Genocidio armeno atto finale. Europa e Italia chinano il capo a Turchi e Azeri. La Santa Sede rimane in silenzio (Korazym 2001.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 20.01.2023 – Vik van Brantegem] – Giulio Meotti intervista Antonia Arslan, voce italiana della diaspora armena: «L’Italia non si vergogna neanche un po’ a inginocchiarsi di fronte a chi vuole finire il genocidio di noi Armeni?». Una domanda retorica, perché conosciamo la risposta a questa domanda, posta da Arslan, nell’intervista-audio alla scrittrice di La masseria delle allodole, pubblicata oggi, nel 40° giorno dell’assedio imposto dall’Azerbaigian alla Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh [QUI], da Giulio Meotti sulla sua Newsletter [QUI].

Antonia Arslan: «Da 107 anni negano di aver sterminato tre quarti del mio popolo, compresi i fratelli di mio nonno. Erdoğan dice: “Finiremo l’opera dei nostri antenati”». «In molti italiani, nelle persone semplici, c’è molta solidarietà verso di noi. Ma a livello alto prevale la logica di denaro, potere o petrolio. Europa e Italia siano fedeli alle radici cristiane, non a chi rade al suolo le fondamenta delle chiese».

Una chiesa armena distrutta, la scrittrice Antonia Arslan, il dittatore azero Aliyev nel “Parco della Vittoria” a Baku con gli elmetti dei soldati armeni uccisi [QUIe il Ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, la scorsa settimana a Baku [QUI e QUI].

Scrive Giulio Meotti, presentando l’intervista: «“Genocidio Armeni: Non credo che il Gran Mufti turco abbia titolo a parlare dei valori del cristianesimo”, aveva scritto Giorgia Meloni nel 2015 [QUI]. Tutto dimenticato, a quanto pare, come se una volta al potere prevalesse l’etica della convenienza per cui si salvaguarda la libertà dei popoli solo quando è utile. E la libertà dell’Armenia non sembra grande utilità. “Voglio inviare un messaggio di speranza al popolo armeno, come a tutti i cristiani d’Oriente, oggi abbandonati dall’Occidente che sta perdendo il filo della sua civiltà”, ha scritto il francese Philippe de Villiers [QUI]. Nessun politico, ministro, scrittore, giornalista o personalità pubblica italiana deve ancora scrivere tanto, neanche dopo la guerra del 2020 o in questi 40 giorni in cui gli Armeni del Nagorno-Karabakh sono sotto blocco azero totale. Il governo italiano china il capo a Turchi e Azeri e un’inchiesta rivela il silenzio del Vaticano».

Prima di cinque figli, Antonia Arslan nasce a Padova nel 1938 da Michele Arslan – medico nato anch’esso a Padova da padre armeno e madre italiana – e da (Maria) Vittoria Marchiori. Suo nonno paterno, il cui nome era originariamente Yerwant Arslanian, era nato il 23 maggio 1865 a Kharpert (oggi cittadina turca nota con il nome di Harput). Yerwant cambiò poi il cognome familiare da Arslanian ad Arslan nel 1923. È stata professoressa di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Padova. Nel 2004 ha scritto il suo primo romanzo, La masseria delle allodole, pubblicato da Rizzoli, che ha vinto il Premio Stresa di narrativa, il Premio dei Lettori di Lucca ed è stato finalista del Premio Campiello e che tre anni dopo è stato portato sul grande schermo dai fratelli Taviani. Nel 2015, sempre con Rizzoli, ha pubblicato Il rumore delle perle di legno sulla sua infanzia in Italia, sulla propria madre e sul genocidio armeno.

Questo Blog dell’Editore oggi vuole rimediare ad una grande mancanza. Anzi, due, perché non abbiamo mai parlato: per primo di Antonia Arslan, che da anni sta promuovendo un programma di scambio culturale tra l’Artsakh e l’Italia, insieme alla fondazione Christians In Need Foundation (CINF); per secondo dell’istituto professionale intitolata a Antonia Arslan a Stepanakert, la capitale della autoproclamata Repubblica armena di Artsakh/Nagorno-Karabakh.

Gli Armeni dell’Artsakh hanno aperto in collaborazione con l’Italia la scuola Antonia Arslan per formare i giovani l’anno scorso, ad un anno dalla guerra dei 44 giorni mossa da Azerbajgian e Turchia, per far ripartire l’Artsakh.

Ricordiamo che gli Azeri hanno cominciato alle ore 07.15 di domenica 27 settembre 2020 la guerra dei 44 giorni [QUI], bombardando direttamente la capitale Stepanakert e, soprattutto, mirando a punti strategici e socialmente rilevanti come l’ospedale, dove è andato distrutto il reparto maternità, la centrale elettrica, scuole e asili. L’attacco è stato portato con missili, bombe a grappolo e al fosforo. Per 40 giorni gli allarmi si susseguivano quotidianamente. Praticamente le persone vivevano negli scantinati.

La minaccia azera agli Armeni che vivono nell’Artsakh (e non solo) è esistenziale, non solo militare. È in atto un genocidio, non solo culturale. E nessuno difende gli Armeni dagli Azeri, tanto meno l’Europa e l’Occidente “cristiani”, che non hanno mosso un dito per difendergli. Solo Vladimir Putin con la Federazione Russa pone un ostacolo alle mire espansionistiche azero-turche. Il problema principale degli Armeni dell’Artsakh è che si sentono isolati e traditi dall’Occidente. Oggi l’Artsakh è il baluardo della civiltà occidentale, accerchiata da paesi islamici, vittima di un tentativo di pulizia etnica. Anche dopo la firma del cessate il fuoco, gli Azeri continuano a tagliare elettricità, acqua e internet, fino a bloccare l’unica strada con l’Armenia e il resto del mondo, per rendere la vita impossibile alla popolazione di Artsakh, nella speranza che gli Armeni andranno via tutti. Ma questa è la loro terra e qui hanno una missione.

Con la guerra dei 44 giorno di fine 2022, a causa dei missili azeri e dei droni turchi, più di 7.000 edifici residenziali sono stati colpiti per un danno stimabile in 80-90 milioni di euro. In sei settimane di guerra sono morte circa 6.000 persone, in battaglia sono caduti circa 3.300 soldati, circa 40.000 Armeni hanno dovuto abbandonare la propria casa. L’aggressore azero, con l’aiuto della Turchia, ha occupato tre quarti di territorio dell’Artsakh. L’aggressore azero ha sottratti circa 2.000 monumenti, 10 musei statali e due privati, almeno 20 mila opere d’arte. La civiltà armena è in pericolo. Dopo la guerra di ottobre 2020 non solo parte del patrimonio armeno e vigneti storici sono passati nelle mani azere, ma anche 108 scuole, 37 tra asili, istituti di musica e arte, istituzioni culturali, 11 laboratori di ingegneria.

Gli Armeni vogliono la pace, mentre l’Azerbajgian della dittatura ereditaria di Ilham Aliyev e la Turchia del sultano Recep Tayyip Erdoğan vogliono l’Artsakh e l’Armenia; vogliono completare il genocidio del 1915, minacciando l’esistenza stessa degli Armeni.

Gli Armeni dell’Artsakh rispondono all’odio, alla crudeltà, ai metodi barbari e ai crimini di guerra degli azero-turchi con la scienza e l’educazione. Il primo passo di questo cammino è proprio la scuola professionale sorta nella capitale dell’Artsakh, Stepanakert, dove con l’aiuto di insegnanti e istituzioni locali e italiane, tra le quali la scuola alberghiera dell’istituto Don Gnocchi di Carate Brianza, sono stati istituiti corsi per falegnami, cuochi, sarti, parrucchieri e molto altro.

L’iniziativa era nata nella primavera del 2019 quando, per l’occasione della Giornata della Memoria, la scrittrice Antonia Arslan, era venuta a Carate Brianza per parlare del genocidio Armeno ai ragazzi del Liceo D. Gnocchi. Poi, nei mesi di ottobre e novembre successivi sono venuti in visita all’istituto alberghiero e il liceo Don Gnocchi una preside, il Ministro dell’Istruzione e il Presidente dell’Artsakh.

La costruzione della scuola era iniziata nel 2019, ma durante la guerra l’edificio è stato colpito intenzionalmente da un missile azero, che l’ha distrutto. Ma dopo la guerra è stato ricostruito subito. Si potrebbe dire che una scuola è soltanto una goccia nel mare, di fronte ai tanti bisogni dell’Artsakh, minacciato nella sua stessa esistenza. Ma è una goccia che fa la differenza. La scuola Antonia Arslan, a parte di fornire educazione professionale ai giovani Armeni, riaccende la speranza nella popolazione dell’Artsakh.

Però, oggi, con il blocco dell’Azerbajgian, come tutti gli istituti scolastici dell’Artsakh, la scuola è chiusa.

Parole di pace per l’Armenia di Antonia Arslan
7 ottobre 2020

Il Caucaso del Sud era precipitato da più di una settimana in una nuova guerra e la scrittrice Antonia Arslan lanciò come primo firmatario un Appello per la pace e la democrazia, che ha trovato subito l’adesione di tanti personaggi del mondo della cultura e di tanti cittadini. Una guerra azero-turca, troppo spesso ignorata dai nostri media, che ha prodotto una crisi umanitaria terribile per la popolazione civile di Artsakh/Nagorno-Karabakh, in seguito all’attacco dell’Azerbajgian, con l’aiuto della Turchia e il sostegno di mercenari islamici jihadisti. I due terzi della popolazione erano stati costretti alla fuga, in seguito ai bombardamenti incessanti che colpivano Stepanakert, Shushi e altri centri dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh.

Appello per la pace e la democrazia

È ormai da più di una settimana che il popolo armeno in Armenia e in Artsakh (Nagorno-Karabakh) sta respingendo la massiccia offensiva militare dell’Azerbajgian supportata apertamente dalla Turchia.
La capitale Stepanakert e le altre città e villaggi dell’Artsakh, gli ospedali e le scuole, sono bombardate con bombe a grappolo, con missili, cacciabombardieri e droni kamikaze. Il numero delle vittime civili sta crescendo. Anche diversi giornalisti della stampa internazionali sono rimasti feriti.
Ignorando gli appelli della comunità internazionale e dei mediatori internazionali (USA, Francia e Federazione Russa) per un cessate il fuoco immediato, l’Azerbajgian sta conducendo un’offensiva militare su larga scala contro l’Artsakh, con il diretto sostegno politico e militare della Turchia che sta trasferendo nella zona del conflitto armi e istruttori militari, nonché terroristi jihadisti dalla Siria. L’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Russia e la Francia, hanno già rilasciato dichiarazioni allarmate al riguardo e le principali testate giornalistiche italiane e internazionali hanno confermato l’infiltrazione, da parte turca, di terroristi jihadisti.
Noi tutti stiamo assistendo impotenti all’esportazione nel Caucaso Meridionale della politica destabilizzante neo ottomana della Turchia. La stessa politica destabilizzante che Erdoğan sta portando avanti in Siria, Libia e nel Mediterraneo orientale e che dovrebbe destare le più serie preoccupazioni dell’Europa e dell’Italia in primis.
In piena e grave violazione del diritto umanitario internazionale, l’Azerbajgian e la Turchia hanno ignorato gli appelli del Segretario Generale dell’ONU e di Papa Francesco per una tregua globale in tempo di Pandemia da Covid-19. Proprio nei giorni in cui il mondo intero sta celebrando il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, l’Azerbajgian intende sopprimere il diritto all’autodeterminazione che l’Artsakh esercita da prima della caduta dell’URSS.
Oggi, di fatto, il popolo armeno, sopravvissuto al genocidio commesso dall’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1923, sta di nuovo combattendo da solo contro il terrorismo internazionale e sta affrontando una minaccia per la sua stessa esistenza.
Ci appelliamo affinché l’Italia, che ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11 della Costituzione Italiana), dia il suo contributo significativo invitando la Turchia, con cui siede assieme al tavolo della Nato, a mettere immediatamente fine al coinvolgimento militare nel conflitto, e insista affinché tutte le parti ripristinino il cessate il fuoco e tornino ad accettare la strada di negoziati pacifici.
La guerra scatenata dall’Azerbajgian ha un unico obiettivo: quello di entrare in possesso del territorio dell’Artsakh ma senza i suoi abitanti.
Ci appelliamo perché, sempre fedele alla sua Costituzione, l’Italia supporti la lotta per la libertà e la democrazia del popolo dell’Artsakh.
Roma, 7 ottobre 2020

Nagorno-Karabakh, il grido della scrittrice Antonia Arslan: “La mia Armenia ha bisogno di voi, ma l’Europa tace”
Per l’accademica di origini armene solo la diplomazia “a muso duro” può fermare gli scontri:  “Dietro al conflitto c’è Erdoğan: è pericoloso e sottovalutato”
di Gabriella Colarusso
la Repubblica, 26 ottobre 2020

Ricorda quello che i giornali tedeschi scrivevano alla fine dell’Ottocento, Antonia Arslan, gliel’hanno raccontato i sopravvissuti della sua famiglia, l’ha studiato. “Scrivevano che gli armeni erano gli ebrei del Medio Oriente”, ci dice quando la incontriamo nella sala Nassiriya del Senato. È passato più un secolo dal genocidio del suo popolo per mano dei giovani turchi ma la guerra tra azeri e armeni nel Nagorno Karabakh riaccende nella scrittrice un’”ansia” ancestrale.

Nel 2004, quando aveva 66 anni, Arslan decise di condividere la memoria che suo nonno le aveva consegnato in un libro sul genocidio armeno, La masseria delle allodole, che è poi diventato un film dei fratelli Taviani. Alle otto italiane di oggi sarebbe dovuta partire la tregua annunciata dall’amministrazione americana, ma nel Nagorno si combatte ancora e i due fronti si accusano a vicenda di averla violata.

Qual è la strada per la pace?
“La diplomazia, anche dura. Visualizzo questo piccolo popolo arrampicato sulle montagne, che voleva solo vivere tranquillo, e poi questo attacco terribile che si è scatenato sulla capitale del Nagorno colpendo l’unica frazione degli armeni che non aveva subito il genocidio. Parliamo di un piccolo gruppo di montanari cristiani che vivono da sempre nel Caucaso, la terra delle mille nazionalità diverse. Temo per quello che può succedere. Nel 2006 l’Arzebajian distrusse i cimiteri armeni nel Nakhichevan con i carri armati, lì della presenza armena non c’è più traccia. Cancellata anche la loro memoria [*]. I 150mila armeni del Nagorno non voglio subire la stessa sorte. E il silenzio delle istituzioni italiane e dell’Europa mi lascia molto perplessa”.

Gli azeri sono finanziati e sostenuti dalla Turchia di Erdoğan, con cui l’Europa ha rapporti tesi in questa fase ma anche molti interessi condivisi.
“Erdoğan apre continui fronti di guerra, in Siria, con la Grecia, ora nel Nagorno, è pericoloso ed è sottovalutato. Non chiedo a nessuno di “morire per Danzica”, ma la diplomazia è anche saper usare il muso duro quando serve. E invece l’Europa tace in un silenzio assordante”.

Cosa muove l’ambizione turca?
“Lo chiamano neo-ottomanesimo ed è vero. Il sogno di Erdoğan è diventare il grande Califfo, conquistare la parte sud dell’Armenia, che fu data da Stalin all’Azerbaijan, prendersi quel pezzetto e collegare via terra la Turchia con le Repubbliche musulmane ex sovietiche dell’Asia centrale per esercitare influenza anche su quei territori”.

Il bombardamento della chiesa di Stepanakert, la capitale del Nagorno, è stato uno dei momenti più cruenti del conflitto finora. Perché un luogo di preghiera?
“Ci sono stata tre volte in quella chiesa, è su un’altura circondata dal verde, non c’è niente di militare intorno, volevano colpirla come simbolo. Il messaggio è che vogliono fare di questo conflitto anche una guerra di religione perché è quello che trascina le masse”.

Denuncia il silenzio dell’Europa e del nostro governo, ma l’Italia ha bisogno di Erdoğan in Libia.
“Se Erdoğan pensa di non avere bisogno dell’Italia non vedo perché dovrebbe aiutarci in Libia. Macron in Europa è l’unico che si fa sentire, anche perché la Francia ha una forte minoranza armena al suo interno, 500mila persone ben inserite, hanno avuto dei ministri, sindaci di grandi città. L’Europa segue la Germania e se la Germania non si muove non accade nulla”.

La Turchia è schierata con gli Azeri, ma cosa si aspettano gli armeni dai Russi?
“La Russia sta tenendo un atteggiamento ambiguo, ma non difendere il suo alleato storico significherebbe perdere la faccia in Asia centrale”.

[*] L’Azerbajgian ha commesso il peggior genocidio culturale del XXI secolo: ha distrutto tra il 1964 e il 1987 nel Nakhichevan 89 chiese armene, 5.840 khachkar e 22.000 lapidi. E questo è solo un esempio del genocidio culturale in un territorio sotto controllo azero. Come può uno Stato che non rispetta i monumenti dei morti rispettare i vivi? [V.v.B.].

In Nagorno Karabakh è in corso un tentativo di pulizia etnica?
Frontiere News, 18 ottobre 2020

A ventisei anni dal temporaneo accordo di Biškek, la regione caucasica del Nagorno-Karabakh è tornata nel caos. Lo scorso 27 settembre l’artiglieria azera ha effettuato degli attacchi missilistici e aerei diretti verso centri a maggioranza armena, tra cui la capitale Stepanakert. Da allora sono migliaia le vittime denunciate da entrambi gli schieramenti, di cui almeno un centinaio di civili, e ogni tentativo di attuare tregue naufraga poche ore dopo il cessate il fuoco.

Abitato da una maggioranza armena ma riconosciuto internazionalmente come parte dell’Azerbajgian, il territorio è conteso tra Baku ed Erevan. Dal primo conflitto del 1988, terminato nel 1994 con un cessate il fuoco privo di una concreta risoluzione della controversia, sono state diverse le recrudescenze degli scontri armati tra forze azere e armene (il cui apice si è raggiunto nella guerra dei quattro giorni in Nagorno Karabakh del 2014).

Gli interventi armati delle truppe azere possono configurarsi come atti di pulizia etnica? Quali scenari si stanno delineando nell’immediato futuro? Qual è la posizione dell’Unione europea? Quali strategie geopolitiche e interessi hanno Turchia e Russia? A queste e altre domande risponde il giornalista Simone Zoppellaro, con cui abbiamo analizzato la situazione. Autore dei libri Armenia oggi (2016) e Il genocidio degli yazidi (2017), Zoppellaro scrive per diversi media italiani, tra cui Frontiere News.

Quali sono le prospettive più verosimili nell’immediato?
Gli armeni hanno una posizione di debolezza evidente – in questo l’intervento turco è stato determinante a mutare gli equilibri. Una debolezza che si riflette in una perdita di posizioni, sia a Nord che al Sud del Karabakh, come ammesso anche dagli armeni. Ma anche e soprattutto nel fatto che la capitale Stepanakert e gli altri centri del Karabakh sono giorno e notte sotto i bombardamenti azeri, che hanno già provocato la fuga dei due terzi della popolazione, rifugiatasi in Armenia.
Se il conflitto dovesse continuare, difficile immaginare che gli armeni possano resistere e tenere la linea del fronte per molto tempo. La Russia, dati gli accordi militari con Yerevan, non è tenuta a intervenire fino a che non venga invaso il territorio armeno. E il Karabakh, da un punto di vista legale, non lo è. La teoria della guerra per procura fra Mosca e Ankara, a cui non ho mai creduto, trova assai poco terreno fertile in questa guerra. La realtà è assai più complessa. E la realtà è che l’Armenia, al momento, è sola a fronteggiare avversari assai più potenti.
Il rischio concreto è che si passi presto a un’invasione via terra. A una strage di dimensioni immani, nutrita da uno spirito di vendetta determinato dalla sconfitta azera degli anni Novanta e dal nazionalismo del regime, che vede negli armeni l’essenza stessa del male assoluto. Sono in tanti a fare finta di non vederlo, oggi.

Come giudichi l’approccio dell’Unione europea?
Qualcosa inizia a muoversi, anche perché è evidente ormai che l’intento di Erdoğan e Aliyev è quello di cercare di ridimensionare, tutto a loro favore, il peso diplomatico dell’Europa e degli USA nella regione, facendo leva su una Russia che al momento, però, è in posizione attendista.
Ma quanto finora fatto è poco: sembra quasi che le democrazie, ancora una volta, non abbiamo né la volontà né gli strumenti per fronteggiare stati assai più spregiudicati, che si fanno beffe dell’immobilismo, delle contraddizioni interne e delle retoriche accomodanti e non incisive dei nostri governi e delle istituzioni europee. Segni assai incoraggianti anche per gli aspiranti dittatori di domani; che non mancano, anche qui da noi.

Si parla di genocidio, termine spesso abusato. Lemkin, nel coniare questo termine, si riferiva allo sterminio di gruppi razziali e nazionali, contro le popolazioni civili di determinati territori occupati al fine di distruggere particolari razze e classi di persone e gruppi nazionali, razziali o religiosi. Secondo te l’offensiva azera è inquadrabile in questa prospettiva?
Presto per dirlo, ma gli indizi non mancano, e non vanno sottovalutati. I genocidi vanno prevenuti, non commemorati quando ormai sono storia. Questa è la lezione più grande che ci ha lasciato Lemkin. Al momento, direi senza esitazioni che è in atto un tentativo di pulizia etnica. Se poi la linea del fronte da parte armena non reggesse, dobbiamo essere pronti al peggio. Erdoğan stesso, che ha affermato pubblicamente di voler portare a termine la missione degli antenati ottomani rispetto alla questione armena, ha contribuito a fare della minaccia presente di genocidio un’arma. Che è anche un’arma psicologica, chiaramente, per seminare terrore fra gli armeni. Ma ve l’immaginate che succederebbe se la Merkel affermasse una cosa simile contro Israele?
Eppure, al regime di Ankara si abbona questo ed altro. Nel timore di fare il gioco delle destre e degli xenofobi, molti governi europei preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia. Spianando la strada peraltro, come detto, ai negazionisti e agli estremisti che – in Italia, in Germania, e in tanti altri paesi – sognano un ritorno della dittatura in Europa.

Cosa vuole portarsi a casa da questa situazione la Turchia?
La Turchia rientra di prepotenza nel Caucaso, rafforza la sua componente nazionalista interna, che si nutre di un odio viscerale contro gli armeni. È ingenuo considerare la Turchia di oggi uno stato su sola base religiosa. La formula vincente di Erdoğan è un mix tossico, ma molto ben calibrato, di religiosità popolare e nazionalismo. Ankara sogna di scalzare l’Europa e gli USA nel Caucaso, e di fare una bella spartizione con la Russia, con la quale ha già in corso una contrattazione sia sulla Siria che sulla Libia. Ma Putin, al momento, non sembra dargli corda.

E la Russia?
La Russia ha ben altri interessi che gli premono rispetto al Karabakh. A Putin interessa semmai l’Armenia, ed interessa che sia sempre più dipendente da Mosca. Che non ha mai digerito del tutto la rivoluzione di velluto del 2018. Un’anomalia nello spazio post-sovietico. Ora, la nuova Armenia di Pashinyan è costretta ad andare in ginocchio Putin di aver salva la vita. Per non parlare dei milioni di dollari in armamenti che la Russia esporta, con un doppio gioco evidentissimo, sia a Baku che a Yerevan. Cosa sarà mai un fazzoletto di terra come il Karabakh, privo di risorse peraltro, per Mosca? Poco o nulla, credo.

Amnesty International ha dichiarato il 5 ottobre di aver identificato “munizioni a grappolo M095 DPICM di fabbricazione israeliana che sembrano essere state sparate dalle forze azere”. Che idea ti sei fatto a tal proposito? Del resto anche l’Azerbaigian ha accusato l’Armenia di usare munizioni a grappolo.
Un’idea assai precisa, dato che sono armi che ho visto con i miei occhi nel 2016 in Karabakh. Non è la prima volta che vengono usate in questo contesto. Sono anni, appunto. L’ospedale di Stepanakert, mi raccontano due e colleghi e amici che l’hanno visitato nei giorni scorsi, Daniele Bellocchio e Roberto Travan, è pieno di feriti con frammenti di bombe a grappolo nel corpo e nel cervello.
Non sono però in grado di valutare se anche gli armeni le abbiano utilizzate nei loro attacchi contro le città azere. Amnesty stessa, se si legge il loro comunicato, ammette di non aver le prove per affermarlo, mentre afferma, al contempo, il loro utilizzo contro la popolazione del Karabakh.

Da Salvini a una certa cerchia ultra-cattolica, sembra che il conflitto in Nagorno Karabakh venga usato in funzione anti-islamica. Del resto, da gran parte del mondo politico e culturale c’è un assordante silenzio. Sei d’accordo?
Ai leghisti ricorderei che, da diversi anni, a capo della lobby pro-azera nel parlamento italiano ci sono membri del loro partito. Al Vaticano, che hanno ricevuto finanziamenti assai ingenti, ufficialmente per scopi culturali, dal regime di Baku. Non scherziamo. Non bastano un paio di selfie e una frasetta pronunciata all’Angelus per modificare la nostra politica estera; che, fra quelle europee, è fra le più asservite ad Ankara e a Baku.
Giusto per essere ecumenico, ricorderei il silenzio assordante della sinistra italiana in queste settimane. Un silenzio che parte dai media, passa per il mondo dell’associazionismo e del pacifismo e arriva dritto al governo. Per non parlare di Renzi, grande sostenitore del regime di Baku, di cui ha tessuto panegirici degni di un poeta medievale.
Tornando alla domanda, è in atto un tentativo goffo e improprio (soprattutto in Italia) di far passare questa guerra come un conflitto di religione. Basta andare a leggersi la lista dei prigionieri politici in Azerbaigian per rendersi conto come il gruppo più nutrito sia proprio quello di matrice religiosa. Parliamo piuttosto del gas e del petrolio che importiamo da Baku, uno dei nostri principali fornitori. Si toccasse quel punto, e questa guerra cadrebbe come un bel castello di carte.

Come raccontare in maniera equilibrata questo conflitto senza cadere nelle trappole del fanatismo o del tifo da stadio?
Per raccontare in modo equilibrato questa guerra, infine, basta conoscerla. Si deve uscire dalla logica feroce e ludica della geopolitica per guardare al dramma delle popolazioni civile coinvolte. Gli armeni che vivono da venti giorni stipati in rifugi aerei, nel Karabakh, o in fuga per l’impossibilità a resistere a questo inferno. Gli azeri, anch’essi colpiti in alcune città, e sottomessi da una dittatura feroce, quella della famiglia Aliyev, al potere quasi ininterrottamente dal 1969. Una dittatura che trae il suo primo sostentamento proprio da questo conflitto, che rappresenta la leva fondamentale con cui si soffoca ogni opposizione interna.
I contrapposti nazionalismi, sempre più accesi in questi giorni, minacciano di avvelenare le future generazioni di armeni e di azeri, con danni che rischiano di estendersi ben oltre la conclusione di questa guerra. Lo stato di eccezione e la legge marziale rischiano inoltre di mandare in cenere i progressi democratici dell’Armenia del post-2018.

Hai vissuto per molto tempo in Armenia e per qualche mese in Karabakh. Che aria si respirava? Le persone si aspettavano questo conflitto?
Questo conflitto, che è rimasto congelato per oltre un quarto di secolo, aveva subito una prima scossa violente nell’aprile del 2016, quando in quattro giorni c’erano state centinaia di morti. Il timore di un ritorno alla guerra aperta c’è sempre stato, ma la violenza e la velocità con cui si sono svolti gli eventi di queste tre settimane di guerra – nessuna donna o uomo, non solo in Karabakh, può essere preparato a questo. Ricevo tutti i giorni messaggi e chiamate da armeni, spesso in lacrime, che sono distrutti, demoralizzati e arrabbiati. Arrabbiati soprattutto perché pensano, non a torto, che il mondo li abbia abbandonati.

Perché l’Armenia non riconosce l’Artsakh?
Perché, dopo il cessate il fuoco del 1994, non si è mai arrivati a un accordo di pace. Un accordo sul quale, allora, le speranze erano assai più concrete di oggi. Il punto non è solo il riconoscimento dell’Artsakh, come gli armeni chiamano il Karabakh. Un altro punto importante sono i sette distretti adiacenti che non sono parte del Karabakh, nonostante siano occupati dagli armeni sin dalla guerra. Un compromesso territoriale non sarebbe impossibile da raggiungere. Eppure, dopo oltre un quarto di secolo, siamo ancora qui.

In che modo lo scioglimento dell’URSS ha influito sul riemergere della questione?
La questione del Karabakh, la cui attribuzione all’Azerbaigian (allora repubblica socialista parte dell’Unione) fu determinata agli inizi dell’esperienza sovietica, riesplode durante la Perestrojka, proprio in ragione della maggior libertà di espressione che si afferma. Se i confini attuali di Armenia e Azerbaigian, e non solo, furono determinati da un processo non troppo dissimile, mutatis mutandis, da quello portato avanti in Africa da potenze coloniali quali Inghilterra e Francia, non fu mai offerto alle popolazioni coinvolte la possibilità di esprimersi in proposito. Questo ha provocato tante guerre, non solo in Karabakh.

Chi seguire, in Italia e a livello internazionale, per avere notizie accurate sul conflitto?
Uno dei problemi che si trova a dover fronteggiare chi cerchi di fare informazione sulla guerra in Karabakh è il problema di trovare fonti attendibili. È una richiesta che mi viene fatta spesso, e denota da un lato l’incapacità tutta italiana di comprendere e raccontare una guerra di cui non si è mai occupato nessuno per anni.
L’Azerbaigian, secondo il World Press Freedom Index di RSF (lo studio più accreditato al mondo in materia) è al 168 posto su 180 paesi per la libertà di stampa e dei media. 14 posti dietro alla Turchia, per intenderci. Non solo: il sito del Ministero degli Esteri azero pubblica e aggiorna periodicamente sul suo sito una lista di persone non gradite (1.020, nell’ultima versione) a cui è impedito di viaggiare sul suo territorio. Include soprattutto giornalisti, scrittori, donne e uomini di cultura.
A molti di loro (o meglio, di noi, perché anch’io sono in quella lista) arrivano periodicamente minacce e intimidazioni da troll anonimi o anche da figure governative. Purtroppo, fra le vittime di questo sistema, ci sono anche le vittime (reali) di questo conflitto che sta colpendo, in questi giorni, anche Ganja e altri centri dell’Azerbaigian, non solo gli armeni. Vittime su cui grava il buio di un sistema di disinformazione fra i più malati al mondo. Da parte armena, dove normalmente la situazione è assai migliore, la legge marziale introdotta all’inizio della guerra impone un controllo capillare sui media.
Ci sono giornalisti italiani che hanno fatto lavori splendidi in questi giorni, come i già ricordati Daniele Bellocchio e Roberto Travan, oltre ad analisti come Aldo Ferrari, che ha scritto libri fondamentali sul Caucaso. E ci sono siti di informazione, come East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso, che sono di ottima qualità. Da un punto di vista internazionale, raccomando OC Media, oltre ad analisti come Thomas de Waal, autore di uno splendido libro sul Karabakh. Raccomando infine di usare Twitter che nel Caucaso è da sempre il riferimento fondamentale per raccogliere voci fuori dal coro (e dalla censura).

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]