Enciclopedia armena (yanezmagazine 16.01.20)

“I’m Armenian, but is the first time I come here”. Il benvenuto in questa terra mi arriva così, venato di paradosso, ancora prima di toccare terra, sul volo Aeroflot che plana lentamente verso l’Aeroporto Internazionale Zvartnots alle porte di Yerevan, la capitale. Il giovane compagno di viaggio è un ingegnere cresciuto quasi tutta la sua vita in Olanda, che nella sua terra di origine dice di non avere nemmeno una lontana famiglia da incontrare, ma solo un “collega di lavoro”, da visitare. Una chiacchierata breve e sonnacchiosa dopo la classica notte in dormiveglia per carenza di spazio per le gambe, mentre l’oblò alle sue spalle risplende della luce di un sole caldo e secco.

In basso, scorrono veloci le grandi torri fumanti della centrale nucleare di Metsamor, che da sola fornisce un terzo dell’energia elettrica consumata dall’intero Paese. Tutto intorno, una landa stepposa, fra il giallo e l’arancione, interrotta da antichi coni vulcanici erosi, ed una miriade di piccoli paesi che si infittiscono fino a diventare rioni e borgate di una enorme periferia.

Lo scambio di battute col mio vicino di posto non potrebbe fornire una sintesi migliore sulle vicissitudini tormentate di questo popolo attraverso i secoli.
La diaspora armena è tra quelle di dimensioni più consistenti al mondo relativamente alle dimensioni demografiche del Paese di origine, sia per numero di emigrati che per discendenti. In tutto il mondo si contano dai 7 ai 10 milioni di armeni, a seconda di quante generazioni vengano incluse nel calcolo, a fronte di un Paese di appena 3 milioni di abitanti odierni. Le comunità di gran lunga maggiori si trovano in Russia (tra 1,2 e 2 milioni) Stati Uniti (tra i 500.00 ed il milione) e Francia (250-750.000). Ma oltre a quelle degli espatriati, vi sono anche minoranze ancestrali nelle vicine Georgia e Iran (almeno 200.000 in entrambi i Paesi), figlie di ere storiche lontane che videro nell’Armenia un prospero regno delle montagne strategicamente situato a cavallo della Via della Seta, e molto più esteso dello Stato attuale.

Il primo assaggio con l’arte di arrangiarsi trasformata in imprenditorialità che caratterizza questa terra mi attende subito fuori dall’aeroporto. È una domenica mattina di ottobre e l’alta stagione turistica è già praticamente conclusa, nonostante il caldo secco che imperversa. Ad attendere i pochi viaggiatori in arrivo c’è una fila di minibus  da 8-12 posti, con gli autieri fuori a consumare avidamente sigarette. La scarsità di trasporti pubblici, unita alle asperità del territorio armeno ed alla espansione disordinata della capitale, ha generato un’enorme domanda di questi piccoli trasportatori privati. Diffusisi in buona parte dell’ex URSS e comunemente noti come marshrutkas, in Armenia si caratterizzano per il biglietto inesistente: i 300 dram (Euro 0,55) dovuti al conducente si pagano direttamente in mano all’autista alla salita, possibilmente in piccolo taglio onde evitare problemi con il resto.

Il piccolo veicolo, quasi vuoto al momento della partenza, sobbalza tra buche e traffico nelle strade periferiche sotto la guida a dir poco sportiva del conducente, che però da queste parti è nella norma, sia per l’esperienza degli autisti su strade dallo stato non eccelso, sia per le velleità di guida diffuse imputabili alla motorizzazione di massa recente. Il marshrutka si riempie rapidamente di altri passeggeri lungo la strada. Anziani, uomini e donne di mezza età diretti in centro a fare compere e giovani con zaino e auricolari con musica hip hop. I passeggeri rimasti in piedi si aggrappano alle prese sul soffitto per non cadere durante le curve.

Fuori dal finestrino, scorrono rapidi i panorami urbani di una metropoli dove si susseguono sintomi di esplosione di benessere, povertà di mezzi, vita stagnante e lavoro frenetico. Suv e jeep di grossa cilindrata pilotati da nerboruti uomini in occhiali da sole, si affiancano a vecchie Lada, (l’equivalente delle nostre Fiat 128 di epoca sovietica) bianco sbiadito, coi motori scoppiettanti, gli scappamenti arrugginiti e piene fino all’orlo di famiglie, a volte col montacarichi sul tettuccio zeppi di oggetti e mobilia in trasferta. Enormi cartelloni pubblicitari, lucidissimi uffici immobiliari, concessionari di auto e negozi di elettronica, a volte in piena attività a volte mai finiti o vuoti, spartiscono il primo piano dal finestrino con botteghe di altri tempi, negozi diroccati, minuscoli fruttivendoli annegati nel caos e nello smog, e paninari di strada presi d’assalto da autisti di altri marshrutkas o impiegati in pausa.

 

Yerevan ©Federico Giamperoli

 

Quella che si attraversa è una città ingigantita a tappe forzate e caotiche tra gli anni ‘20 e ‘60, sia per accogliere il flusso di armeni espulsi o fuggiti dalla Turchia e dal resto del Medio Oriente, sia per incamerare quanta più forza lavoro possibile da impiegare nei grandi kombinat dell’industria di Stato di allora. Al momento del primo censimento sovietico, nel 1926, Yerevan contava meno di 70.000 abitanti, che raggiunsero i 200.000 alla vigilia della seconda guerra mondiale. Nel 1991, al momento dell’indipendenza, aveva superato il milione e 200.000, una moltiplicazione per venti in soli 70 anni.

La grande emigrazione verso l’estero seguita al crollo dell’URSS ha riportato la città intorno al milione di abitanti nel 2001: da allora la capitale è in ripresa esclusivamente grazie alla migrazione interna dalle altre aree del Paese. L’ultimo dato disponibile le assegna in via ufficiale 1.100.000 abitanti, anche se l’intera conurbazione ammonterebbe a circa un milione e mezzo di persone. Praticamente metà dell’intera Armenia vive in questo agglomerato, il quale, con l’eccezione di alcune aree minerarie e dei siti turistici sparsi per il Paese, è anche l’unico grande motore dell’economia.

La prima impressione è quella di un vero e proprio “Mezzogiorno” postsovietico. Nonostante la crescita urbana di Yerevan sia avvenuta per quattro quinti sotto l’URSS, i grandi alveari abitativi dell’epoca rispecchiano davvero poco la pianificazione urbanistica schematica e ferrea che si incontra a Berlino Est, Mosca o Varsavia risalente allo stesso periodo. Casermoni e prefabbricati si affiancano l’un l’altro con poca regolarità, a volte anche con un numero di piani diversi, e facciate decadenti intonacate dal rosa sbiadito della pietra tufacea locale. Il tutto si alterna con rioni di case poverissime, rattoppate con tetti in lamiera e murature tirate in piedi manualmente e sovrastate da fili elettrici ingarbugliati su pali di legno. E case nuovissime, a volte vere e proprie villette, ed altre parallelepipedi di vetro e cemento, in ogni caso abbastanza pacchiani, figli del nuovo boom edilizio seguito alla ripresa economica dei primi anni ‘2000. Tutto mescolato e senza soluzioni di continuità; non si ha quasi mai il sentore di una città dove ricchi e poveri vivano segregati in aree diverse, come in molte metropoli dei Paesi in via di sviluppo.

Il Kentron, il centro cittadino di Yerevan, è un’area molto ridotta rispetto al resto della città, ma densamente popolata, circa 120.000 abitanti. È delimitato dal resto della metropoli verso sud-est da una doppia circonvallazione inframezzata da un’area a parchi, e verso nord-ovest dalla gola del fiume Hradzan, con una forma che potrebbe essere quella di un quadrato e di un cerchio fusi tra loro.

Un’irregolarità geografica che prosegue nella struttura viaria, dove la distribuzione a centuriazione di parte delle strade prevale solo nella parte settentrionale del centro, dove si trovano anche due cardi: Sayat Nova Avenue, che prosegue verso nord di fronte al Parlamento col nome del Maresciallo armeno-sovietico Baghramyan, e Via Tumanyan. Il decumano, Mesrop Mashtots Avenue, attraversa in diagonale la parte in salita di tutto il centro cittadino fino al Ponte della Vittoria, dal quale si risale verso lo stadio e il Memoriale del Genocidio.

 

©Federico Giamperoli

 

Il punto di incontro tra le due avenues è la grande Piazza della Libertà, dove si erge il mastodontico Teatro dell’Opera cittadino, costruito ad inizio degli anni ‘30, e che rappresenta un inedito mix tra forme neoclassiche ed il grigio e pesante monumentalismo sovietico. Dalla piazza si apre poi un parco-passeggiata che risale lungo il colle sovrastante con la gigantesca Yerevan Cascade. Costruita in parte in epoca sovietica e poi completata negli anni ‘2000, è una scalinata lunga mezzo chilometro al centro della quale si aprono diversi piani di vaste fontane attorniate aiuole di fiori e piante e da esposizioni artistiche provvisorie e permanenti, e dalla quale si gode la visuale su tutto il centro cittadino ed anche parte del resto della metropoli.

Al culmine della collina, oltre la circonvallazione, si innalza la gigantesca statua di Madre Armenia, una scultura femminile con in mano una spada personificante il Paese e la sua orgogliosa lotta per l’esistenza, innalzata nel 1967 al posto dell’altrettanto grande statua di Stalin eretta sul luogo, abbattuta cinque anni prima. Durante la demolizione, un soldato dell’Armata Rossa morì investito dal crollo e diversi furono feriti; un fatto che suscita tutt’oggi un black humor tutto locale sulla capacità del dittatore di uccidere da fantasma chi attenta alla sua megalomania anche ad anni dalla sua morte. Incluso il basamento, il monumento odierno è alto 45 metri.

Di tutt’altra forma e impostazione è la parte meridionale del centro, complice la concentrazione in questa zona di molti edifici governativi sia di epoca sovietica che recenti. La grande Piazza della Repubblica è un ovoidale viario circondato da imponenti palazzi amministrativi a semicerchio realizzati negli anni ‘30 e ‘50, e dall’elegante edificio del ricchissimo Museo di Storia Armena.

Dalla grande piazza, tra il Ministero della Giustizia e la Banca Centrale, si apre la strada verso occidente l’inizio di una lunghissima promenade che inizia con un parco intitolato a Vazgen Sargysan. Si trattava del leader politico-militare protagonista della guerra contro l’Azerbaijan negli anni ‘90, e che fu ucciso nel 1999, poco dopo essere stato eletto Primo Ministro, in un drammatico attacco armato al Parlamento avvenuto in circostanze tuttora poco chiare.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

La passeggiata è completata da una lunghissima serie di fontane, inaugurata all’inizio del 2019 per celebrare i 2.800 anni della fondazione della città. Yerevan vanta infatti origini storiche di trent’anni più antiche di Roma, anche se l’agglomerato odierno si sviluppò solo successivamente in un’area molto diversa dalla città antica, il cui nucleo sorse nel VIII Secolo a.C sulla collina di Erebuni, oggi alla periferia meridionale. Il lungo susseguirsi di fiotti d’acqua, dai getti artisticamente alternati e illuminati all’imbrunire, termina ai confini occidentali del Kentron in un’altra piazza ai piedi della Torre dell’Orologio dell’Assemblea comunale, nei cui paraggi si trova anche l’imponente Ambasciata russa.

L’idillio monumentale, però, finisce qui. Al di fuori delle grandi arterie, il Kentron si presenta agli occhi dell’osservatore come un paradossale e densissimo microcosmo che riassume gli enormi contrasti sociali della città, se non dell’intera Armenia. Attorno a statue e palazzi del potere, anche in questo quartiere si ergono aree residenziali povere e al limite del derelitto, edifici commerciali, abitativi e amministrativi di inizio ‘900 ed eleganti ricostruzioni recenti, che iniziano timidamente a riflettere una maggiore sensibilità per la preservazione storica ed estetica. Ma per la maggior parte, il nuovo che avanza è invece un monumento all’opulenza mista a cattivo gusto post-moderno, complice la volontà dei recenti governi e amministrazioni locali di fare piazza pulita dell’antico e aprire la strada ad un centro cittadino a misura di soli benestanti. Un modus operandi che sta trasformando la lotta tra conservazione e gentrificazione in una guerra.

Nel 2002-2007, lo spazio incluso tra Piazza della Libertà ed il suo Teatro e Piazza della Repubblica è stato protagonista di un vero e proprio sventramento, degno di essere paragonato a quello degli anni ‘30 a Roma con Via dei Fori Imperiali. Decine di isolati di case ed edifici storici sono stati espropriati e demoliti. Al loro posto, è stata costruita una lunga via pedonale, battezzata Northern Avenue, destinata a collegare le due piazze e attorniata da edifici di 9-12 piani per appartamenti di lusso realizzati in tufo, basalto, travertino e granito.

Anche se indubbiamente prospettica e meritevole di aver dato i natali alla prima arteria stradale solo pedonale della città, il risultato visivo nel quale ci si imbatte è una squallida e desolata sequenza di edifici giallo-sabbia e rosa, con pochissime persone a passeggio sul suo percorso, complice i pochi negozi extra-lusso che occupano i piani terra. Una scopiazzatura in salsa locale di una Dubai o una Doha, che ha innescato un acceso movimento di protesta quando lo schema di distruzione-ricostruzione si è ripresentato.

Nel 2012, l’inizio dei lavori intorno al Parco Mesrop Mashtots, incrociato dall’omonima grande arteria nella parte occidentale del Kentron, scatenò durissime proteste, culminate in violenti scontri tra manifestanti e polizia quando le autorità locali decisero lo sgombero dei mercatini di strada che affollavano l’area.

Anche in questo caso, la retorica benevolente del progetto ha visto la sua nemesi nella realtà della sua attuazione. Questo lungo e stretto parco, realizzato in epoca sovietica assieme ad una contigua area residenziale e decorato con grandi fontane, doveva essere prolungato fino a collegare Piazza della Repubblica con il vecchio palazzo delle Poste, creando un percorso pedonale spartitraffico quasi continuo tra il nuovo centro amministrativo e l’area settentrionale del Kentron, povera e popolare.

 

Yerevan Kentron Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Quello che si materializza davanti ai miei occhi è però un vuoto cosmico urbano. Le vecchie fontane sono sparite. Il verde del parco è in buona parte scomparso per fare posto ad una passeggiata coperta volta ad ospitare ristoranti e caffè, dove però buona parte dei locali è rimasto invenduto e pochissime persone calcano lo spazio pedonale, nonostante sia una domenica calda e dal cielo terso.

Tutto intorno al rettilineo, le vecchie case dei residenti sono state sostituite da una coltre di nuovi condomini, anonimi e senza alcuna aderenza al paesaggio circostante. Solo scendendo verso la grande piazza, il giardino mantiene la sua forma ed è ancora frequentato dai famiglie e bambini; ma gli edifici di primo ‘900 prospicienti abbandonati e i cantieri che avanzano lasciano poco sperare sul destino di questa area.

Voltando le spalle a questo recente campo di battaglia, risalgo verso nord la ripida collina affacciata sulla gola del fiume, lasciandomi alle spalle l’ancora attivo ma decrepito palazzo delle Poste di fattura sovietica, e mi imbatto in una cortina di casermoni anche più scrostati, con una selva di panni stesi alle finestre e tetti gonfiati da allargamenti abusivi di appartamenti sotto le tegole. Appena oltre questo spettacolo vagamente simile ai Quartieri Spagnoli di Napoli, mi imbatto letteralmente in un’altra dimensione spazio-temporale: il rione di Kond, una delle aree più datate della città odierna.

 

yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

L’evoluzione di questo fitto garbuglio di stradine, piccole botteghe, scantinati e casupole è uno specchio della tragica storia armena dell’ultimo mezzo millennio. Kond, che in armeno significa “lunga collina”, sorse assieme alle aree di Shahar e Demir-Bulagh tra il XVI ed il XVII Secolo come il primo nucleo della nuova città, dopo il declino dell’antico insediamento di Erebuni, situato diversi km più a sud.

All’inizio del ‘600 l’area era solo villaggio rurale sorto a ridosso di un antico monastero nei pressi del fortilizio costruito dai turchi ottomani dopo la conquista del 1582. La riconquista persiana avvenuta venti anni più tardi spinse nel villaggio une vera ondata di profughi, in fuga dalle deportazioni di massa degli Armeni e Tatari verso la Persia ordinate dal re Abbas I. Ma nel secolo successivo, le continue guerre tra Persia e Turchi-Ottomani videro la futura capitale passare di mano almeno altre dieci volte, concentrando verso la collina, protetta dalla gola ad ansa del fiume Hrazdan, nuove e continue ondate di fuggiaschi dalle campagne circostanti.

Il risultato fu che al momento della conquista di Yerevan da parte della Russia zarista, avvenuta nel 1827, Kond era un concentrato multiculturale più unico che raro. Il censimento russo del 1830, registrò come residenti circa 1.200 armeni, 2.500 tatari, 400 persiani 200 turchi e 200 Bosha, gli zingari armeni. Una convivenza tra culture, lingue ed etnie diverse stretta tra strade e vicoli minuscoli; sul cielo della collina troneggiavano assieme il campanile rosso arenaria della Chiesa di San Giovanni Battista – tutt’ora esistente – e le cupole della moschea sciita di Thapha Bashi, entrambe ricostruite assieme a buona parte del quartiere tra fine ‘600 e inizio ‘700 dopo il devastante terremoto del 1679.

Kond era divenuto un baluardo di resistenza spontanea dell’umanità più umile contro tutti gli odi e i settarismi che la Storia stava infliggendo a questa terra. Un grumo di vicoli confuso e caotico ma cementato dalla necessità della gente comune di sopravvivere al cambio di dominatori e bandiere anche al di là dell’appartenenza etnica o confessionale, nonostante tutto si svolgesse in un’epoca di indigenza, violenza e ignoranza.

Ma questo equilibrio non sopravvisse ai traumi del XX Secolo. Il genocidio armeno del 1915 e lo stabilimento della Repubblica Sovietica, videro l’area invasa dai fuggiaschi dello sterminio, mentre la popolazione musulmana persiana e tatara lasciò il quartiere diretta in Azerbaijan o in Iran.

L’escalation di casermoni consumatasi durante la caotica esplosione della città in epoca sovietica circondò di palazzine la zona, ma curiosamente senza riuscire ad aggredirla del tutto. Nel 1979 le autorità riallocarono circa 500 abitanti nelle nuove costruzioni per demolire la parte del rione a picco sulla gola del fiume e costruirci un grande albergo destinato ad accogliere un improbabile afflusso turistico dal resto dell’URSS. Un primo accenno di gentrificazione, dal quale oggi sta partendo l’assalto definitivo dei nuovi costruttori e speculatori edilizi verso il resto del borgo.

Il vecchio albergo sta ora venendo ricostruito ed inglobato in un mastodontico centro congressi e casinò, improbabilmente affacciato sulle povere casupole che ancora resistono sulla cima della collina. Tra i vicoli di Kond, i suoi tetti in lamiera le sue ultime botteghe di artigiani, sempre più rare e abbandonate, il cielo visibile è ora sbarrato dalle nuove torri in costruzione.

Un contrasto degno delle borgate romane raccontate da Pasolini, travolte dalla cementificazione del boom post-bellico. Il destino di questo storico rione è a tutt’oggi incerto, sospeso tra le necessità di emanciparlo dalla povertà dei mezzi, e la volontà da più parti espressa di preservarne la sua anima così caratteristica.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Il primo dei miei viaggi lontano da Yerevan mi porta al grande Lago Sevan ed ai due monasteri di Sevanavank e Hayravank, che si innalzano scenicamente sulla sua superficie rispettivamente da una penisola ed un promontorio.

A guidare l’eterogenea comitiva composta, oltre al sottoscritto, da tedeschi, inglesi, indiani e cinesi, è un robusto e taciturno autista che parla solo russo e armeno, come quasi tutti al di fuori della capitale. E soprattutto c’è Shushan, la nostra guida. È una giovane neo-laureata in informatica che mette da parte risparmi con questo impiego stagionale, sperando un giorno di poterli usare per volare verso una specializzazione o un impiego nell’high tech in occidente, o per affittare una casa, se il riscatto si realizzasse nella capitale.

Non è una scelta tra alternative velleitarie. Shushan è una ragazza che ama il suo Paese e fa capire chiaramente di voler restare, o ritornare quando le opportunità lo consentano se dovesse partire. Si è impegnata in prima persona per migliorare le cose, militando nei movimenti di opposizione al lungo governo del Presidente Serzh Sargsyan, in carica per undici anni e poi spodestato dalle proteste di piazza nell’aprile 2018, dopo che la vittoria del suo Partito Repubblicano alle elezioni di un anno prima è finita sotto accusa per voto di scambio e brogli.

Come buona parte dell’ex URSS, anche l’Armenia ha avuto il suo lungo periodo di “democratura”, un sistema formalmente democratico e costituzionale, ma viziato e dirottato in favore di un mono-partito de facto da clientelismi, oligarchie economiche, a volte apertamente criminali, spostatori di voti e corruzione. Shushan ha iniziato il suo impegno candidandosi come scrutatrice elettorale, negli anni nei quali la macchina dei voti comprati e venduti era a pieno regime, e svolgere questo ruolo era un rischio anche per la propria incolumità.

“La prima volta che feci la scrutatrice fu durante il referendum costituzionale del 2015”. Un voto con il quale Sargsyan riuscì a far approvare una modifica costituzionale che gli consentì di candidarsi a Premier dopo due mandati da Presidente della Repubblica. “Dovetti farlo in segreto dalla mia famiglia”, prosegue Shushan, “che me lo avrebbe impedito per proteggermi da intimidazioni e aggressioni. E svolsi questo compito in una circoscrizione elettorale in periferia. A Yerevan le cose andavano ancora relativamente bene: me la cavai con insulti e minacce da parte di gente arrivata con certificati elettorali falsi, e i poliziotti di guardia al seggio che non facevano nulla. Ho amici che fecero gli scrutatori fuori da Yerevan e si trovarono pacchi di voti già infilati nelle urne all’apertura mattutina dei seggi, con la sorveglianza che li obbligava a conteggiarli.”

Il sorriso con il quale racconta questi episodi è quello di una timida vincitrice, che però non giudica tutto il cambiamento in corso come positivo. “Il nuovo governo ha migliorato le leggi contro la corruzione, ampliato la quota di cure mediche coperte dalla sanità pubblica” – ancora nel 2015 l’armeno “medio” pagava di tasca propria il 70% di tutte le spese mediche – “e messo limiti alla proliferazione dell’industria del gioco d’azzardo, che negli anni scorsi ha fatto dell’Armenia un luogo piuttosto gettonato dal riciclaggio. È anche incoraggiante la ripresa delle trattative con l’Europa per gli scambi commerciali e una maggiore apertura delle frontiere, interrotti nel 2013 da Sargsyan in favore dell’Unione doganale con la Russia”.

Ma la riforma fiscale approvata nel giugno scorso non suscita nella nostra guida e in diversi suoi coetanei lo stesso entusiasmo. “Il governo ha deciso di varare una tassazione piatta uguale per tutti sul reddito delle persone fisiche. In molti siamo stati delusi da questa mossa, soprattutto considerato che siamo già un Paese dove la distanza tra chi ha e chi non ha è già molto alta”.

Anche Shushan, come molti armeni, è di una famiglia emigrata a Yerevan da una cittadina di provincia. Sia le sue origini che il suo lavoro di guida la mettono continuamente a contatto con l’abisso che lo sviluppo economico recente dell’Armenia, per quanto più che benvenuto dopo anni di depressione, sta scavando tra la capitale ed il resto del Paese. Centro nevralgico di una nazione in larga parte isolata dalla geografia e da confini politici chiusi – come vedremo in seguito- Yerevan ed il suo Kentron stanno srotolando da anni tappeti rossi all’indirizzo dell’industria dei servizi informatici e del software, per agganciare il boom globale apparentemente senza fine della new/gig economy. Proprio nei giorni in cui mi trovo in Armenia, in un nuovo centro congressi costruito appena dietro il Memoriale del Genocidio, si svolge un grande convegno internazionale dell’informatica, con fior fiore di dirigenti di aziende del settore da tutto il mondo.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Quasi tutti questi investimenti, per le ovvie necessità di infrastrutture ed educazione, si concentrano nel centro della capitale, una dinamica che sta separando la popolazione per reddito, educazione usi quotidiani e perfino dentro i tratti somatici. Nelle arterie del Kentron si incontrano nuovi giovani professionisti, donne eleganti e bellissime, nuovi hipster – in ritardo di 20 anni rispetto a quelli berlinesi – che lavorano negli ostelli mentre studiano e la sera affollano una miriade di locali hip hop e rock aperti in vecchi scantinati riadattati. La vita notturna nel centro di Yerevan è attivissima, con traffico e locali aperti anche per buona parte della notte, in un’atmosfera vagamente simile a quella di molti grandi centri abitati del Mediterraneo.

A pochi chilometri da qui, c’è un Paese dove le anziane ancora si coprono la testa coi foulard anche per stare sull’uscio di casa, uomini di 30 o 40 anni hanno le fattezze di persone di 10 o 15 anni più anziane, corrosi nel viso e nel corpo dallo sforzo del lavoro manuale e all’aperto in estati secche ed inverni gelidi, oltre che dal troppo vino e sigarette di pessima qualità. E le donne della stessa età invecchiano precocemente sotto il peso di più di una gravidanza portata a termine prima dei 25 – 30 anni. In questo posto dal clima difficile e dalle risorse scarse, educazione e qualità della vita conseguente si stampano sul fisico come un marchio e fanno davvero la differenza.

A parte l’impatto visivo, per chi viene da fuori la linea di faglia è sempre la possibilità di parlare o meno in inglese. Fuori da Yerevan ci si ritrova spesso a dover comunicare per monosillabi e gesti, a meno di non conoscere il russo. Insegnato come materia scolastica fino a dopo il crollo dell’URSS, ed ora lentamente soppiantato dall’inglese, la lingua del vecchio impero rimane comunque un esperanto insostituibile quando si deve comunicare – per viaggi o affari – con gli abitanti delle altre repubbliche caucasiche o centro-asiatiche.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Shushan mi dice che nel fine settimana lavorerà alla reception dell’evento al centro congressi, un’ottima occasione per seminare il suo curriculum vitae di neolaureata informatica per gli stand di aziende estere. Anche trovare un impiego in una filiale locale non sarebbe un vantaggio trascurabile; l’information technology armena ed i suoi 25.000 dipendenti concentrati nella capitale godono di uno stipendio medio per dipendente tre/quattro volte superiore a quello medio nazionale.

Senza contare che anch’essa è un’illusione statistica al rialzo, in quanto agricoltura e piccolo commercio, seppure attività in proprio, spesso nel resto del Paese sono a livelli poco oltre la sussistenza. La pastorizia, anche se ha il plus ultra della lana, può essere non molto più redditizia, come testimonia il ragazzino al pascolo con le pecore e un bastone ricavato da un ramo in mano che vedo scorrere in questo momento dal finestrino. Pochi minuti dopo, l’orizzonte brullo di questa steppa di alta montagna, che qui è la normale altitudine alla quale si vive, si infrange su una linea bordata azzurra rilucente.

Il Lago Sevan è un vero e proprio piccolo mare interno. Coi suoi 1.240 Km quadrati di distesa, è la più grande riserva di acqua dolce dell’intero Caucaso, nonché una delle più in alta quota dell’intera Eurasia, 1.890 metri sopra il livello del mare. Il lago copre da solo quasi un ventesimo della superficie dell’intera Armenia. Dall’alto dei promontori che lo sovrastano, sotto il sole cocente di montagna, è una tavola in lontananza scintillante ed immensa, progressivamente più blu e poi azzurra man mano che lo sguardo si avvicina al primo piano e alle rive.

L’elevata altitudine che lo circonda lo fa assomigliare ad una oasi umida nel bel mezzo di un deserto, anche se quelle che lo circondano sono le ambe brulle dell’alta quota. I contrafforti montuosi che chiudono lo specchio d’acqua a nord e ad est sembrano quasi fortificare il suo orizzonte, o almeno la parte che ne risulta visibile. Verso occidente e meridione, invece, le forme delle montagne si addolciscono e si incurvano, tradendo le antiche origini vulcaniche di molte di queste vette.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Per quanto suoni incredibile, anche questo mastodonte acqueo della natura non molto tempo fa ha rischiato di soccombere all’avidità dell’utilizzo umano, coadiuvata dall’ingegneria social-ambientale dell’era di Stalin. Tra il 1933 ed il 1949, l’Unione Sovietica tentò di sfruttare indiscriminatamente le acque del lago per scopi idroelettrici e di irrigazione. Il letto del fiume Hrazdan, che è il principale emissario del lago, fu scavato e approfondito per aumentare la portata delle acque emesse dal lago e creare ben sei bacini idroelettrici lungo il suo corso. La portata del fiume fu poi ulteriormente gonfiata da un tunnel di fuga delle acque scavato 40 metri sotto la superficie del lago.

Una volta completata questa seconda opera, il bacino naturale iniziò a perdere circa un metro di profondità all’anno. Solo nel 1962, dopo che il lago aveva perso quasi 15 metri di profondità su 98 in totale, e 150 Km quadrati della sua estensione, le autorità si resero conto di avere arrecato un danno potenzialmente fatale all’esistenza stessa del bacino. Le acque si stavano imputridendo e vaste parti delle rive impaludando, vanificando anche il loro potenziale di utilizzo agricolo e domestico, mentre l’ecosistema del bacino rischiava lo sterminio per asfissia. Il Sevan rischiava di fare la stessa fine del Mare d’Aral.

Il governo sovietico corse ai ripari, ed ordinò l’apertura di un secondo cantiere di senso opposto alle finalità del primo: tra il 1964 ed il 1981 dal lago artificiale di Kechut, alimentato dalle acque del fiume Arpa, venne costruito un tunnel di quasi 50 km di lunghezza per rimpolpare le acque del Sevan. Solo per scoprire pochi anni più tardi che non solo il livello delle acque non stava aumentando quanto previsto, ma la stessa riserva di Kechut rischiava a sua volta il prosciugamento. Nel 1983 il governo sovietico avviò dunque la costruzione di un secondo tunnel dalla riserva idrica artificiale di Spandarian, sul fiume Vorotan, da collegare al primo tunnel per aumentarne del 50% l’afflusso. L’opera fu però interrotta nel 1988 dal terremoto che colpì il nord dell’Armenia e dall’escalation del conflitto col vicino Azerbaidjan. I lavori furono ripresi solo oltre un decennio più tardi, e portati a termine nel 2004. Da allora, il Sevan ha recuperato circa 5 metri di profondità, anche se per recuperarne altri 5 sarà necessario attendere il 2030, riscaldamento globale permettendo.

Il risultato di questi rubinetti giganti manipolati dall’uomo è perfettamente visibile a chi arriva presso il monastero di Sevanavank. Costruito nel IX Secolo sull’unica isola del Lago, è oggi raggiungibile dalle orde di turisti (assieme al monastero di Khor Virap è la più nota meta del Paese) attraverso un istmo umido e alberato, che è emerso solo negli anni ‘50 con il prosciugamento di parte del bacino.

Sevanavank e Hayravank mi regalano il primo impatto con l’architettura, così tipica e singolare, dei monasteri apostolici armeni. L’impressione è quella di una religiosità austera e severa, figlia innanzitutto di un fiorire di luoghi di culto tra i più antichi dell’intera cristianità. Ma anche di lunghi secoli di oblio e rinascite, e della necessità di celarli agli invasori in luoghi isolati e difendibili.
L’impatto visivo è suffragato in pieno dal retroterra storico. L’Armenia è stato di fatto il primo Paese ufficialmente cristiano al mondo, cioè da quando nel 301 d.C. il re Tridate III, in precedenza persecutore del culto, si convertì al cristianesimo e lo adottò come religione di Stato, oltre 80 anni prima dell’Impero Romano, del quale il regno armeno era uno stretto alleato.

L’architettura monastica armena è forse il primo esempio di canone di costruzione religioso “nazionale”, o comunque affine ad una specifica cultura geograficamente localizzata. I monasteri sono edifici compatti, dove abside e navate sono annegati e raccolti sotto una cupola appuntita e conica, nella quale diversi studiosi hanno visto una affinità con la forma conica del Monte Ararat. Sono edifici solitamente non troppo estesi; le basiliche vere e proprie sono rare e per lo più frutto di ricostruzioni ed allargamenti tardo-medievali o moderni, come accaduto alla Cattedrale Madre di Echimiadzin, la città sacra del Paese e capitale ecclesiastica.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

La pietra di costruzione, tra i centinaia di edifici sparsi per il Paese, si divide tra l’arenaria rosa-arancio ed il basalto, entrambi di antica origina vulcanica. L’interno dei monasteri è un colpo d’occhio rispetto al paesaggio circostante, e viceversa. Quasi tutti i più belli e noti edifici di culto sono localizzati nel bel mezzo di una natura selvaggia o quantomeno spettacolare, come questo istmo sul Lago Sevan, picchi di colline scoscese, valli e cime montuose rocciose e ripide, come il monastero di Noravank o quello di Tatev.

Secoli di invasioni e saccheggi hanno spinto gli armeni a realizzare questa miriade di meraviglie in luoghi facili da fortificare e difendere con le armi. Molti monasteri sono circondati da piccole cinte murarie dove la popolazione delle campagne si rifugiava col bestiame ed il frutto dei raccolti in caso di minaccia. Luoghi spesso difficili da raggiungere anche coi mezzi di trasporto odierni, ma illuminati dal sole e bagnati dall’aria frizzante di montagna.

Appena varcata la loro soglia, si piomba in un’oscurità, rischiarata solo dalle finestre a fessura e dai candelabri delle offerte votive, che il più delle volte sono niente altro che bacili metallici di cera sciolta, con le candele fissate sul fondo. La tiepida luce illumina incisioni e iscrizioni antichissime e grezze lasciate sulle pareti, a volte assieme a motivi naturali o simboli di famiglie reali che finanziarono la realizzazione del monastero. Non vi sono affreschi o dipinti di alcun tipo sulle pareti, a parte alcuni ritratti religiosi sull’altare, adottati prevalentemente in epoca moderna.

La strada che costeggia il Sevan da Sevanavank a Hayravank e poi prosegue verso la sponda meridionale è un susseguirsi di improvvisati ed a volte improbabili camping, piccoli resort, qualche accenno di villetta – tutti più o meno recenti – ed almeno tre veri e propri ecomostri alberghieri di epoca sovietica abbandonati. L’URSS tentò inutilmente di fare della riva occidentale del lago una destinazione turistica per la Nomenklatura, e non solo. Sulla penisola dei monasteri di Sevanavank è possibile osservare tutt’oggi la “Casa dello Scrittore”, un edificio avanguardista costruito negli anni ‘30 e poi ricostruito negli anni ‘60 in senso modernista, destinato ad ospitare gli autori sovietici di allora per aiutarli a trovare l’ispirazione per le loro penne.

Anche questa piccola perla di storia architettonica è oggi chiusa, mentre negli ultimi 10-15 anni il lungolago è stato invaso da un piccolo boom turistico locale di seconda mano. Sulla guida in inglese, è addirittura sconsigliato ai turisti di recarvisi per via delle notti in bianco assicurate da musica ad alto volume, consumo abbondante di alcool e affini. Vi si menziona anche, non senza una punta di ironia, che gli stessi benestanti armeni evitano accuratamente l’area per le loro vacanze estive, prediligendo la vicina Georgia ed il Mar Nero, mentre i prezzi stracciati calamitano sul posto turisti di poca spesa anche dalla Russia.

Lasciando alle spalle i monasteri e le spiagge, la strada procede dentro un altopiano brullo e rialzato rispetto alla superficie del lago, dove il paesaggio roccioso muta gradualmente in una prateria secca. Al centro di questo luogo spazzato dal vento, sorge una cittadina di 7.000 anime, chiamata Noraduz. È un centro abitato di origini antichissime, come dimostrato dai resti di un rudimentale fortilizio risalente all’età del bronzo rinvenuto su una collina nei pressi del villaggio, ma abitato continuativamente solo dall’alto medioevo.

Questo piccolo agglomerato perso nella steppa è però noto per un altra ragione: è considerato universalmente come la capitale dei khachkar, le caratteristiche lapidi funerarie armene, finemente lavorate e scolpite con motivi naturali e religiosi. Il cimitero monumentale di Noraduz è il più grande dell’Armenia, con circa 1.000 lapidi di ogni dimensione sparse su una superficie di sette ettari. È anche uno dei più antichi tuttora in utilizzo: le lapidi più antiche risalgono al X Secolo.

Armenia Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Le khachkar, come tutta l’architettura religiosa armena, sono divise nella pietra di realizzazione tra basaltiche e arenariche, anche se tra le più recenti non mancano casi di pietre granitiche. La maggior parte delle lapidi annovera un grande crocifisso al suo centro, attorniato da motivi finemente scolpiti e che di solito raffigurano piante, animali e piccoli riferimenti religiosi.

In questo grande cimitero spazzato da folate di vento di alta montagna, non mancano però le tombe che descrivono la vita delle persone alle quali sono dedicate, come una raffigurante una cerimonia nuziale del XIII Secolo. E ci sono anche descrizioni tragicomiche della morte del defunto, come una del XII Secolo dove la famiglia non si è fatta scrupoli di tramandare ai posteri che il congiunto è deceduto morto da un serpente mentre pescava nel Sevan di notte dopo aver bevuto troppo vino.

Né mancano tombe attorno alle quali aleggiano vere e proprie leggende, come quella del monaco Karapet Hovhanesi. Un devoto servitore dei defunti del villaggio nel XIX Secolo, che si narra si sia fatto seppellire vivo dal fratello una volta raggiunti i 90 anni di età, pregandolo di onorare la sua memoria lavandosi sulla tomba, facendo in mille pezzi la brocca dell’acqua, e lasciandoli sul sepolcro. La popolazione del villaggio continua a rispettare le volontà del monaco, versando acqua, vino e birra sulla tomba e lasciandolo coperto di cocci di bottiglie.

All’uscita del cimitero, davanti ad una grande tomba contemporanea, un folto gruppo di uomini vestiti di nero allestisce un grande tavolo per un banchetto in piena regola, mentre altri compari scaricano da un furgone grandi damigiane di vino. Shushan ci spiega che si tratta di un modo di onorare il defunto che viene regolarmente celebrato a 48 giorni dalla sua dipartita dal mondo terreno.

Sono gli unici uomini in età adulta che scorgo per le strade del paese, e presto scopriamo anche il perchè. Nella gita è infatti incluso anche un abbondante pranzo come ospiti nella casa di un abitante del luogo. È una iniziativa che diversi tour operator stanno adottando, per portare i proventi del turismo in aree dove il visitatore straniero è solo di passaggio e non vi sono alberghi e ostelli dove soggiornare. Ad ospitarci è una dinamica donna sui 40 anni, che gestisce assieme ad altre coetanee la piccola bottega di chincaglieria che si trova subito fuori dal cimitero monumentale.

La sua bassa casina di campagna, appena entrati, rivela un pavimento lucidissimo, un grande divano pouf, una TV maxischermo e un lussuoso mobile con ante a vetro che racchiudono porcellane e candelabri in ottone. Il marito della signora che ci ospita, come quasi tutti gli uomini e le donne non sposate del paese, è emigrato da anni a lavorare in Russia. Il denaro che spedisce a casa, unite ai guadagni di questa singolare attività turistica, consentono alla nostra allegra ospitante di condurre una vita particolarmente agiata, per questo angolo di prateria dimenticato. Il resto di Noraduz, vive quasi esclusivamente delle rimesse degli emigrati. L’intera economia armena, ne dipende tutt’oggi per il 13% delle sue dimensioni.

La diaspora di Noraduz, come il mio compagno di viaggio notturno in aereo, appartiene all’ultima ondata di emigrazione armena: la grande fuga verificatasi dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’indipendenza del 1990-91, che però trascinò con sé la crisi irreversibile dell’industria pesante metallurgica, meccanica e chimica sulla quale di basava quasi tutta l’occupazione del Paese. Definirla grande fuga non è un eufemismo. Nel 1991, il primo censimento nazionale registrò 3 milioni e 600.000 abitanti. Nel 2018, la popolazione dell’Armenia ammontava a meno di tre milioni di persone, un calo del 17% in un quarto di secolo.

Una cifra che peraltro sottostima le reali dimensioni del fenomeno migratorio, in quanto la diminuzione si verificò nonostante un saldo demografico positivo di 400.000 individui. Inclusi i quali, l’esodo degli armeni fuori dai loro confini nell’ultimo trentennio ammonta a quasi un milione di persone, praticamente un quarto della popolazione vivente nata nella piccola repubblica. Eppure, anche questa ondata di emigranti è solo l’ultimo capitolo di una saga iniziata da secoli. E per la maggior parte, dai contorni tragici, come mi appresto a scoprire.

La mattina del giorno successivo, a Yerevan, una lunga camminata fuori dal centro cittadino mi porta oltre il grande Ponte della Vittoria sul fiume Hrazdan, e poi su una lunga strada in salita che costeggia oltre alla gola del fiume anche il vecchio stadio cittadino. In cima al crinale che sovrasta quasi tutta la città, dopo una lunghissima gradinata, scorgo un enorme obelisco affusolato e una conca artificiale in cemento attorniata da grandi pareti inclinate, al centro della quale, brucia in continuazione una fiamma circondata da fiori deposti.
Eccomi al grande Memoriale del Genocidio Armeno, consumatosi nelle regioni orientali della Turchia tra il 1915 ed il 1916, e tutt’ora disconosciuto dalle autorità di Ankara nonostante le sue ben documentate 1.500.000 vittime. Per molti storici il primo vero e proprio genocidio nel senso moderno del termine.

 

Yerevan Federico Giamperoli

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La visita al museo interno al memoriale è un’esperienza toccante e che lascia il segno, doviziosa dei particolari più orrendi dello sterminio consumatosi. Le esecuzioni di massa, i linciaggi, i roghi umani, la morte per fame e sete di migliaia di deportati nel deserto, la riduzione in schiavitù sessuale di migliaia di donne e la sottrazione di altrettanti bambini alle loro famiglie. Non manca una parte dedicata al ruolo, seppur limitato, dei militari tedeschi nella macchina dello sterminio, principalmente in virtù del loro ruolo di consiglieri militari delle truppe turche durante la Grande Guerra.

Ma oltre alle testimonianze visive e prettamente umane del massacro, il grande museo dentro il memoriale offre anche una retrospettiva storica di respiro molto più lungo sulle radici di quanto accaduto. La persecuzione contro gli armeni, e la speculare diaspora, hanno infatti origini assai più antiche di quella pianificata ed eseguita nel 1915-16. E sono state foriere di una serie di conseguenze che affliggono tutt’oggi la vita di questa piccola repubblica.

Gli armeni sperimentarono pogrom e repressione politica e religiosa per diverse volte nel corso dei secoli. La prima diaspora risale addirittura al 1375, quando il piccolo Regno di Cilicia fu distrutto dai Mamelucchi. Persia e Impero Turco-ottomano combatterono per secoli per il possesso di queste regioni, crocevia strategico di commerci e traffici attraversato dal braccio principale della Via della Seta, e che nel 1827 vide anche l’intervento occupante della Russia zarista. Di volta in volta, le comunità armene seppero adattarsi e rifiorire, anche se emarginate e relegate a sudditi di serie b in tutti e tre gli Imperi occupanti. Ed in particolar modo, nel vasto territorio armeno di quella che oggi è la Turchia orientale, all’epoca parte dell’Impero Ottomano.

Il massacro del 1915-16 fu solo il culmine di una lunga degenerazione di intolleranza e discriminazione aggravatesi di pari passo con il declino dell’Impero Ottomano e la sua progressiva crisi politica interna e disgregazione territoriale periferica. Un impero che rispondeva alle crescenti contestazioni al suo malgoverno concentrando repressione e la rabbia popolare contro le minoranze, additate come la quinta colonna di potenze straniere intente a distruggere l’unità politica del Regno della Porta.

Dalle violenze di bande armate e predoni – particolare poco noto, molto spesso curde- sovente spalleggiate dalla maggioranza turca e tollerate dalle amministrazioni locali, si passò a veri e propri pogrom organizzati, che già nel 1894-96 costarono la vita a 250.000 tra armeni, assiri e greci. Il copione si ripeté nel 1908-09 su scala più piccola dopo la caduta del regime della Porta e l’instaurazione di quello dei Giovani Turchi, della quale gli armeni furono entusiasti sostenitori in virtù della sua iniziale spinta riformista. Un tentativo restauratore sotto forma di golpe militare, prima di essere sconfitto, costò la vita a 20.000 armeni nella regione di Adana.

Anche le speranze nei Giovani Turchi erano però mal riposte. La perdita dei territori balcanici nella guerra del 1912-13 e lo scatenarsi della Grande Guerra, che vide scoppiare sia le rivolte nella penisola arabica sia lo scontro con la Russia nel Caucaso, spinsero il nuovo regime a identificare gli armeni come il nemico interno in accordo con quello esterno, dando inizio al genocidio vero e proprio militarmente organizzato e scientificamente eseguito.

La nascita dell’Armenia moderna fu quella di un Paese battezzato dal sangue, versato sia come vittima che come combattente per la propria sopravvivenza. Sia contro i suoi nemici storici sia contro i suoi falsi amici. Vagamente appoggiati dalla Russia zarista in funzione anti-turca, dopo la Rivoluzione del 1917 ed il ritiro della nuova URSS dal conflitto, i combattenti armeni e i superstiti del genocidio scamparono allo sterminio grazie al collasso definitivo della potenza militare turco-ottomana.

Appena proclamata l’indipendenza, nel Luglio 1918, la cosiddetta Prima Repubblica Armena si trovò di nuovo a combattere per dispute etniche e territoriali contro il vicino e a sua volta neonato Azerbaijan, dopo che i diplomatici tedeschi avevano vanamente tentato di unificarli in uno stato fantoccio anti-russo assieme alla Georgia.

Letteralmente dimenticata dalle trattative di Versailles, la sistemazione sulla carta dei confini armeni avvenne nel marzo 1920 con il Trattato di Sèvres, che avrebbe dovuto costituire un grande Stato armeno inclusivo dei territori sgomberati dal genocidio del 1915-16 con un vasto sbocco sul Mar Nero. Il nuovo regime repubblicano-nazionalista turco di Mustafa Kemal rigettò del tutto il trattato, appoggiato sul versante diplomatico dai sovietici.

 

Yerevan Federico Giamperoli

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Ebbe quindi inizio un convulso e sanguinoso anno che vide la Turchia nuovamente all’assalto armato degli armeni, appoggiata dagli azeri in virtù delle comuni origini etniche e credo religioso, e con l’Unione Sovietica a fare da burattinaio e da paciere in attesa di mettere le mani sulla regione. Gli armeni pagarono questi giochi politici con lo sterminio di altre 100.000 persone, prima che l’invasione sovietica dell’Azerbaijan e poi dell’Armenia stessa, nel novembre 1920, fermasse l’avanzata turca a pochi chilometri da Yerevan e portasse al tavolo diplomatico gli invasori e una Prima Repubblica Armena ormai esistente solo sulla carta.

Con il Trattato di Alessandropoli, l’URSS barattò letteralmente la sovietizzazione dell’Armenia orientale con la cessione alla Turchia di quella occidentale. Ma la politica dei raggiri proseguì anche all’interno dei nuovo confini , quando Mosca decise di incorporare nella Repubblica Sovietica dell’Azerbaijan anche le regioni montuose a maggioranza armena del Nagorno Karabakh e di Sunyi, al confine con l’Iran.

Gli armeni, in precedenza proni all’occupazione sovietica in quanto unica alternativa al completamento del loro sterminio, nel febbraio 1921 risposero con una vera e propria insurrezione armata, che culminò nella fondazione nella regione di Sunyi di una Repubblica dell’Armenia Montuosa. Sopraffatta dall’Armata Rossa nel luglio successivo, l’insurrezione convinse però Mosca a lasciare almeno questa regione agli armeni.

L’URSS, e poi la calata della Guerra Fredda lungo i confini armeni, quando la Turchia entrò nella NATO e l’Iran finì sotto il regime filo-statunitense dello Scià, congelarono i conflitti etnici e territoriali per i successivi 70 anni, quando sarebbero prepotentemente riemersi con la sua disgregazione. Anche l’Armenia fu insanguinata dalle purghe staliniane, che colpirono soprattutto i superstiti tra chi aveva combattuto contro i turchi per l’indipendenza, e quindi considerato un veicolo di pericoloso separatismo nazionalista e borghese.

Ma nel complesso, grazie a questa posizione di frontiera strategica ed all’inimicizia verso turchi e persiani, gli armeni si integrarono nella struttura socio-politica sovietica meglio di altre nazionalità periferiche. La regione non fu soggetta agli spostamenti coatti e deportazioni in Siberia che colpirono ceceni, lituani e cosacchi. E la maggiore importanza delle riserve minerarie rispetto all’agricoltura risparmiò a questa terra le collettivizzazioni forzate che seminarono sofferenze e morte nell’Ucraina occidentale.

L’URSS ebbe tutto l’interesse ad investire pesantemente nell’industrializzazione di questo baluardo caucasico, portando fonderie e ciminiere anche laddove un mondo senza frontiere e nemici non le avrebbe rese convenienti. Gli armeni ricambiarono ancora una volta col sangue: su un milione e mezzo di abitanti nel 1939, la regione vide reclutati o volontari per la guerra contro i nazisti ben 300.000 persone. Metà dei quali non tornarono a casa.

Il centro di comando militare di quella effimera repubblica indipendente delle montagne è tutt’ora esistente: è il monastero di Tatev, tra i più spettacolari ed isolati di tutto il Paese, anche se è divenuto da poco tempo più facile da raggiungere. Nel 2010 è stata infatti costruita una funivia tra il villaggio di Halidzor e il monastero, poeticamente battezzata “Le Ali di Tatev”, lunga quasi 6 km. E che detiene la palma della cabinovia con il tratto non sorretto da piloni intermedi più lungo del pianeta.

Il breve viaggio nella cabina è un sorvolo mozzafiato sulla gola del fiume Bazarcaj, le sue pendici scoscese e verdi e le cime rocciose e brulle che la circondano. Tatev compare in cima ad uno dei contrafforti che chiudono la valle verso sud, fortificato come un castello medievale, ma con al posto delle torri le cupole dei due monasteri del complesso. A loro volta circondate da una cinta muraria che ingloba anche gli edifici residenziali dei monaci, ed in parte affacciata a strapiombo sulla valle sottostante.

 

Armenia Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Il monastero fu fondato nell’VIII Secolo dai monaci apostolici in cerca di un luogo facilmente difendibile e che potesse anche fungere da luogo di apprendimento sia religioso che laico. Già nel XI Secolo, sulla cima di questa montagna protetti dalle mura vivevano quasi 1.000 tra monaci, artigiani e pellegrini-studenti, attratti sul posto da una enorme biblioteca di manoscritti. Tra il 1390 ed il 1414 il monastero divenne una vera e propria università, dove alla dottrina religiosa si affiancavano studi di diritto, oratoria, grammatica e perfino lingue straniere.

Nonostante la sua posizione difendibile, quella di Tatev è una storia di distruzioni e rinascite. Situato esattamente al crocevia tra Caucaso, Persia e Anatolia, il forte-monastero fu devastato a più riprese dagli invasori passati per questa valle, ma sempre ricostruito. Vi aleggia anche una leggenda sulla indistruttibilità del meridiano a torre che scandiva le ore della vita nel complesso. Durante il saccheggio dei mongoli guidati da Timur (noto in occidente come Tamerlano), il tentativo di abbatterla con una grossa corda legata alla sua cima si sarebbe risolto con lo sfilacciamento della medesima e la caduta dei soldati che la tiravano nel burrone sottostante.

La resa del Luglio 1921 risparmiò al monastero-fortezza un assedio a colpi di artiglieria, ma il complesso fu seriamente danneggiato da un terremoto dieci anni dopo, per poi essere nuovamente restaurato. Durante il tragitto di ritorno, la cabinovia sorvola i resti abbandonati dell’antico villaggio fortificato di Halidzor, situato più a valle di quello originario e protagonista nel XVIII di una vittoriosa resistenza contro un esercito turco enormemente più numeroso dei suoi difensori.

Sulla strada per tornare verso nord, il rombo delle continue buche sotto le ruote copre alle mie orecchie le note di Albano e Romina gracchianti alla radio, orgogliosamente messo a palla dall’autista in onore dell’unico passeggero italiano. Dopo tre quarti d’ora di schiena maltrattata, scendiamo nel freddo umido di un crinale di montagna completamente circondato dalla nebbia. Siamo nei pressi di Goris, il capoluogo della regione. Una ripida scalinata in legno ci porta verso il fondo di una gola che la nebbia rende invisibile. Poi, compare un pauroso ponte pedonale in corda metallica completamente sospeso nel vuoto. Attraversandolo resistendo alle vertigini, si scorge il versante di un monte completamente tappezzato di macchie nere prodotte dall’ombra di tanti piccoli antri e grotte.

 

Armenia Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

È l’antico villaggio di Khndzoresk, un agglomerato di abitazioni trogloditiche scavate nella roccia nel XIII Secolo dagli abitanti della valle di Goris in fuga dalle invasioni turco-selgiuchidi e mongole. All’interno di queste piccole caverne sono ancora visibili i buchi nel terreno dei forni a pozzo, piuttosto tipici del luogo anche se non unici (sono abbastanza diffusi nel resto del Medio oriente ed anche in India). Il villaggio, come il monastero di Tatev, fu gravemente danneggiato dal terremoto del 1931, che segnò anche l’inizio del suo abbandono. Negli anni ‘50 la popolazione iniziò a trasferirsi nel vicino kolkhoz, uno dei vasti agglomerati di fattorie collettive di impostazione sovietica, fino a quando l’ultimo abitante abbandonò le case-grotte nel 1971.

La piccola chiesa apostolica locale è guardata a vista da un anziano abitante del nuovo villaggio originariamente nato sul posto, con un fido assistente più giovane che gironzola per le mulattiere dell’abitato abbandonato con un piccolo pony, mantella ed un largo cappello, che lo fanno assomigliare ad un pastore messicano col sombrero. Il racconto dell’anziano guardiano mi viene tradotto dalla guida, e scopro, non senza sbigottimento, che all’inizio degli anni ‘90, le caverne furono occupate per pochi mesi dagli abitanti della zona, in fuga dai colpi dell’artiglieria azera. Il bellicoso confine con il Paese limitrofo è in effetti a soli due km di distanza.

L’impatto di quella guerra di posizione, così simile alle nostre trincee del Carso del ‘15-18 e trascinatasi per sei anni, è visibile ancora oggi sulla principale strada statale che scende dalle montagne per riportarci verso la capitale, costeggiando il confine azero, turco e iraniano. Sull’asse viario, l’unico che collega Yerevan all’area montuosa del sud, si susseguono piccoli bunker con feritoie a distanze regolari l’uno dall’altro per diversi chilometri.

Il marshrutka avanza a passo d’uomo per circa un’ora nell’imbrunire della steppa, facendo letteralmente lo slalom tra camion fermi a scaricare ed i tratti di asfalto in rifacimento in una serie infinita di lavori in corso. Come la guida mi spiega, è un disagio necessario: pur essendo l’unico grande asse viario, la strada attende i lavori di ricostruzione del manto dalla fine del conflitto, quando fu riparata sommariamente dalle buche lasciate dai colpi dell’artiglieria azera e dal passare dei cingoli dei carri armati. Al momento dello scoppio del conflitto, le province di Sunyi e Vayots Dzor si ritrovarono infatti circondate dal territorio azero sia ad est che ad ovest, ed interamente nel raggio di azione dei cannoni del vecchio e nuovo nemico.

Il conflitto con gli azeri per il possesso del Nagorno Karabakh riemerse violentemente quando la disgregazione dell’URSS spinse la popolazione armena della regione a reclamare la secessione e la riunificazione all’Armenia vera e propria. Il risultato furono però scontri di piazza e violenze tra la maggioranza armena nella regione e la minoranza azera, che iniziò a lasciare in massa l’area.

 

Armenia Federico Giamperoli

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I giacimenti petroliferi del Caspio avevano però attratto per decenni un numero altrettanto grande di emigranti armeni a lavorare nella Repubblica limitrofa, e che si ritrovarono intrappolati in mezzo ad un suolo improvvisamente divenuto nemico. Nel febbraio 1988, nella città industriale di Sumqayit, nei pressi di Baku, oltre 200 lavoratori armeni vennero trucidati assieme alle loro famiglie in un vero e proprio pogrom incoraggiato anche da membri di autorità locali e polizia, sempre più imbevute di nazionalismo etno-religioso. Si trattò dei più gravi disordini a sfondo razziale dell’intera storia dell’URSS post-stalinista, e un oscuro presagio di quanto sarebbe accaduto di lì a poco nel resto del Caucaso.

Le autorità azere e armene, di fronte all’escalation delle violenze contro le rispettive minoranze dell’opposta fazione, ne decretarono l’espulsione di massa. Oltre 500.000 azeri e curdi lasciarono l’Armenia ed il Karabach, e altrettanto fecero circa 400.000 armeni in Azerbaijan nella direzione opposta.

Quando i due Paesi divennero formalmente indipendenti, nel 1991, ai disordini civili si sostituì la guerra aperta sul campo. Per gli armeni, il pogrom di Sumqayit fu l’equivalente della riapertura di una coltellata mai rimarginata, un salto indietro in un passato di persecuzione che credevano archiviato. Ma il nazionalismo risultante li spinse a loro volta a commettere lo stesso genere di atrocità; come nel febbraio 1992, quando le truppe separatiste del Karabach trucidarono 161 abitanti della cittadina di Khojaly mentre fuggivano dagli scontri nella campagna circostante. Come da copione, in questi laceranti conflitti settari, questo è un particolare del quale nessuno dei locali con cui parlo tende a sottolineare.

Assieme al ritorno degli odi settari, etnici e religiosi, il conflitto si trascinò dietro anche un concentrato di prese di posizione internazionali pro o contro i belligeranti a seconda di etnia e credo, o pura convenienza politica. Innanzitutto, nuovamente l’ambiguità della Russia, la quale nel bel mezzo dello sfacelo del proprio apparato militare, non lesinò la vendita di equipaggiamenti militari ad entrambe i Paesi, anche se finì per supportare più decisamente la posizione armena quando Yerevan accettò di mantenere alcune basi militari di Mosca sul suo territorio. I separatisti del Karabach, in particolare, vedono oggi riconosciuta la propria indipendenza solo dalle repubbliche separatiste pro-russe di Abkhazia ed Ossezia, in territorio georgiano. Un discreto quantitativo di aiuti militari arrivò infine dalla Grecia, in funzione anti-turca.

L’Azerbaijan rispolverò infatti l’antica fratellanza con Ankara, che gli fornì equipaggiamenti militari e persino volontari dell’organizzazione nazionalista dei Lupi Grigi. Non mancarono tra le fila azere anche integralisti islamici ceceni in fuga dall’invasione russa della loro regione. Ultimo capitolo, davvero paradossale di questa babele di alleanze di comodo, è il tuttora vigente supporto militare e diplomatico di Israele nei confronti delle rivendicazioni azere sulla regione. Un posizionamento dovuto solo alla comune inimicizia di Baku e Tel Aviv nei confronti dell’Iran.

Il conflitto si concluse nel maggio 1994 dopo avere provocato in tutto circa 30.000 vittime. Come 70 anni prima, le trattative avvennero grazie alla mediazione russa, ma stavolta ebbero come risultato un semplice cessate il fuoco privo di alcun duraturo accordo di pace. Il Karabakh rimase de jure una Repubblica autonoma anche se de facto inglobato nell’Armenia senza nessun riconoscimento internazionale e sempre rivendicata dagli azeri come territorio a loro sottratto.

La sostanziale vittoria sul campo fu però pagata dagli armeni con un prezzo durissimo sotto il profilo economico e commerciale; la piccola repubblica fu tagliata completamente fuori dalle forniture di gas, petrolio ed elettricità dall’Azerbaijan. E nel 1993, il confine con la Turchia, da poco riaperto con il crollo dell’URSS, fu a sua volta chiuso a qualunque scambio di merci e persone. Le uniche frontiere terrestri che lasciano l’Armenia in grado di comunicare col resto del mondo, sono a tutt’oggi solo quelle con l’Iran e la Georgia.

Lo stato di guerra non è dunque mai stato ufficialmente concluso, e pende tutt’ora come una spada di Damocle sui destini dei due Paesi; nella primavera del 2016, una schermaglia di confine nel Karabakh ha visto un breve ma intenso riesplodere della violenza, con tanto di scambio di cannonate tra le due parti e decine di vittime.

 

Armenia Federico Giamperoli

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Il remake della cortina di ferro con la Turchia è lo sfondo del luogo da cartolina per eccellenza dell’Armenia: il colle del monastero di Khor Virap e la maestosa panoramica del Monte Ararat che si gode dalla sua cima. Dopo Sevanavank è probabilmente la destinazione più gettonata del Paese, ma pochissimi tra i suoi visitatori, abbagliati dalla grandiosità del paesaggio, realizzano sia l’importanza storica del luogo, sia la prossimità del dramma storico recente.

Da questa collina, si scorge con difficoltà a poche centinaia di metri di distanza il lungo reticolato che sigilla la “zona cuscinetto” che precede il confine con la Turchia. L’area è pattugliata e guardata a vista dall’esercito nazionale ed anche dalle truppe russe presenti nel Paese. La pianura si perde a vista d’occhio, tra fiumi, aree golenali verdi ed i primi centri abitati turchi della zona. Fino all’innalzarsi grandioso delle pendici dell’Ararat, con i suoi 5.100 metri di quota e la sua dolce curvatura di antico vulcano estinto decorata con una doppia cima. Questo spettacolo della natura e la sua irraggiungibilità da questa parte del confine sono una vera e propria metafora delle sofferenze di questo Paese, condannato a guardare attraverso un confine, senza mai toccarlo, una delle icone paesaggistiche della propria Storia. Nei giorni sereni, e quando la cappa di smog concede una tregua, il monte è interamente visibile anche da Yerevan, in particolar modo quando la coltre di neve ne copre l’intera sommità.

Khor Virap in armeno significa “prigione profonda”. La galera in questione fu la celletta sotterranea buia e maleodorante – tutt’ora esistente e visitabile – sotto una cappella sul versante settentrionale del monastero. In questo antro, secondo la tradizione, fu imprigionato e torturato per 13 anni San Gregorio l’Illuminatore, il leader religioso protagonista della conversione al Cristianesimo del Regno d’Armenia. E che fu infine liberato e adottato come guida spirituale proprio dal suo aguzzino re Tridate III, dopo che l’Imperatore romano Diocleziano, ispiratore delle sue persecuzioni anti-cristiane, aveva rotto l’alleanza col regno e invaso l’Armenia.

Il monastero di per sé non è tra le opere più attraenti, essendo stato costruito e poi allargato sul sito molto più tardi (XVII Secolo). Ma l’attrattiva mistica per questo luogo di martirio ha fatto sì che migliaia di armeni abbiano espresso come ultimo desiderio quello di essere sepolti proprio vicino alla prigione del santo monaco. Sul versante orientale della collina, di fronte al polveroso parcheggio dei pullman per turisti ed alle immancabili bancarelle di chincaglieria coi teloni sponsorizzati, si estende così una enorme distesa di tombe e crocifissi.

La desolazione del panorama brullo e stepposo circostante rende quasi impossibile immaginare che Khor Virap, dal II secolo a.C. al II Secolo d.C., fu l’Acropoli di una delle più floride capitali dell’Armenia antica: la città di Artashat, fondata nel 176 da Re Artaserse, dal quale prese il nome. Un florido snodo commerciale, a cavallo del tratto della Via della Seta che terminava nell’Anatolia romana, che al culmine della sua espansione vantava non meno di 80.000 abitanti. Ma che non sfuggì al destino di ascese e cadute rovinose di tante contrade di questa terra. Rimasta capitale provinciale durante la dominazione romana, vide poi la fine della sua centralità politica con la conquista dei Parti, nel 120 d.C. Le guerre tra i due imperi bloccarono le vie commerciali e provocarono la decadenza del centro. La città, già spopolata, fu infine distrutta dall’ennesima invasione persiana nel 369 d.C, e mai più ricostruita, per non dire dimenticata. Gli scavi archeologici nell’area hanno portato alla sua riscoperta solo negli anni ‘20 del ‘900.

La gita di oggi vede la nostra piccola comitiva di nuovo guidata dalla sorridente Shushan, e una nuova pausa-pranzo di pure leccornie presso una famiglia del luogo, questa volta inclusive di uno spiedo lungo un metro di polli croccanti cotti in un forno a pozzo tradizionale. Il padrone di casa sorride guardando gli occhi affamati della comitiva, mentre si lascia aiutare dal sottoscritto ad estrarre lo spiedo gigante.

Una famiglia di benestanti agricoltori e pastori, con una stalla piena di grossi maiali, polli, tre gatti che gironzolano per la corte interna, e appesa al soffitto del cortile una antica macchina del burro, consistente in una botte di legno appesa al soffitto per essere dondolata e far cagliare il latte al suo interno.

Ma lo scenario idilliaco di questa dimora, circondata dalle arnie del coltivatore vicino e con l’Ararat che copre lo sfondo, si spegne all’improvviso all’uscita dal portone. Il villaggio che ci circonda è povero e desolato. La strada è una sterrata per metà coperta di terriccio e sabbia, lungo la quale praticamente nessuno passeggia. Vecchie macchine e trattori d’epoca sovietica giacciono parcheggiati sotto pali della luce in legno con fili attorcigliati intorno alla sommità. Quasi nessun albero offre ombra al sole a picco.

 

Armenia Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

La grande pianura sovrastata dall’Ararat che si estende a sud della capitale, fino al confine con Turchia ed Iran, è un susseguirsi di paesini e cittadine dove lo spettacolo non è molto differente, quando non anche più desolato. Case basse scrostate, a volte recentemente restaurate e a volte ancora mai finite, si affiancano ad agglomerati di prefabbricati popolari alti tre o quattro piani, irti di parabole su piccoli terrazzi. Dove le case finiscono, si estendono capannoni industriali derelitti e coi vetri rotti, sovrastati da camini arrugginiti, dalle quali non esce più un filo di fumo da decenni.

Questa regione, l’unica pianeggiante dell’Armenia, ai tempi dell’Unione Sovietica era anche la sola che grazie ad agricoltura, allevamento e cave di pietrisco aveva sviluppato una industria leggera, prevalentemente tessile, alimentare e dei materiali da costruzione. La fine del blocco sovietico e della domanda di prodotti dalla Russia, si è trascinata rapidamente nel baratro anche buona parte di questa economia. La ripresa economica di inizio anni ‘2000 si è concentrata per lo più dentro ed intorno a Yerevan, mentre in questa landa inaridita dal sole e ghiacciata in inverno, non se ne vede quasi traccia. Non c’è ombra di nuovi edifici commerciali, a parte gli autogrill.

Le strade delle cittadine hanno pochi negozi ed insegne. Chi non è emigrato in città o all’estero e non lavora nelle poche industrie rimaste in piedi, manifesta lungo la strada maestra la propria arte di arrangiarsi per continuare a vivere in questi posti. L’arteria di asfalto è un colorato susseguirsi di baracchini, a volte improvvisati e poi ingranditi, dove si vende al viaggiatore qualunque tipo di frutta, verdura o bevanda e persino pesce di acqua dolce, soprattutto durante la bella stagione. In alcuni casi si commercia senza nemmeno bisogno di un allestimento; nel bel mezzo del nulla, tra camion e veicoli rombanti a pochi passi, la bancarella è il bagagliaio aperto di una vecchia Lada coperto da una tendina anti-sole.

 

Armenia Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

L’entusiasmo popolare per la democrazia e l’indipendenza raggiunte nel 1991 furono in effetti l’unico barlume di gioia della transizione post-sovietica. Passati i festeggiamenti, ai danni del sisma del 1988 ed all’escalation bellica con l’Azerbaijan si aggiunse anche una rovina economica pressochè totale. Il settore industriale, la parte più importante dell’economia ed incentrato sull’estrazione di minerali e le industrie metallurgica, meccanica e chimica, si ritrovò dalla mattina alla sera senza le commesse dal resto dell’ex- impero sovietico, e finì letteralmente al collasso. Nel quadro dell’economia pianificata, l’Armenia barattava i prodotti della propria industria pesante con buona parte delle derrate alimentari, dei prodotti di largo consumo, energia e capitali necessari sul versante domestico, nel quale erano tutti cronicamente scarsi. Lo squilibrio risultante della bilancia dei pagamenti, e i costi della guerra con gli azeri, prosciugarono rapidamente le riserve di valuta, completando la ricetta di una vera catastrofe sociale.

Tra il 1990 ed il 1995 l’economia armena dimezzò le sue dimensioni, mentre la popolazione si ritrovò a fronteggiare una fiammata inflazionistica di proporzioni raccapriccianti, con aumenti dei prezzi del 4.900% annuo nel 1993-94. Solo sul finire degli anni ‘90, con la fine del conflitto con l’Azerbaijan ed il processo di liberalizzazione domestico e degli scambi con l’estero, l’economia si stabilizzò e tornò gradualmente sui binari della crescita, anche se largamente aiutata dalle rimesse degli emigrati, dalla ripresa economica russa e dai fondi elargiti dalla Banca Mondiale.

Ma nel frattempo, questa vera e propria “decada perdida” caucasica aveva falcidiato occupazione, benessere e speranze. Il reddito medio per persona del Paese tornò al livello del 1988 – di per sé già basso – solo nel 2002. Un traguardo che fu peraltro ri-raggiunto anche grazie alla scomparsa di centinaia di migliaia di disoccupati cronici nei meandri dell’esodo verso l’estero. Il seguito odierno della storia economica armena è un ottovolante collimante con le luci ed ombre dell’economia globalizzata.

Negli anni ‘2000 il rimbalzo da questa lunga depressione e l’escalation mondiale dei prezzi delle materie prime, delle quali l’Armenia è comunque rimasto un grosso esportatore, risollevarono l’economia della piccola repubblica facendone uno dei Paesi col tasso di crescita più elevato al mondo, anche se strettamente dipendente dal commercio con l’estero. Una fragilità che è venuta pienamente a galla nel 2008-09, quando la recessione mondiale ha decimato sia l’export di minerali che le rimesse dei lavoratori armeni residenti in occidente e in Russia. La ripresa dalla crisi, inizialmente rapida, si è poi affievolita nel 2014-15 con il tracollo dei prezzi delle materie prime e la stagnazione economica russa, che rimane il primo partner commerciale dell’Armenia. Nell’ultimo lustro, la crescita si poi nuovamente rafforzata grazie al boom del settore dei servizi concentrato quasi esclusivamente nella capitale, che sta ora lasciando indietro il resto del Paese rimasto legato alla vecchia ed ora di nuovo stagnante industria mineraria. E che continua a produrre una incessante emigrazione verso l’estero.

Il viaggio verso il nord del Paese ed il confine con la Georgia, l’ultimo fuori Yerevan prima della fine della mia avventura, è una immersione ancor più densa in questo spettacolo di desertificazione industriale di provincia. Iniziamo il tragitto dalla periferia settentrionale di Yerevan, dove Shushan – sempre lei – ci indica quasi entusiasta un enorme complesso edilizio popolare lasciato incompiuto negli anni ‘80, che avrebbe dovuto prendere la forma della sigla in cirillico dell’URSS, cioè CCCP, ma che l’abbandono dei lavori ha lasciato senza la “P”, finale.

Dopo due ore di viaggio, attraversiamo la cittadina di Spitak, nella provincia di Gyumri, la seconda città del Paese. È un centro di provincia che lascia incredulo per le forme e costruzioni incredibilmente moderne rispetto agli standard di altri abitati di analoghe dimensioni. O almeno, fino a quando non se ne conosce la storia.

 

©Federico Giamperoli

 

Spitak, è infatti un nome che evoca negli armeni un senso di tristezza, ed un moto di terrore tra i più anziani. Il 7 dicembre 1988, un terremoto del settimo grado della scala Richter colpì il nord del Paese, con l’epicentro del sisma situato a pochi km da questa cittadina, che fu letteralmente rasa al suolo. Fu una vera e propria tragedia nella tragedia. Il sisma seminò la sua devastazione nel bel mezzo del turbolento periodo pre-indipendenza, e pochi mesi dopo l’inizio delle violenze settarie anti-armene in Azerbaijan, e con l’espulsione reciproca di centinaia di migliaia di armeni ed azeri in pieno svolgimento. Il risultato è che nonostante la gara di solidarietà internazionale seguita a questo disastro – si trattò della prima catastrofe naturale che vide l’Unione Sovietica chiedere aiuto al resto del mondo – a distanza di 30 anni non è ancora possibile redigere un bilancio preciso delle vittime. Tra la popolazione residente i morti furono 25.000, ma includendo i profughi le stime oscillano tra i 37 ed i 50mila.

In un triste inanellamento di coincidenze, il terremoto fece coppia con il crollo economico dell’URSS, lasciando un quarto del Paese completamente devastato ed un quinto della popolazione senzatetto proprio mentre l’industria armena iniziava il suo stillicidio di chiusure. Peggio ancora, il sisma costrinse le autorità locali a chiudere anche la centrale nucleare di Metsamor, proprio mentre l’innalzarsi di frontiere ostili con l’Azerbaijan lasciava gli armeni anche senza il petrolio del Caspio.

Le scarse misure di sicurezza della centrale costrinsero il governo di Yerevan a tenere chiusi i reattori anche durante la guerra del Karabakh, per timore di raid aerei da parte azera sul complesso. Shushan rammenta i racconti della madre sulle conseguenze. “Ad inizio anni ‘90, perfino Yerevan in alcuni mesi fu ridotta a 5 ore di corrente elettrica al giorno. Immaginatevi una capitale di queste dimensioni immersa nel buio ed illuminata dalle candele”. Mentre parla, la piazza centrale di Spitak scorre davanti ai nostri occhi, circondata per metà da un colonnato monumentale, e una grande lapide in memoria delle vittime.

Dopo altri km di montagne, steppa e villaggi, compare ai piedi delle montagne del Caucaso la città di Vanadzor. Terzo centro del Paese e sede di una piccola Università e di una diocesi della Chiesa apostolica, è situata proprio all’imboccatura della Gola del Debet, che è la nostra destinazione. Nessuno di questi primati locali traspare però dalla visuale che divoro avidamente dal finestrino. Il passaggio per la grande arteria stradale che accerchia il centro cittadino è una panoramica su un monumento di archeologia industriale.

Grazie alla disponibilità di energia idroelettrica ed alle grandi risorse minerarie delle montagne circostanti, negli anni ‘50 questa cittadina fu completamente ricostruita dal governo sovietico e trasformata in un grande centro dell’industria metallurgica e chimica. Ma di questa grandiosità oggi rimane solo la spettacolare desolazione di una enorme area produttiva abbandonata, con imponenti ciminiere, depositi e serbatoi tutti lasciati a corrodersi sotto le intemperie ed il passare del tempo.

All’abbandono di buona parte delle fabbriche, ha fatto rapidamente eco quello della città medesima da parte dei suoi abitanti. Nel 1979, il censimento assegnava a Vanadzor 148.000 abitanti; nel 2016, l’anagrafe del luogo ne registrava poco più di 82.000. Un calo del 40% in un terzo di secolo.

 

©Federico Giamperoli

 

A questo post-industrial cittadino, immerso nel sole e nell’aria di montagna e così diverso dallo sfondo grigio degli analoghi angoli cyberpunk berlinesi ai quali sono abituato, si affianca ben presto quello montuoso e minerario della Valle del fiume Debed. Quello che mi ritrovo ad osservare attraverso i vetri è un vero e proprio “Klondike” armeno, solo più antico dell’originale e di conclusione più recente, e con un metallo meno prezioso a fare da protagonista. L’intera valle è cosparsa di resti di miniere di rame e impianti di lavorazione del minerale, con poche eccezioni ormai abbandonate e in rovina.

La Valle del Debed fu un centro di sfruttamento minerario di prim’ordine fin dai tempi dell’Impero russo. Lo scavo dei ricchissimi giacimenti di rame nel sottosuolo iniziò già sul finire del XVIII Secolo, e proseguì in quello successivo dopo l’occupazione russa della regione anche grazie a lucrose concessioni minerarie affidate ad imprese francesi e britanniche. Nel 1913, complice l’ancora limitato sfruttamento degli enormi giacimenti siberiani, il Debed forniva da solo un ottavo del rame estratto in tutta la Russia degli Zar.

L’avvento dell’URSS e dei suoi piani quinquennali incentrati sull’industria pesante stimolò ulteriormente lo sfruttamento intensivo delle miniere della valle, che vide un enorme afflusso di lavoratori emigranti dalle povere campagne circostanti e di rifugiati nella regione dopo il genocidio. Nel principale centro abitato della valle, Alaverdi, fu costruita una grande fonderia per il minerale estratto dalle vicine miniere, e l’intera valle fu disseminata di altre industrie di indotto collegate alla trasformazione del rame dopo la fusione. Una piccola ferrovia, costruita già nel 1899 attraverso l’intera vallata, favoriva l’integrazione dei processi produttivi, e lo spostamento dei prodotti verso la Russia attraverso la Georgia così come verso il resto dell’Armenia.

La sola Alaverdi passò dai 4.200 abitanti del 1926, ai 23.000 del 1970. Stretto tra le ripide pareti scoscese della gola del fiume, il centro abitato si espanse in tutti gli anfratti possibili. Basse case per operai seguite dai classici casermoni pre-fabbricati furono edificati su tutta l’area circostante il fiume, ed una volta esaurite, si passò ad edificare anche le aree pianeggianti in cima ai monti che circondano la valle. Alaverdi era una vera città mineraria di frontiera.

Vicinissima al confine con la Georgia, attirava a lavorare nelle sue voragini di terra e fuoco anche i suoi poveri, dai costumi e lingua diversissime dai locali nonostante la prossimità. Un paesone rumoroso ad ogni ora del giorno e della notte per il ciclo continuo di lavorazione di fusione del minerale, avvolta ed inquinata dal fumo denso del carbon coke e della fonderia, e popolata da una rude ma fraterna umanità di tute blu e visi sporchi di terra e fango.

 

©Federico Giamperoli

 

Poi, il tramonto. Il crollo dell’industria pesante sovietica e la fine della domanda di semilavorati dalla Russia si trascinò nell’imbuto della recessione anche l’intera regione mineraria e la grande fonderia. Privatizzato nel 1997, il complesso ha agonizzato per altri 20 anni tra dismissioni continue di impianti e impieghi sempre più scarsi, fino alla chiusura definitiva degli ultimi forni ed il licenziamento degli ultimi 200 lavoratori, decretato nel marzo 2019.

Alaverdi è rimasta isolata e povera stretta nella sua valle, sempre più disertata dalla sua classe operaia che un tempo vi accorse in cerca di riscatto: nel 2016, gli abitanti della cittadina sono scesi a poco più di 11.000, meno della metà di quelli di 30 anni prima. Il guscio vuoto della fonderia domina il panorama della città come un immenso fantasma, con i serbatoi, le torri di raffreddamento e l’altissima ciminiera che si stagliano sul cielo azzurro e le pendici verdi e rocciose della valle che la circonda, come in un dipinto di contiguità tra la pietra naturale e quella creata dall’uomo.

Le ultime miniere ancora attive si trovano sul crinale di una collina affacciata sulla valle nei pressi della cittadina di Akhtala, dove Shushan suscita l’ilarità della comitiva indicando lo strano spettacolo che si trova al di là del fiume. Dalla riva Debed si innalza, senza anima viva intorno, l’edificio di una piccola funivia un tempo utilizzata per il trasporto dei minatori in cima al crinale. Il suo abbandono è stato però così repentino da lasciare sospesa a mezz’aria attaccata al cavo anche la piccola cabina, che dondola arrugginita a metà strada sospesa nel vuoto.

Dal monastero-acropoli di questa cittadina, gli impianti di estrazione ancora attivi si osservano dall’altro versante della valle di un affluente del Debed. Lo sguardo scende sconcertato sulle file di tubi in metallo corroso che scaricano i residuati liquidi dell’attività estrattiva direttamente nel fiumiciattolo, tra gli sbancamenti terrazzati di scorie degli scavi. Oltre alle pesanti conseguenze occupazionali del declino dell’attività estrattiva, il Debed deve oggi fronteggiare la tossica eredità ambientale di quasi due secoli di miniere.

Lo sviluppo del turismo rimane l’unica altra prospettiva per questa sfortunata valle, anche se la posizione remota, il paesaggio di ruggine e lo stato della strada lo mantengono per ora molto limitato. Eppure anche questo luogo sfortunato cela, sulle cime che circondano la valle, le sue meraviglie di monasteri, in particolar modo quelli di Sanahin e Haghpat. Due complessi piuttosto estesi e arricchiti di colonnati, propilei ed aree abitabili, attorno ai quali sorsero villaggi e comunità agro-pastorali che si sono poi trasformati in improbabili sobborghi proletari con l’allargamento della vicina Alaverdi, ma 200 metri più in quota rispetto alla città.

Haghpat, in particolare, è uno dei pochi monasteri armeni decorato al suo interno con affreschi, un chiaro segno dell’influenza sulla regione della cultura ecclesiastica ortodossa dalla vicinissima Georgia. Il suo bell’affresco fu coperto di vernice durante l’epoca sovietica, quando la chiesa fu sconsacrata e destinata a deposito. Il suo ritorno alla luce, ben eseguito anche se non totale, è stato portato avanti di recente da due restauratori italiani.

 

©Federico Giamperoli

 

Abbandoniamo la valle mentre l’imbrunire proietta le sue ombre sulle rovine post-industriali, illuminando fino all’ultimo in modo spettacolare i contrafforti montuosi che la circondano.
La strada prosegue verso la Georgia e la sua capitale, Tbilisi, dove passerò questa nottata prima di tornare a Yerevan il giorno dopo. La relativa facilità con la quale attraversiamo il confine dopo un breve controllo ai passaporti è un ulteriore spunto di chiacchierata con Shushan sull’Armenia, le sue travagliate frontiere ed il suo destino. “Questo confine è l’unico che possiamo attraversare senza ritrovarci dall’altra parte un nemico, una autocrazia o sanzioni economiche e commerciali”.

Shushan prosegue il suo riassunto accompagnandolo ancora una volta con una risata; “Ma proprio per questo motivo siamo anche l’unico Paese al mondo capace di avere buoni rapporti al tempo stesso con Russia, Georgia, Cina, Stati Uniti, Europa ed Iran.”. Una battuta che è pura verità ed anche necessità: l’Armenia è costretta a cercare buoni rapporti con potenze lontane in presenza sia dalla presenza di due nemici molto più grandi ai suoi confini, sia delle difficoltà di buon vicinato con le sue due frontiere aperte.

L’Armenia ha recentemente aderito all’Unione Doganale Eurasiatica varata sotto l’egida russa, ma sta cercando al tempo stesso di venire inclusa negli accordi associativi col Mercato Comune Europeo. Il Paese ha truppe e basi militari russe schierate sul territorio ed al tempo stesso una delle più grandi ambasciate statunitensi del mondo, che non pochi sospettano essere un centro di spionaggio verso l’intero Medio Oriente.

Al tempo stesso, l’Iran è il suo secondo partner commerciale dopo Mosca; il gas da essa importato è l’unica alternativa energetica alla dipendenza dalla Russia, ma l’approfondimento delle relazioni commerciali è impedito proprio dalle sanzioni economiche americane, che rendono oggi virtualmente impossibile scambiare beni in dollari protetti contro il rischio valutario. Paradosso nel paradosso, la minoranza armena cristiana in Iran, nonostante il regime teocratico, non è sottoposta a particolari discriminazioni, mentre l’isolamento dei confini armeni è propugnato da due paesi islamici formalmente laici, uno dei quali praticamente alleato di Israele.

Il secondo Nodo di Gordio si nasconde proprio dietro il confine amichevole con la Georgia che abbiamo appena attraversato. Il commercio e l’importazione di materie prime energetiche e prodotti di largo consumo dalla Russia dipende interamente dal permanere di frontiere aperte tra questa e la Georgia, cosa non esattamente garantita dai pessimi rapporti diplomatici e politici tra i due Paesi.

Nell’agosto 2008, l’esplodere del conflitto armato russo-georgiano, e lo sconfinamento delle truppe russe a supporto dei separatisti di Abkhazia e Ossetia, ha minacciato di tagliare l’Armenia fuori dal mondo proprio alla vigilia della crisi economica mondiale. Il cessate il fuoco ha scongiurato questo spettro, ma la rinnovata indipendenza delle repubbliche separatiste georgiane sotto l’ala protettiva di Mosca ha causato tensioni politiche anche con l’Armenia.

I separatisti pro-armeni del Nagorno Karabakh, in assenza di riconoscimenti internazionali, hanno infatti creato una piccola internazionale delle enclaves apolidi, riconoscendosi a vicenda proprio con Abkhazia e Ossetia, e scatenando le ire del governo di Tbilisi, che già vede le basi militari di Mosca in Armenia come il termometro di una politica troppo filo-russa, o peggio ancora un accerchiamento.

Sul confine, consci ma noncuranti, i commerci per ora continuano. Durante il viaggio di ritorno, la dogana è intasata di macchine acquistate da armeni direttamente in Russia per evitare dazi e costi di trasporto. I passeggeri di questo mio ultimo viaggio in marshrutka sono tre ragazzi belgi a zonzo per il pianeta come anno sabbatico e una ragazza cinese, terrorizzata dallo stile di guida dell’autiere e delusa dal troppo spazio che il timbro ha portato via al passaporto alla dogana; tra le politiche di buon vicinato col resto del pianeta, infatti, l’Armenia ha anche un regime visa-free per i visitatori provenienti dalla Cina.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Di nuovo, domenica, di nuovo caldo e di nuovo un aereo da prendere la notte. E di nuovo Yerevan, con il suo attraente caos di carattere misto caucasico e mediterraneo. Decido di uscire dal recinto del Kentron e perdermici un’ultima volta, camminando verso i quartieri a sud della circonvallazione interna di Khanjyan Street.

In cima ad una scalinata in granito orlata di alberi, svetta l’imponente nuovissima Cattedrale di San Gregorio Illuminatore, inaugurata nel 2001 e che ha tolto a quella antica di Echmiadzin la palma del più grande luogo di culto del Paese. Nonostante posizione ed architettura sceniche, è un edificio opulento, asciutto e spoglio, con una frazione del fascino dei monasteri che ho visto. Nel paesaggio circostante appare quasi come uno schiaffo vetero-ecclesiale alla povertà; a pochi metri di distanza si estende un rione che potrebbe essere una piccola Kond, fatto di case rattoppate con tetti in legno e lamiera, e circondato a decrepiti palazzoni, con a chiuderlo verso est l’edificio del mercato di strada degli orefici.

Proseguo verso sud e torno nel traffico, magneticamente attratto dall’affollamento di situazioni, strutture e persone. Negozi di grandi marche globali e piccole botteghe chiassose si affiancano tra loro nei piani terra dei prefabbricati sovietici.

 

Yerevan Federico Giamperoli

©Federico Giamperoli

 

Ed infine ecco una piccola piazza affollata di vecchie auto, furgoni, bancarelle e ombrelloni ingialliti, dominata grande costruzione che da fuori appare simile ad un vecchio palazzetto dello sport o una stazione dei bus. Una volta entrato, mi ritrovo in mezzo alla più popolare e commerciale materializzazione di una Babele.

È il grande mercato coperto dell’ex GUM, quelli che una volta erano l’equivalente sovietico dei nostri Grandi Magazzini. A differenza dell’omonimo edificio di Mosca mutato in un lussuoso megastore del centro, il GUM di Yerevan è diventato un vero e proprio suk. Il vibrante, povero ma intraprendente mondo dei venditori ambulanti armeni ha fatto di questo luogo la propria cattedrale. Si estendono a perdita d’occhio bancarelle di spezie, erbe, infusi, pane, miele, frutta secca e dolci tipici, in un tripudio di odori, grida e contrattazioni con la clientela.

Dopo un’ora passato a inebriarmi di questa atmosfera e prendere scatti del sottostante tripudio di colori, vengo “catturato” presso una bancarella di dolciumi a base di noci e miele dai due venditori, sanguigni armeni di provincia sulla cinquantina. Dopo l’assaggio ai dolciumi e l’acquisto, vengo invitato nel retro-bancarella ad un brindisi di rosso fruttato in bicchieri di plastica, anche se nessuno tra noi capisce le parole dell’altro. Esco dal vecchio hangar col sorriso, in bocca ancora il sapore del mosto.
Non credo esista un addio più semplice ed al tempo stesso migliore.

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