Dura prova per gli armeni del Nagorno-Karabakh (Osservatore Romano 27.01.23)

Dal 12 dicembre è in corso un blocco quasi integrale del Corridoio di Lachin, unica strada che collega la regione con l’Armenia
di Valerio Palombaro
Il blocco di un’arteria vitale per i rifornimenti di beni essenziali a detta degli armeni; una manifestazione ambientalista pacifica per fermare le attività minerarie illegali nel Nagorno-Karabakh a detta degli azeri. Le posizioni delle parti su quanto sta avvenendo nel Corridoio di Lachin, unica striscia di territorio che collega l’Armenia con il Nagorno-Karabakh, non potrebbero essere più diverse e sono cartina di tornasole del perdurare di una situazione precaria dal punto di vista della sicurezza in questa regione tra le montagne del Caucaso.
Da quasi 50 giorni – ovvero dal 12 dicembre quando un gruppo di cittadini azeri, presentatisi come militanti ecologisti, ha creato un presidio fisso che supervisiona gli spostamenti lungo il Corridoio di Lachin – i circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabakh avvertono una condizione di assedio e la loro vita si fa di giorno in giorno più dura.
«Il blocco de facto del Corridoio di Lachin è una violazione dell’accordo tripartito sul cessate il fuoco firmato nel novembre 2020 da Armenia, Azerbaigian e Russia», dichiara al nostro giornale il giornalista armeno Marut Vanyan, al telefono da Stepanakert, capoluogo della comunità armena nel Nagorno-Karabakh. «Ogni giorno centinaia di tonnellate di cargo dall’Armenia entravano nel Nagorno-Karabakh lungo il Corridoio, una strada montuosa di circa 30 chilometri, che collega la città armena di Goris con Stepanakert. Ma con il blocco tutto questo si è fermato. I negozi di frutta e verdura hanno chiuso, e c’è una grave carenza di medicinali e altri beni vitali», afferma Vanyan, secondo cui le farmacie vendono solo un’aspirina alla volta per dare a tutti l’opportunità di averla.
Il giornalista armeno ammette che alcuni generi alimentari e medicine arrivano nel Nagorno-Karabakh tramite i convogli della Croce rossa internazionale e i peacekeeper russi, che in base agli accordi del 2020 controllano la situazione nel Corridoio di Lachin, «ma si tratta di un ammontare limitato rispetto alle esigenze degli abitanti. (?)I supermercati non hanno i prodotti più semplici, dallo zucchero al grano saraceno, non c’è detersivo in polvere, in sintesi tutto quello che serve nella quotidianità. E gli asili sono stati chiusi per la mancanza di cibo», spiega il giornalista, secondo cui per la chiusura del Corridoio di Lachin «ci sono stati casi di persone morte e la cui salma non è stata fatta transitare da Erevan al Nagorno-Karabakh per dare loro una sepoltura vicino ai parenti».
Quanto sta avvenendo rappresenta l’ultima pagina di una lunga storia di sofferenza nella regione ed è conseguenza del conflitto “congelato” mai del tutto risolto, che ha visto nella guerra dei 44 giorni nel 2020 l’ultimo episodio cruento con circa 7.000 vittime. L’esito di quest’ultimo conflitto è stato molto netto: basti pensare che la fine della “guerra patriottica” dei 44 giorni tra il settembre e il novembre 2020 viene celebrato in Azerbaigian come il “giorno della vittoria”. Una festa nazionale per Baku che, dopo circa 30 anni, considera ripristinata l’integrità territoriale del Paese grazie alla “liberazione” dei sette distretti adiacenti al Nagorno-Karabakh, inclusa la città di Shusha ritenuta “culla” della storia e della cultura azera. L’Azerbaigian ha ripreso così possesso dei distretti adiacenti al Nagorno-Karabakh, conquistati dall’Armenia nel conflitto sorto all’indomani della dissoluzione dell’Urss, mentre in base agli accordi del novembre 2020 nella regione sono stati dispiegati 1.960 peacekeeper russi. Una presenza di una durata prevista di cinque anni, ovvero fino al 2025, che potrà essere prolungata di altri cinque anni se nessuna delle parti presenterà obiezioni.
Dall’altra parte migliaia di armeni del Nagorno-Karabakh hanno trovato rifugio in Armenia dopo l’ultimo conflitto e coloro che sono rimasti sono sempre più “arroccati” attorno al capoluogo Stepanakert. La definizione dello status di questi territori, dove oggi vivono gli armeni, rimane una questione aperta su cui Erevan e Baku dovrebbero negoziare per poter giungere a un trattato di pace complessivo. L’Azerbaigian, oggi più forte dal punto di vista diplomatico e militare, ha dalla sua anche il fatto che il Nagorno-Karabakh, pur essendo abitato in prevalenza da armeni, non ha mai avuto alcun riconoscimento a livello internazionale.
Nel freddo di Stepanakert, intanto, la vita prosegue tra le incertezze più basilari come riguardo l’elettricità e il riscaldamento. «Ci sono circa quattro ore di energia elettrica al giorno. In alcuni momenti la città piomba nel buio e le persone camminano per le strade facendosi luce con i telefoni cellulari», afferma Vanyan. «A causa della mancanza di elettricità molte imprese hanno chiuso e migliaia di persone hanno perso il loro lavoro. Tutte le infrastrutture passano attraverso il territorio sotto controllo dell’Azerbaigian per cui regolarmente ci sono “incidenti” con le linee elettriche, i cavi internet e le forniture di gas. E non permettono agli armeni di avvicinarsi per riparare il problema».
La situazione nella regione è anche frutto del più ampio contesto geopolitico. Per l’Armenia è al momento difficile trovare un alleato in grado di sostituire la Russia. L’Ue si mostra sempre più attiva negli sforzi di mediazione e ha deciso proprio nei giorni scorsi l’invio di una missione civile in Armenia, che sarà dispiegata nei pressi del confine con l’Azerbaigian (non nel Nagorno-Karabakh). Ma la stessa Ue si trova in una posizione piuttosto delicata: alla ricerca di partner energetici che possano sostituire la Russia, da anni ha avviato una solida partnership con l’Azerbaigian da cui riceve il gas naturale del Caspio attraverso il gasdotto Transadriatico (Tap).
E così gli armeni del Nagorno-Karabakh appaiono sempre più isolati. «Non siamo nati per soffrire, ma vogliamo vivere una vita degna nelle nostre case — conclude il giornalista armeno. Ci sono persone che pensano di emigrare. Comunque, nell’attuale situazione non è nemmeno possibile emigrare, in quanto l’unica strada per la popolazione (verso l’Armenia) è chiusa. I cittadini sono semplicemente privati della loro libertà di movimento, anche se questa è una delle libertà più basiche se la compariamo con le violazioni di altri diritti. Dobbiamo essere onesti, nessuno oggi vuole vivere una vita difficile».
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