccettabili e illegali (Korazym 22.05.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 22.05.2023 – Vik van Brantegem] – L’Armenia riconosce l’integrità territoriale di 86.600 km2 dell’Azerbaigian che include il Nagorno-Karabakh, ma i diritti e la sicurezza degli Armeni del Nagorno-Karabakh devono essere discussi attraverso il dialogo Baku-Stepanakert, ha affermato oggi il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan. Ha osservato che tutte i governi armeni precedenti hanno riconosciuto l’integrità territoriale dell’Azerbajgian.

Ai sensi dell’articolo 114 della Costituzione della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh e dell’articolo 37 della legge “Regolamento di procedura dell’Assemblea Nazionale”, si terrà oggi alle ore 23.00 una sessione straordinaria dell’Assemblea Nazionale della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh su iniziativa dei Deputati di l’Assemblea Nazionale con all’ordine del giorno questioni urgenti.

“L’Armenia è pronto a riconoscere l’integrità territoriale di 86.600 km2 dell’Azerbajgian. Ed è nostra comprensione che l’Azerbajgian è pronto a riconoscere l’integrità territoriale di 29.800 km2 dell’Armenia. Se ci intendiamo correttamente con l’Azerbajgian in questa materia, l’Armenia, infatti, riconosce l’integrità territoriale di 86.600 km2 dell’Azerbajgian, con la consapevolezza che l’Azerbajgian riconosce l’integrità territoriale di 29.800 km2 dell’Armenia”, ha detto Pashinyan.

Pashinyan ha affermato che è molto importante creare garanzie internazionali per i colloqui diretti tra Stepanakert e Baku sui diritti e la sicurezza degli Armeni nel Nagorno-Karabakh. “Intendiamo, ad esempio, che la questione dei diritti e della sicurezza degli Armeni del Nagorno Karabakh potrebbe essere dimenticata e l’Azerbajgian potrebbe continuare la sua politica di pulizia etnica e genocidio contro gli Armeni del Nagorno-Karabakh attraverso la forza”, ha detto Pashinyan, sottolineando la necessità di garanzie per impedire questa politica.

Il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha dichiarato che durante i colloqui ospitati a Brussel all’inizio di maggio, il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, e il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, hanno confermato il loro inequivocabile impegno nei confronti della Dichiarazione di Almaty del 1991 e della rispettiva integrità territoriale dell’Armenia (29.800 km2) e dell’Azerbajgian (86.600 km2).

Artak Beglaryan, il Consigliere del Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh, ha presentato alcuni punti riguardanti l’intenzione dell’Armenia a riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbajgian e la recente dichiarazione del Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, relativa all’Artsakh.

1. Qualsiasi documento e dichiarazione che riconosca l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian è altamente inaccettabile, come hanno dichiarato le autorità della Repubblica di Artsakh, a livello di Presidente, Assemblea Nazionale, Consiglio di Sicurezza e Ministero degli Esteri in tante diciture diverse. È inaccettabile, perché:
1.1. Il popolo dell’Artsakh ha esercitato il suo diritto inalienabile all’autodeterminazione con la norma jus cogens (vincolante) nel 1991 sulla base dei documenti fondamentali del diritto internazionale (Carta delle Nazioni Unite, Patti internazionali sui diritti delle Nazioni Unite, Atto finale di Helsinki, ecc.). Negli anni successivi, il popolo dell’Artsakh ha difeso i propri diritti e dimostrato la propria volontà e capacità di sovranità.
1.2. Sebbene la Repubblica di Artsakh non sia stata pienamente riconosciuta dalla comunità internazionale, tuttavia, la sua indipendenza è stata accettata come una realtà e il suo status è stato riconosciuto a livello internazionale come territorio conteso.
1.3. L’oggetto principale di qualsiasi decisione riguardante lo status e il futuro dell’Artsakh è il popolo dell’Artsakh, gli altri attori grandi e piccoli hanno il diritto solo di esprimere le proprie posizioni, ma non di decidere per conto del popolo dell’Artsakh o di fare dell’Artsakh un oggetto di trattative.
1.4. Pertanto, ignorare questo percorso passato e i diritti e i gravi pericoli esistenziali degli autoctoni e detentori del titolo dell’Artsakh è semplicemente un crimine internazionale.

2. Una delle insidie e delle false argomentazioni abituali dell’Azerbajgian è la tesi della continuità per difetto dei confini sovietici, sulla base della quale si stanno svolgendo i processi di mutuo riconoscimento dell’integrità territoriale di Armenia e Azerbajgian. È infondato e falso per diversi motivi, in particolare:
2.1. La ripartizione territoriale amministrativa dell’URSS non poteva diventare un confine di Stato secondo la logica del principio giuridico internazionale dell’uti possidetis juris (continuità degli ex confini interni), perché tale principio non è un principio universale ed è stato applicato con grandi riserve solo con chiaro accordo reciproco tra alcuni stati decolonizzanti del Sud America e dell’Africa. Il Kosovo è uno dei buoni esempi di esclusione di tale principio, perché anche nel caso del crollo della Jugoslavia, il principio primario nella definizione dei confini degli ex Stati membri è stato il principio della “secessione riparatrice”, basato indissolubilmente sul diritto dei popoli all’autodeterminazione.
2.2. Anche l’Azerbajgian al più alto livello ha rifiutato la continuità dei confini sovietici, quando il Consiglio Supremo di quel Paese nel 1991 ha adottato la dichiarazione “Sul ripristino dell’indipendenza statale dell’Azerbajgian” e l’atto costituzionale “Sul ripristino dell’indipendenza statale dell’Azerbajgian”. Con quei documenti, l’Azerbajgian rinunciò alla successione dell’Azerbajgian sovietico e si dichiarò successore della Repubblica Democratica dell’Azerbajgian del 1918-1920. Questo fatto è importante sottolineare non solo perché l’Azerbajgian ha inizialmente rifiutato l’applicazione del principio dell’uti possidetis juris, ma anche, nel periodo pre-sovietico, il Nagorno-Karabakh era internazionalmente considerato dalla Società delle Nazioni come un territorio conteso e aveva un territorio molto più vasto rispetto all’ex Oblast (regione) autonoma di Nagorno-Karabakh, così come aveva un confine comune con l’Armenia.
2.3. Anche se l’Armenia e l’Azerbajgian concordano reciprocamente di utilizzare i confini amministrativi interni dell’URSS ai fini di delimitazione e demarcazione, vale la pena sottolineare che ciò non significa ancora l’esclusione del diritto all’autodeterminazione esterna del popolo dell’Artsakh, almeno nell’ex Oblast autonomo del Nagorno-Karabakh. Era un’enclave negli ultimi decenni dell’Unione Sovietica e non aveva alcuna associazione diretta con i confini delle due ex repubbliche sovietiche. Pertanto, in casi estremi, questa è anche un’opportunità per la Repubblica di Armenia di coniugare in qualche modo la continuità dei confini sovietici con il riconoscimento e la tutela del diritto dell’Artsakh all’autodeterminazione esterna. Tuttavia, la condizione necessaria per questa soluzione è che l’Armenia non cerchi in alcun modo di riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbaigian e non chiuda l’opportunità e l’obbligo di sostenere la lotta dell’Artsakh per l’autodeterminazione.

3. Le azioni e le dichiarazioni della Repubblica di Armenia volte a riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian sono inaccettabili e illegali, sulla base sia dei ben noti documenti legali internazionali sia della legislazione interna della Repubblica d’Armenia. In particolare:
3.1. La Dichiarazione di Indipendenza della Repubblica di Armenia riconosce chiaramente l’Artsakh come parte della Repubblica di Armenia, sulla base della decisione congiunta del Consiglio Supremo della SSR armena e del Consiglio Nazionale del Nagorno Karabakh del 1° dicembre 1989, “Sulla riunificazione della SSR armena e del Nagorno-Karabakh”. Sebbene in seguito sia stata scelta la via dell’indipendenza dell’Artsakh, deviando dalla disposizione data dalla Dichiarazione di indipendenza armena, ma anche a tale condizione, la possibilità legale dell’Armenia di riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbaigian è escluso in modo inequivocabile. Pertanto, essendo la pietra angolare della Costituzione dell’Armenia, la Dichiarazione di Indipendenza è una solida base giuridica per riconoscere qualsiasi trattato internazionale firmato dall’Armenia come incostituzionale e nullo dall’inizio, che potrebbe riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian.
3.2. La Dichiarazione di Almaty del 21 dicembre 1991, che fa riferimento anche al diritto all’autodeterminazione, è una dichiarazione derivata dall’Accordo dell’8 dicembre che ha portato alla creazione della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Questo accordo è stato ratificato dal Consiglio Supremo dell’Armenia il 18 febbraio 1992, con chiare riserve nei confronti della Repubblica del Nagorno-Karabakh:

  • L’articolo 5 è stato integrato con la frase “diritto alla libera autodeterminazione delle nazioni”, ratificando nella seguente versione: “Le parti riconoscono e rispettano il diritto delle nazioni alla libera autodeterminazione, alla reciproca integrità territoriale e all’inviolabilità delle frontiere”.
  • Il punto 10 recita: “Dopo le parole ‘aperte a tutti gli Stati membri dell’URSS’ nell’articolo 13, secondo comma dell’Accordo, aggiungere ‘anche per le ex entità autonome dell’URSS’, che prima dell’adozione della dichiarazione di il Consiglio Supremo dell’URSS sulla cessazione dell’esistenza dell’URSS hanno tenuto un referendum popolare ‘sulla dichiarazione di indipendenza’ e, sulla base di esso, il più alto organo esecutivo dell’entità autonoma si è rivolto alla Comunità degli Stati Indipendenti con una richiesta di adesione l’organizzazione”.

3.3. L’8 luglio 1992, il Consiglio Supremo di Armenia ha adottato una decisione, il cui 2° punto stabilisce: “È inaccettabile che la Repubblica di Armenia consideri qualsiasi documento internazionale o interno con il quale la Repubblica del Nagorno-Karabakh possa essere menzionata come parte dell’Azerbajgian”.
3.4. In altre parole, la Repubblica di Armenia con il suo atto costitutivo, la Dichiarazione di Indipendenza, ha escluso chiaramente e irrevocabilmente ogni possibilità di riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian, e con le decisioni del Consiglio Supremo, che hanno forza di legge, ha stabilito il diritto alla libera autodeterminazione delle nazioni e ha creato una base legale per la possibilità di adesione dell’Artsakh alla CSI, oltre a considerare direttamente inaccettabile qualsiasi documento che indichi lo status dell’Artsakh come parte dell’Azerbajgian. Quindi, l’Armenia può riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbajgian, ma mai con l’inclusione dell’Artsakh o del territorio di 86.600 km2. In questo senso, la dichiarazione odierna di Nikol Pashinyan riguardo alla disponibilità a riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbajgian insieme all’Artsakh è altamente inaccettabile e preoccupante.

4. Per quanto riguarda le giustificazioni non legali, tenendo conto dell’eccezionale importanza dell’Artsakh nella sicurezza, nelle relazioni internazionali, nell’identità e in altri campi dello stato armeno e della nazione armena, è persino superfluo che molti spieghino perché qualsiasi documento e la dichiarazione dell’Armenia che riconosce l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian è inammissibile e inaccettabile. Tratterò i dettagli di questa direzione in altre pubblicazioni. PS E quando mi riferisco alle timide e infondate esortazioni ed espressioni di Michel sui diritti e la sicurezza del popolo dell’Artsakh, a causa del suo uso delle tesi azere, devo chiamarlo “l’ex rappresentante eletto della popolazione degli ex Paesi Bassi meridionali”.
E per la Repubblica di Armenia, le questioni dei diritti e della sicurezza del popolo dell’Artsakh non possono eludere il diritto all’autodeterminazione, che in questo caso è il fulcro del resto dei diritti e persino dell’architettura di sicurezza dell’Artsakh e dell’Armenia.

Il personale militare del contingente di mantenimento della pace russo in Artsakh, insieme all’ONG multinazionale “Siamo uniti”, ha svolto un’azione umanitaria programmata per coincidere con il 78 ° anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica. Nell’ambito della campagna, più di 90 tonnellate di frutta e verdura sono state consegnate a tutti gli alunni delle scuole materne del Nagorno-Karabakh e agli studenti delle scuole Askeran, Martakert, Martuni e Stepanakert. È stato anche dato aiuto ad un orfanotrofio e a ragazze incinte.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Antonia Arslan presenta il nuovo libro in VEZ (Comune Venezia 03.02.23)

Nuovo appuntamento per Indovina chi viene in VEZ?: la nuova ospite del salone letterario della Biblioteca Civica VEZ questa volta sarà Antonia Arslan, famosa scrittrice e saggista italiana di origine armena, che martedì 7 febbraio alle ore 18.00 presenterà il suo nuovo libro Il destino di Aghavnì.

Nel maggio del 1915, subito prima dell’inizio del genocidio degli armeni, in una Piccola Città del centro dell’Anatolia, una ragazza di 23 anni che si chiama Aghavnì, esce di casa con i suoi cari, il giovane marito e i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di due. Nessuno li vedrà mai più. Scompaiono, semplicemente, senza lasciar traccia. Sono stati uccisi? O rapiti? Ma da chi? Nonostante le intense ricerche delle due famiglie, nessuno sembra saperne qualcosa. Poi, anche il loro ricordo sbiadisce fino a scomparire, nell’imperversare dei terribili eventi che iniziano proprio in quei giorni, alla fine di maggio 1915. Da una fotografia di questa sorellina di suo nonno, ritrovata a casa di un cugino in America, Antonia Arslan trae un racconto avventuroso di dolore e di riscatto, di morte e di rinascita, che culmina in uno strano Natale, in un misterioso presepio che diventa un riscatto dei cuori.

L’autrice, vincitrice del Premio Stresa e del Premio Campiello con La masseria delle allodole, diventato film grazie ai fratelli Taviani, e insignita nel 2022 del Premio Comisso alla carriera per scrittori veneti, verrà intervistata da Alessandro Voltolina.

Ingresso libero fino ad esaurimento posti.

INFO www.culturavenezia.it/biblioteche

PADOVA – Dal 30 apprile al 29 maggio 2022 – Mostra  Mistero armeno. Daniel Varujan in poesie e immagini”  opere di SILVIA PAGGIARIN

Mostra 

Mistero armeno. Daniel Varujan in poesie e immagini” 

opere di SILVIA PAGGIARIN

30 aprile -29 maggio 2022 

Sala della Gran Guardia -Piazza dei Signori

Padova 

Orari di apertura

9.30 -12.20 e 16.00-19.00

chiuso il lunedì

 

 

 

 

 

Guerra tra Armenia e Azerbaigian: ecco cosa sta succedendo (Ilprimatonazionale 19.11.21)

Erevan, 18 nov – Mentre un numero imprecisato di armeni sta fuggendo dell’Afghanistan – a bordo degli aerei militari cargo russi che stanno portando in salvo oltre 300 persone dall’odio religioso dei Talebani – lungo il fronte orientale del confine armeno la situazione bellica non sembra tranquillizzarsi. La tensione nel Caucaso, infatti, persiste lungo la linea di contatto tra le forze armene e azerbaigiane dal Gegharkunik al Nagorno Karabakh, fino ad arrivare ai confini con l’Iran, nonostante le misure internazionali precedentemente accordate. L’accordo trilaterale raggiunto da Armenia, Azerbaigian e Russia, il 9 novembre 2020 – al termine della Guerra dei 40 giorni – aveva permesso di fermare lo spargimento di sangue nei territori dell’Artsakh. Tuttavia, rimane ancora molto alta la tensione lungo tutto il confine.

Gli ultimi scontri tra Armenia e Azerbaigian

Lo scorso 16 novembre infatti, l’esercito dell’Azerbaigian, contravvenendo agli accordi ha lanciato un durissimo attacco all’Armenia dal confine orientale. Gli alleati della Turchia hanno schierato sul campo mezzi corazzati, artiglieria pesante e armi di ogni calibro. Decine di soldati sono rimasti uccisi in entrambe le fazioni e alcuni soldati armeni sono stati catturati e malmenati – come dimostrano alcuni video girati dagli stessi soldati azeri – contravvenendo alle leggi internazionali sui diritti umani.

Il primo ministro russo Mikhail Mishustin è atterrato nelle scorse ore nella capitale armena per discutere la questione del Nagorno Karabakh alla riunione del Consiglio intergovernativo eurasiatico. Sempre in queste ore il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, ha sottolineato che l’Azerbaigian ha lanciato un’altra aggressione contro il territorio sovrano dell’Armenia. “Dalla firma della dichiarazione trilaterale, il 9 novembre scorso – ha dichiarato Myrzoyan – la leadership politico-militare dell’Azerbaigian ha minato la sicurezza e la stabilità nelle regioni di confine e gli sforzi dell’Armenia volti a ridurre l’escalation della situazione attraverso azioni provocatorie”.

La posizione dell’Iran

A entrare nella discussione internazionale arriva anche il vicino Iran, confinante a sud con i tre stati in lotta. Il ministro degli Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, si dice preoccupato per le nuove azioni militari al confine tra Armenia e Azerbaigian e ha invitato i due paesi a mostrare moderazione. Il politico sciita ha sottolineato quindi la necessità che i due Paesi rispettino i confini riconosciuti a livello internazionale e li ha esortati a risolvere i problemi attraverso il dialogo con mezzi pacifici, ricordando, ancora una volta, che l’Iran è pronto ad aiutare entrambe le parti a risolvere le controversie e a stabilire la sicurezza nella regione.

Attesa per il consiglio intergovernativo eurasiatico

Sempre in questi giorni si è svolta a Erevan la seduta ristretta del Consiglio intergovernativo eurasiatico, alla quale hanno partecipato il primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan e quelli di Russia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan, oltre al presidente del consiglio di amministrazione della Commissione economica eurasiatica Mikhail Myasnikovich. In primo luogo, il premier armeno ha incontrato i partner degli Stati membri dell’Uee dichiarando nel suo discorso di benvenuto: “Sono lieto di dare il benvenuto al Presidente del Gabinetto dei ministri della Repubblica del Kirghizistan, il rispettoso Akylbek Usenbekovich Japarov, e gli auguro un lavoro fruttuoso nel suo incarico di responsabilità. L’incontro di oggi è per noi un evento molto significativo. Siamo lieti di avere l’opportunità di ricevere ospiti illustri a Yerevan, di tenere una riunione del Consiglio intergovernativo e di contribuire così al rafforzamento della nostra Unione”.

Oggi, 19 novembre, si terrà la seduta ampliata del Consiglio intergovernativo eurasiatico. Augurandoci si possa arrivare anche a una rapida e corretta soluzione della guerra tra Armenia e Azerbaigian nel riconfermare, come sottolineato da Russia e Iran, i confini politici dell’Armenia già sanciti dalla diplomazia internazionale.

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