Come il petrolio si è ingoiato la libertà di stampa (Radiopopolare 04.05.17)

Arzu Geybulla è una giornalista azera che non può più tornare nel suo Paese. Dal 2014 vive in esilio volontario in Turchia, dove scrive per varie testate fra cui Al Jazeera, Open Democracy, Radio Liberty, Osservatorio Balcani e Caucaso e Radio Free Europe. Sempre nel 2014, la BBC l’ha inclusa fra le cento donne più influenti del mondo. L’abbiamo intervistata in occasione del Festival dei Diritti Umani in corso a Milano, di cui è ospite.

“Me ne sono andata per la prima volta nel 2001 per studiare all’università in Turchia, poi sono tornata in Azerbaijan per lavoro, successivamente sono tornata a Istanbul, continuando però a viaggiare in a Azerbaijan e a scriverne come giornalista.

Dal 2014 non posso più tornare in Azerbaijan perché sono stata oggetto di una grande campagna diffamatoria da parte delle autorità azere. Scrivevo della mancanza di libertà di stampa nel mio Paese, tenevo conferenze in giro per il mondo, anche nelle università. Allo stesso tempo a Istanbul collaboravo con una rivista turco-armena e le autorità azere hanno usato proprio questo pretesto per attaccarmi.

I media di stato e quelli vicini al governo mi hanno accusato di tradimento, mi hanno etichettata come ‘traditrice’. Questa campagna diffamatoria ha avuto subito effetto. Ho ricevuto minacce di morte, sono stata insultata, sia a voce sia sui social media. Ero scioccata dal fatto che un sacco di persone che nemmeno mi conoscevano, credessero così facilmente alle accuse delle autorità e scrivessero cose così orribili sui social media.

Così dal 2014 ho deciso di non tornare più in Azerbaijan, non tanto per la paura di essere arrestata, ma per la paura che le autorità non mi avrebbero poi più permesso di ritornare in Turchia, o di lasciare il Paese.

Poi nel 2016, quando pensavo che le acque si stessero calmando, la magistratura nel mio Paese ha avviato un’inchiesta penale contro una testata giornalistica online con cui io collaboravo, scrivendo articoli in inglese. E’ stata resa nota una lista di una quindicina di giornalisti sotto inchiesta e c’era anche il mio nome.

Questa è stata la conferma che non sarei tornata a casa per un bel po’. Così sto vivendo in una sorta di esilio auto-imposto a Istanbul”.

 Qual è la situazione dei giornalisti che sono rimasti a lavorare in Azerbaijan?

“E’ molto difficile: un sacco di giornalisti che sono lì sono soggetti ad intimidazioni e abusi. Solo ieri il manager di una tv online è stato condannato a 30 giorni di detenzione amministrativa con l’accusa di aver resistito alla polizia. Ma secondo il suo avvocato, il motivo del suo arresto era che lui assomiglia a un’altra persona ricercata con cui lui non ha nessuna connessione. Malgrado questo è stato condannato.

Alcuni giorni fa tutte le testate indipendenti che rimangono in Azerbaijan sono state portate in tribunale con l’accusa di incitare proteste, di fare propaganda religiosa. E stiamo parlando di 5-6 testate che erano rimaste indipendenti.

Il governo sta sempre più raffinando la sua strategia. Prima perseguitava i singoli giornalisti con accuse strumentali, come l’evasione fiscale o l’abuso di potere, o cercava di chiudere le testate scomode. Adesso sta emendando alcune leggi e usa queste modifiche contro i giornalisti e i giornali”.

 Il fatto che l’Azerbaijan sia un Paese ricco di petrolio, che impatto ha sulla libertà di stampa e di espressione?

“Il petrolio ha inghiottito la libertà di stampa in Azerbaijan. Il mio Paese ha vaste risorse energetiche ma il governo le usa non a beneficio della popolazione: le usa per suo proprio profitto. C’è un’enorme corruzione nel Paese, e questo porta al fatto che se non hai soldi o non sei vicino al governo non puoi fare molto e non puoi neppure criticare.

Penso che davvero il petrolio abbia danneggiato la libertà di espressione e soppresso tutto quello che avrebbe potuto fiorire in termini di libertà di stampa in Azerbaijan, comprese le sacche di libertà che resistevano nel mio Paese.”

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Quando la stampa non è libera. Intervista alla giornalista Arzu Geybulla (Altreconomia 04.05.17)

Video-intervista ad Arzu Geybulla, attivista, blogger e giornalista costretta a lasciare l’Azerbaijan, suo Paese natale, per l’attività giornalistica che ha condotto. “Tra i governi in silenzio anche quello italiano”. È stata ospite del Festival dei Diritti Umani di Milano nella Giornata mondiale della libertà di stampa

Arzu Geybulla non può più tornare nel suo Paese, l’Azerbaijan. La sua colpa è la sua professione: giornalista. Nel 2014 è cominciata una campagna diffamatoria “ben orchestrata” contro di lei, poco più che trentenne. Traditrice, asservita all’invasore, alleata dei detestati armeni. Una sua collaborazione con un giornale turco-armeno è stata infatti presa a pretesto dalle autorità governative del Paese guidato dal 2003 da Ilham Aliyev per poterle far terra bruciata intorno.

Il resto l’hanno fatto i social network, canale che le ha attirato molestie sessuali e minacce di morte, e intimidazioni ricorrenti a danno suo e della sua famiglia

Non è rimasta sola, sebbene i Paesi europei -a cominciare dall’Italia- preferiscano ancora gli interessi commerciali (e di approvvigionamento di risorse) al rispetto dei diritti umani, com’è anche quello della libertà di stampa. Il suo curriculum reca collaborazioni con Al Jazeera, Open Democracy, Eurasianet, Foreign Policy Democracy Lab, Radio Free Europe Radio Liberty, Meydan TV, Osservatorio Balcani e Caucaso e Global Voices. Nel 2014 ha beneficiato della Vaclav Havel Journalism Fellowship per la Radio Free Europe/Radio Liberty. E nello stesso anno, la BBC l’ha inclusa tra le 100 donne più influenti al mondo. Da Istanbul, dove vive, sta scrivendo un libro sui giovani azeri. Non tornerà a casa, dove manager televisivi, blogger e giornalisti finiscono in carcere -se ne contano oltre 12 al momento-.

 

L’abbiamo incontrata il 3 maggio, Giornata mondiale della libertà di stampa, alla Triennale di Milano, ospite del Festival dei Diritti Umani –organizzato da Reset-Diritti Umani, un’associazione non profit- giunto alla sua seconda edizione e che quest’anno dura fino al 7 maggio (qui il programma completo).


Italia-Azerbaigian: 25 anni di ottime relazioni (Il Giornale 03.05.17)

La visita, a fine Aprile, del Ministro degli Esteri dell’Azerbaigian, Elmar Mammadyarov, non ha rivestito una particolare importanza solo perché proprio quest’anno cade il 25° anniversario delle relazioni diplomatiche fra Roma e Baku, ma anche, anzi soprattutto, perché tali relazioni rivestono, oggi, un particolare rilievo strategico sia sotto il profilo economico che sotto quello più squisitamente politico.

Passato e presente convivono a Baku, capitale dell’Azerbaigian

Infatti in questi anni di rapporti sempre improntati alla cooperazione, Italia ed Azerbaigian hanno costruito sia un fitto intreccio di scambi e interessi che sempre più le hanno avvicinate, sia un’ancora più importante mutua comprensione culturale che potrà rivestire notevole importanza nel prossimo futuro.

Baku guarda all’Italia con molto interesse per molteplici ragioni. Il nostro paese è infatti una “vetrina culturale” di rilievo mondiale. Un aspetto che non andrebbe – come troppo spesso purtroppo avviene – trascurato, visto che costituisce il nerbo di quel Soft Power con il quale l’Italia può esercitare un ruolo importante sulla scena geopolitica mondiale. E proprio la significativa presenza dell’Azerbaigian alla Biennale di Venezia di quest’anno, con due mostre – curate da Emin Mammadov e Martin Roth – lo sta a dimostrare. La giovane repubblica azera infatti mira a far meglio conoscere a livello internazionale la propria cultura e storia, che sono la chiave di volta per comprendere una realtà complessa, un paese costituito da un mosaico stratificato di popoli e civiltà che si fonda sul principio di coesistenza e tolleranza culturale e religiosa.

Inoltre Italia ed Azerbaigian sono paesi accomunati dal comune legame vitale con la regione euro-mediterranea, essendo – sia sotto il profilo geografico che sotto quello storico – il Caucaso Meridionale il bastione orientale di questa, come dimostrano già gli antichi miti greci. Un legame che si va sempre più intensificando visto che l’Azerbaigian non è solo un grande produttore di gas e petrolio, ma anche uno snodo strategico della Via della Seta 2.0, quel fitto tessuto di strade, reti ferroviarie, pipeline e reti multimediali che sta innervando tutto il Sud della regione eurasiatica e che dovrebbe costituire il cuore di una nuova “area di prosperità e commerci” che si estenda dalla Cina sino alle nostre coste.

Di qui l’importanza di un progetto come quello della Trans Adriatic Pipeline che dovrebbe veicolare nel prossimo futuro il gas dei giacimenti azeri sino alla nostra Puglia. Un progetto strategico non solo per rifornire di energia il nostro sistema industriale – e che, per inciso, potrebbe rappresentare una grande occasione di rilancio per il Mezzogiorno – ma anche perché farebbe dell’Italia un hub strategico per la distribuzione del gas in tutta l’Europa meridionale. Permettendoci, quindi, il salto da semplice paese importatore – e quindi dipendente – a paese distributore, con importanti ricadute non solo sul piano economico, ma anche su quello politico all’interno della Ue. E non è appunto un caso che proprio contro la TAP si muovano, adducendo ragioni speciose e sventolando il vessillo di un dubbio ambientalismo, molte forze dietro alle quali, però, si possono intravvedere occhiuti interessi internazionali che vorrebbero continuare a tenere l’Italia in una condizione di subalternità. Va inoltre rilevato come l’Azerbaigian abbia prescelto come terminale e distributore del suo gas proprio il nostro paese in forza di un, ormai profondo, legame diplomatico e culturale, pur avendo di fronte proposte alternativa.

Infine agli occhi di Baku riveste un rilievo importantissimo il fatto che Roma assumerà per il 2018 la presidenza della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). L’Italia ha infatti sempre assunto – in tutte le sedi – una posizione sulla tormentata questione del Nagorno-Karabakh favorevole ad una mediazione internazionale tale da ristabilire la pace nella regione caucasica. Una mediazione che contemperasse le garanzie per la minoranza armena del Nagorno-Karabakh con la salvaguardia della sovranità azera sulle province attualmente occupate dalle forze armate della Repubblica di Armenia. Una soluzione mediata, equilibrata, esente dalla pressione di lobby internazionali, con il preciso obiettivo umanitario di permettere ad oltre un milione di profughi azeri di tornare nelle loro case, e con quello più squisitamente geopolitico di spegnere un pericoloso focolaio di tensioni e conflitti in una regione strategica per gli equilibri mondiali quale è il Caucaso. Posizione, purtroppo, sempre inascoltata nel Gruppo di Minsk, il comitato internazionale deputato a cercare di dirimere la questione del Nagorno-Karabakh, e di fatto incapace di qualsiasi azione anche solo propositiva. E questo per le complesse dinamiche di una co-presidenza del Gruppo rivestita da Washington, Mosca e Parigi. Ovvio, quindi, che l’Italia in una posizione di rilievo come la presidenza dell’OSCE possa esercitare, finalmente, una più forte “persuasione morale” anche su questa tormentata questione. È questo, naturalmente, quello che si spera a Baku; ed anche quello che potrebbe contribuire ad un forte rilancio del ruolo del nostro paese sulla scena della grande politica internazionale.

Andrea Marcigliano
Senior fellow del think tank di studi geopolitici “Il Nodo di Gordio