CULTURA: L’Armenia di Antonia Arslan, dopo il successo della Masseria delle allodole (East Journal 14.01.17)

La voce di Antonia Arslan è prima di tutto quella di una scrittrice, non di uno storico, un accademico – per quanto insegni letteratura italiana presso l’università di Padova – o un attivista. È una scrittrice – principalmente nota per La masseria delle allodole (ed. Rizzoli, 2004) – che si definisce “100% italiana e 100% armena” e che sente su di sé il dovere della memoria, della testimonianza verso la storia della propria famiglia e del proprio popolo.

Lo stesso senso del dovere che dovettero sentire le due donne, fortunate superstiti del genocidio, che nel 1915 portarono in salvo l’importantissimo “Libro – o Omiliario – di Mush”, reperto medievale (datato 1202), eletto a tesoro della cultura armena. La storia del recupero dell’imponente testo – alto un metro e pesante quasi 30 kg – è stata, non a caso, soggetto per l’omonimo libro della Arslan (Il libro di Mush, ed. Skira, 2012).

Il manoscritto miniaturato è una raccolta di omelie commissionata da un ricco mercante al monastero di Avakvank, che andò prima rubato durante l’invasione mongola e poi riacquistato a caro prezzo dai monaci del Monastero della valle di Mush. Nel 1915 l’armata turca, reduce della sconfitta nel Caucaso contro i russi, sfogò la rabbia sui villaggi armeni della valle, dando alle fiamme anche il monastero. Si salvarono due donne che, ritrovando intatto il “libro di Mush”, decisero di portarlo con sé – dividendolo in due per l’imponente peso – oltre i monti del Caucaso: oggi è conservato a Yerevan.

L’idea, la stessa di Antonia Arslan, era quella di “salvare almeno la cultura armena”. Ma non solo quella armena. Infatti, accanto agli armeni nei libri della scrittrice compaiono sempre personaggi greci, verso i quali si sente ugualmente debitrice: “si parla sempre di genocidio degli armeni, ma ci si dimentica che assieme ad essi vennero eliminati anche gli assiri (o siriaci) e i greci del Ponto (sul Mar Nero) e che invece il milione di greci che viveva sulle sponde dell’Egeo venne costretto ad andarsene in Grecia, dove non venne affatto accolto con ospitalità”.

L’ultimo libro di Antonia Arslan, Lettera a una ragazza in Turchia (ed. Rizzoli, 2016), come i precendenti, raccoglie le voci e le storie che l’autrice sentì in infanzia, soprattutto quella del nonno paterno, e vari documenti cercati e collezionati; eppure, è forse il libro che più degli altri si vuole ricollegare al presente. La cornice “epistolare” all’interno della quale si inseriscono i racconti suggerisce un interesse al dialogo con la Turchia di oggi. “L’orizzonte per il singolo in Turchia si sta rapidamente oscurando” afferma la Arslan con preoccupazione.

La scelta di scrivere fittiziamente ad una “ragazza in Turchia”, piuttosto che ad una “ragazza turca”, va in questa direzione. “La Turchia di Erdogan si sta orientando sempre più verso un’ideologia nazionalista e monoetnica, mentre la realtà è che la gente che vive oggi in Turchia, come in qualsiasi altra parte del mondo, è il più lontano possibile dall’appartenere ad una sola etnia”.

Non è solo il nazionalismo a preoccupare la scrittrice, ma anche la deriva autoritaria del governo: si parla, infatti, ormai di presidenzialismo (ne abbiamo parlato qui); inoltre, quest’anno la terza forza in parlamento è stata privata dell’immunità parlamentare. Anche sul golpe di luglio la Arslan ha qualche riserva: “non può essere stato un tentativo sovversivo reale, poiché il giorno successivo erano già pronte le liste delle persone da incarcerare”.

Non dimentica anche la questione femminile sull’uso del velo in università: “ora è stato revocato il divieto di portare il velo in università, ma da qui all’introduzione dell’obbligo di portarlo il passo è breve”. Ricorda infine il destino del suo best seller La masseria delle allodole in Turchia: “il libro è stato tradotto in 22 lingue, 23 se si considera quella turca, che è stata stampata, ma a cui non è mai stato dato il permesso di circolare sul mercato; l’editore è ora in esilio in Svezia e la sua fabbrica è stata ripetutamente oggetto di devastazioni da parte di individui non bene identificati”.

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