Dopo il “sofagate” nessuna buona notizia (Carmillaonline 02.05.21)

Sono passate ormai poche settimane dal “sofagate” del Bosforo connotate da un incredibile carico di polemiche: dalla dissertazione infinita sui protocolli diplomatici, alle raffinate interpretazioni dei giornalisti nostrani sulle variabili del pensiero islamico che riguardano la condizione della donna e la situazione dei diritti umani nelle moderne società mediorientali.

Tuttavia una sottile e invincibile speranza ci aveva indotti a pensare che si sarebbe parlato con più severità del presidente Recep Tayyip Erdoğan, anche in virtù della coraggiosa quanto “mirabile” definizione del nostro primo ministro Mario Draghi riguardo al satrapo turco: “un dittatore con il quale si è costretti a dialogare”. Sono bastate poche ore perché tutto tacesse, incredibilmente e inesorabilmente. Nessuno più sottolinea che poche settimane fa la Turchia ha deciso di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul, che aveva come piattaforma di confronto “la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. Pochi ricordano che, dopo il deprecabile tentativo di colpo di stato del luglio del 2016, Recep Tayyip Erdoğan ha instaurato, con leggi emergenziali e rastrellamenti degni di una dittatura sudamericana, un sistema di incarcerazioni, torture e condanne a morte di migliaia di persone. Come la Storia più volte ci ha mostrato, in periodi di disordine o transizione politica, si assiste a una recrudescenza delle restrizioni e delle persecuzioni nei confronti dei dissidenti e degli oppositori politici. Il pretesto viene spesso ricercato in un’azione violenta o in una condizione sopravvenuta di forte contrapposizione sociale e politica per sentirsi legittimati ad attuare qualsiasi crimine nei confronti dei dissidenti, legittimando in questo modo le proprie azioni seppur compiute al di fuori delle leggi dello Stato e aggirando, all’occorrenza, anche i diritti umani delle persone. In Turchia lo sforzo governativo repressivo nei confronti della dissidenza si è caratterizzato piuttosto in una azione normalizzatrice, indirizzata allo spegnimento di un qualsiasi barlume di reazione alle misure autoritarie in ogni campo del sapere e nella quotidianità della vita civile dei cittadini.  Seppur estranei al tentativo di golpe, molte persone sono state colpite con una sistematica strategia del terrore con mezzi da squadrismo fascista. Negli ultimi mesi sono finiti dietro le sbarre i vertici di associazioni umanitarie come Amnesty International, schiere di giornalisti dissenzienti (più di 160), circa cinquemila magistrati, molti dei quali non si sono piegati alle imposizioni del regime; alcuni di loro sono stati dichiarati colpevoli per aver rivendicato processi giusti in cui le persone potessero almeno difendersi dalle accuse con strumenti e garanzie eque.

In questi giorni sono sotto processo 17 dipendenti del quotidiano “Cumhuriyet”, un giornale di opposizione i cui giornalisti rischiano pene gravissime per terrorismo. I presunti “terroristi” sono amministratori e avvocati del quotidiano, editorialisti, corrispondenti, giornalisti accreditati. Nei mesi scorsi il gruppo musicale Yorum, fondato nel 1985, ha subito la morte di tre dei suoi componenti; tutti sono stati imprigionati nelle carceri turche perché accusati di essere esponenti della sinistra radicale, nonché di essere elementi pericolosi per la sicurezza pubblica. I primi a morire per uno sciopero della fame erano stati i due cantanti: la giovane Helin Bölek e Mustafa Koçak, che si rifiutavano di mangiare da circa 300 giorni. Il terzo a spegnersi lentamente e drammaticamente è stato İbrahim Gökçek. I musicisti erano stati accusati di collaborare con il “Fronte rivoluzionario della liberazione popolare”, una formazione politica di estrema sinistra tacciata come organizzazione terroristica. Già dal 2002, comprovando l’ossessione del regime turco nei confronti del Grup Yorum, vennero arrestate due donne: la cantante Selma Altin e la violinista Ezgi Dilanm. Le due furono torturate e picchiate ripetutamente dal momento dell’arresto, addirittura nelle autovetture delle forze speciali, dove alla prima fu rotto il timpano per le percosse sul volto, alla seconda le fu fratturato il braccio per non consentirle più di esibirsi in spettacoli musicali. Alle due veniva contestato il reato di aver chiesto, insieme ad altri 25 attivisti, la restituzione del corpo di un manifestante ucciso dalla polizia dopo un attacco a una questura del quartiere Gazi.

Da circa due anni con un’azione bellica definita cinicamente “Sorgente di luce”, le forze armate turche coadiuvate da altri elementi provenienti dalla galassia dell’integralismo islamico (dopo le vicende della guerra civile in Siria) e da gruppi di combattenti inquadrati come mercenari, hanno dato vita a un’operazione di invasione bellica e territoriale ai danni delle popolazioni curde al nord della Siria. Questa deriva criminale è una insopportabile violazione territoriale e una profanazione di luoghi in cui antichissime popolazioni vivono da millenni. L’obiettivo principale del dittatore “necessario” Recep Tayyip Erdoğan è la cancellazione, in quei luoghi, delle esperienze di autodeterminazione come modello di governo. Non è assolutamente marginale ricordare che la sete di espansionismo dei turchi non si è arrestata neppure dopo le condanne internazionali ai crimini del passato, gravissimi, ricordati come eccidi e genocidi a carico delle popolazioni armene verso cui si nutre un odio senza fine. La discriminazione delle etnie in territorio anatolico è un elemento quasi normale anche nei confronti delle minoranze religiose cristiane.

Dopo l’insediamento di Joe Biden, qualcosa sembra essere cambiato nel senso che il presidente americano ha dichiarato di riconoscere il genocidio perpetrato ai danni del popolo armeno, in un discorso che si è tenuto nel 106° anniversario dello sterminio nei territori dell’Impero Ottomano avvenuto nel 1915, quando furono massacrati secondo le stime degli storici circa un milione e mezzo di civili armeni. La scrittrice di origini armene Antonia Arslan ben chiarisce questa nuova dinamica: “È un passo importante […]. Gli altri presidenti americani non lo hanno mai fatto. Hanno usato sempre altre espressioni, ‘massacro’, ‘sterminio’, il termine armeno Metz Yeghern, ‘grande crimine’. Tranne Ronald Reagan, che una volta l’ha usata ma non nella occasione ufficiale del 24 aprile. Anche Barack Obama se n’era guardato bene, anche se aveva fatto l’errore di prometterlo in campagna elettorale alla comunità armena d’America, che sono un milione e mezzo di persone belle robuste”. […] “La parola genocidio come sappiamo è inventata di recente da un ebreo, Raphael Lemkin, che si riferiva non solo alla Shoah, di cui la sua famiglia è stata vittima, ma anche alla tragedia armena. Lemkin studiava il caso armeno dal 1921, il che denota chiaramente che alcuni intellettuali ebrei avevano capito la pericolosità di quello che era successo agli armeni già in tempi non sospetti. Biden usando questa parola, ne conosce le implicazioni”. Le implicazioni sono gravissime perché il genocidio è un crimine che non ha prescrizione ed è sanzionato dalle Nazioni Unite dalla dichiarazione del 1948. Pochi danno peso al conflitto in atto fra Armenia e Azerbaijan, in questo momento in una fase di stallo solo per un cessate il fuoco. La questione è che la politica estera di Erdoğan è guidata da una idea espansionistica neo-ottomana, come già asserito da storici e intellettuali turchi non oppositori del regime. Infatti in questo conflitto è in ballo una connessione territoriale con l’Armenia che il despota turco vorrebbe dividere per avere facile accesso in territorio azero fino ai confini con le repubbliche islamiche dell’Asia centrale, dove si cercano nuovi approdi e alleanze. Tutto questo sembra monitorato dai russi che storicamente sono alleati e protettori degli armeni e comunque guardano con sospetto questa invadenza turca sullo scenario internazionale.

Sono ancora vive nelle nostre menti le raccapriccianti e disumane immagini del corpo martoriato di Hevrin Khalaf. La donna di origini curde venne uccisa circa un anno fa da miliziani jihadisti legati alle forze di occupazione turche in territorio nord-siriano: la giovane curda era un’attivista per i diritti umani e di genere e segretaria generale del Partito del futuro siriano (Future Syria Party). La lotta contro l’autodeterminazione delle donne è uno dei target del governo di Erdoğan, sempre attento e preoccupato alla questione femminile, evidentemente percepita come elemento di instabilità sociale e politica. Un anno fa avevano fatto discutere le parole della massima autorità islamica della Turchia, assecondate e rafforzate dal presidente Erdoğan in persona, che recitava la possibilità concreta dell’omosessualità a “generare malattie” e “provocare un decadimento della discendenza”, legando questa presunta problematica alle diffuse forme di adulterio e di diffusione dell’HIV. Contro questa deriva, ancora una, contro i diritti umani delle persone, si era schierato l’ordine degli avvocati di Ankara, delle associazioni Lgbt e della comunità gay. Ancora una volta Erdoğan non si è smentito, andando in televisione e rivelando che “quel che ha detto il responsabile della Presidenza per gli affari religiosi è assolutamente giusto per chi si ritiene essere musulmano”. Tanto è bastato per l’apertura di un’inchiesta contro l’ordine degli avvocati perché si sono macchiati di una grave colpa: “offesa ai valori religiosi adottati da una parte della popolazione”.

Dopo 238 giorni di sciopero della fame nelle famigerate carceri turche è morta nell’ultima settimana di aprile Ebru Timtik. La giovane avvocata turca e attivista per i diritti umani era stata incarcerata perché condannata a 13 anni con l’accusa di terrorismo. È evidente che il fonema terrorismo per i “burocrati del Male” turchi assume un significato che comprende infinite e imperscrutabili variabili. Ebru Timtik aveva scelto lo sciopero della fame come protesta dal febbraio dell’anno scorso, alimentandosi solo con acqua zuccherata e vitamine, cercando inutilmente ascolto e appoggio nella rivendicazione di un processo equo. Infatti proprio insieme al collega e condannato Aytac Unsal, in sciopero della fame, la donna faceva parte dell’associazione contemporanea degli avvocati, particolarmente sensibile alla difesa di casi che riguardano i diritti umani delle persone. I due avvocati sono stati accusati di essere attivisti dell’organizzazione marxista-leninista radicale Dhkp-C. In questo quadro però, a Timtik non veniva perdonata la sua attività di difesa nei confronti della famiglia di Berkin Elvan: un giovane minorenne morto dopo il ferimento nella repressione delle proteste di Gezi Park nel 2013. Dopo la pronuncia del tribunale di Istanbul e della Corte Costituzionale in merito alla scarcerazione della donna, le sue condizioni si erano aggravate ed era stata trasferita in ospedale al fine di evitare il peggio. La sua morte sembra essere stata inutile. Il feretro dopo aver lasciato il Consiglio di medicina legale di Istanbul si è diretto verso il foro della città. Prima di giungere a destinazione senza che venisse concesso il permesso alla propria famiglia della donna di seguire il percorso sono scoppiati violenti tafferugli con la polizia dove la folla, che voleva omaggiarla, ha dovuto subire una dura repressione.

Come riportato da qualche attento analista su alcune pagine dei giornali, l’aspetto più paradossale e kafkiano del sistema giudiziario turco è che, nella maggior parte dei casi, il difensore dell’imputato finisce in carcere con le stesse accuse di chi si vuol difendere. Una mostruosità in termini di giurisprudenza e della tutela dei diritti umani. Una situazione ai limiti della sopportazione se si pensa che vi è una sovrapposizione fra mandato difensivo e accuse del proprio assistito. Il sistema giudiziario turco e quello carcerario rappresentano una variante medioevale in termini di diritto che getta il Paese in una agghiacciante condizione di progressiva persecuzione e tortura verso chi dissente. Deve far riflettere quanto il sistema giudiziario sia sottomesso a quello esecutivo, quanto le stesse istituzioni di diritto vengano violate dall’arresto di avvocati e giudici “recalcitranti”, giornalisti, musicisti, persone che orbitano nel mondo dell’arte e della cultura, studenti e oppositori che subiscono continuamente tortura anche per le pene detentive propinate prima del processo.

Questo stato di cose viene sapientemente orchestrato dalle autorità mantenendo nell’ambiguità la definizione di “organizzazione terroristica armata”, la tutela della sicurezza dello stato, l’appartenenza a “gruppi illegali” che metterebbero in pericolo l’ordine costituito, tanto da determinare l’interpretazione più o meno ampia dei pubblici ministeri e dei giudici nei confronti degli accusati. Dunque le presunte violazioni vanno “naturalmente” a colpire giudici e avvocati che, sottoposti ad attenta analisi circa le loro ideologie e gli aspetti che riguardano i propri valori giuridici, subiscono le stesse restrizioni riservate ai presunti colpevoli, difesi o giudicati all’occorrenza. L’esempio più eclatante consiste nell’inversione dell’onere della prova per coloro i quali vengono accusati di essere responsabili di reati connessi al terrorismo in violazione al principio di presunzione di innocenza. L’elenco delle violazioni ai più elementari valori del diritto è così ricco di variabili che necessiterebbe una possente azione di condanna e protesta della comunità internazionale ai crimini di stato che, in Turchia, sono sempre più numerosi. Non bastano i rapporti di organizzazioni internazionali come quello della Commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa del febbraio 2020: in questo documento si sottolinea “l’erosione e la violazione dell’indipendenza della magistratura e l’ineffettività dei rimedi dinanzi alla Corte costituzionale turca a garanzia dei diritti fondamentali”. Nel 2016 dopo la deriva del colpo di stato in un rapporto delle Nazioni Unite si poneva l’accento soprattutto sull’aumento della durata delle detenzioni; ciò avveniva addirittura prima della formalizzazione delle accuse e si denunciava il controllo e la registrazione da parte della polizia dei colloqui fra detenuti e difensori, nonché la possibilità per le stesse autorità di arrestare il difensore. Alle stesse conclusioni giungeva il “Progress report” del 2019, cioè il rapporto della Commissione che ogni anno descrive “i punti di progresso” nei negoziati fra l’UE e i paesi candidati a farne parte.

Una deriva autoritaria che desta una preoccupazione senza eguali perché la Turchia è attore principale di una serie di azioni di destabilizzazione dell’intera area mediterranea. Nessuna buona notizia dalla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan.

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