Gli armeni divisi dalla Grande Guerra tra massacri e fughe (Ilpiccolo 18.05.18)

Inizia oggi, e fino a domenica, il festval èStoria di Gorizia, dedicato quest’anno al tema delle “Migrazioni”. Fra primi appuntamenti della giornata, alle 17, in Sala Dora Bassi, via Garibaldi 7, “L’Ungheria lacerata: il trattato del Trianon e le conseguenze sulle migrazioni”, con Stefano Bottoni, Cesare La Mantia e Adriano Papo. Sul tema delle migrazioni dei primi del novecento interverrà fra gli altri anche Mustafa Aksakal, professore associato di Storia e Nesuhi Ertegün Chair of Modern Turkish Studies alla Georgetown University che domenica, alle 15, all’Unione Ginnastica Goriziana (Sala del caminetto), parlerà su “La fine dell’impero ottomano e la catastofe delle minoranze”. Converseranno con lui Siobhan Nash-Marshall e Antonia Arslan, coordinerà Marco Cimmino. Anticipiamo di seguito un brano dell’intervento di Mustafa Aksakal.

Alla vigilia della Grande Guerra la Sublime porta navigava in acque difficili. La “primavera ottomana” del 1908-1909 aveva segnato l’apice del patriottismo civico, portando con sé elezioni, un parlamento e una costituzione che fu celebrata da un capo all’altro dell’impero come la panacea di tutti i mali. In migliaia sfilarono in un oceano di bandiere recanti lo slogan “libertà, uguaglianza, fratellanza” scritto in arabo, armeno, greco, ebraico, curdo e turco ottomano, spesso uno a fianco dell’altro. Poi arrivarono le perdite territoriali causate dal conflitto con l’Italia e dalle guerre balcaniche. Isolato diplomaticamente, l’impero vide nella crisi di luglio un’opportunità. All’alba del 2 agosto del 1914, dopo una lunga notte di negoziati nella sua residenza sul Bosforo, il gran visir Said Halim Pascià, assieme a tre ministri, siglò un trattato segreto di alleanza con l’ambasciatore tedesco. Il 29 ottobre del 1914 l’impero ottomano fece il suo ingresso nella Prima guerra mondiale a fianco degli Imperi centrali.

Il risultato fu la catastrofe per il Paese. La guerra, le epidemie, le carestie, le deportazioni politiche e i massacri ad opera dello Stato ridussero drasticamente sia la popolazione che il Pil dell’impero. Le conseguenze sul piano politico furono altrettanto drammatiche: la fine della dinastia ottomana, l’abolizione del califfato islamico e lo smantellamento dell’impero per mano delle potenze europee. Questo quadro drammatico favorì la censura di molti degli avvenimenti più recenti, e una drastica limitazione dell’ambito dei dibattiti storiografici in generale. In un simile contesto spiccano quindi per originalità i resoconti personali di due armeni che prestarono servizio nell’esercito ottomano: Kalusd Sürmenyan da Erzincan e Yervant Alexanian da Sivas. Entrambi servirono durante la Grande Guerra, anche in qualità di ufficiali. Kalusd si diplomò all’accademia militare nel 1912, appena in tempo per prestare servizio come sottotenente durante le guerre balcaniche. Yervant, nato nel 1895, allo scoppio della Grande Guerra non aveva ancora l’età per essere arruolato. Nell’autunno del 1914 iniziò l’ultimo anno della scuola superiore francese amministrata dai gesuiti, dove pareva destinato a essere il primo della classe. Nel mese di novembre, però, l’istituto venne chiuso e l’edificio requisito dalle autorità militari. L’anno successivo Yervant divenne un soldato semplice (poi sarebbe diventato sottotenente) e si trovò a servire nello stesso esercito che, grosso modo in quel periodo, sterminò 51 membri della sua famiglia. Anche quella di Kalusd subì una sorte analoga nel 1915: egli perse sua madre, ma riuscì a salvare gli altri.

Nelle memorie dei due il resoconto del trattamento subito nel tardo periodo ottomano è sorprendente. A dispetto delle feroci politiche adottate dallo Stato contro gli armeni durante la Grande Guerra, Kalusd e Yervant spendono parole per lo più positive circa la società ottomana prebellica. Kalusd mette in evidenza il patriottismo dei giovani armeni dopo gli eventi del 1908, e come a questi fosse aperta la carriera nell’esercito. Descrive le autorità militari della sua città, Erzincan, ospitali e ben disposte; esse permettevano agli armeni di frequentare la chiesa e di osservare le festività religiose. Aggiunge anche che gli ufficiali turchi musulmani rispettavano i soldati armeni, e li consideravano “talentuosi e capaci”. Dopo la Costituzione, ci dice Kalusd, i turchi riservavano ai cristiani, e specialmente agli armeni, un trattamento “sincero e amichevole”; continua notando che “in tutti gli ambiti della carriera militare, le porte erano aperte agli armeni”. Pochi storici accetterebbero queste affermazioni senza grosse riserve. Ciò che qui conta più di tutto, però, sono la positività e l’ottimismo con cui Kalusd – pur ben consapevole di ciò che accadde al suo popolo durante la Grande Guerra – sceglie di descrivere la situazione alla vigilia del conflitto. Yervant Alexanian da Sivas – a circa 250 chilometri a ovest da Erzincan, la città di Kalusd – dipinge la situazione prebellica in termini altrettanto positivi. Ciò avviene ad esempio per i giochi “olimpici” locali. La società sportiva armena Bertevagoump “si aggiudicò la gran parte delle medaglie, guadagnandosi l’ammirazione generale”. Egli racconta la storia di come, durante la cerimonia di consegna dei riconoscimenti, “tutti gli atleti armeni in piedi cantando l’inno turco durante l’alzabandiera”. E, assicura Yervant, non si trattava di una formalità. Egli tuttavia non apparteneva a questo gruppo, e riferisce di non conoscere bene nessuno di questi atleti o le loro posizioni politiche. Ciò che tuttavia gli preme dire su Sivas (e a Kalusd su Erzincan) è che prima del 1914 gli armeni fossero ben integrati e, cosa ancor più importante, che “nessuno avrebbe creduto” al fatto che essi “sarebbero potuti essere sterminati così rapidamente”. Come scrive Yervant, “nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che stava per accaderci, neppure i sopravvissuti ai vari pogrom e massacri, come quelli hamidiani, che precedettero il genocidio del 1915”. Yervant, la cui famiglia fu sterminata, ci teneva a specificare che, per quanto il suo popolo fosse accusato di azioni rivoluzionarie volte a minare lo sforzo bellico ottomano, “nessuna di queste vittime innocenti era affiliata ad alcun partito o coinvolta in alcuna attività politica”. Esse non avevano fatto nulla: “il loro unico crimine fu di essere armeni”.

I resoconti di Kalusd e di Yervant fanno luce sulla vita degli armeni che servirono nell’esercito ottomano, l’istituzione responsabile del massacro dei loro familiari. Queste fonti sono tentativi convincenti di interpretare gli eventi in mezzo a cui si ritrovarono i due, e il ruolo che vi svolsero. Le posizioni politiche di Kalusd subirono, durante il conflitto, dei mutamenti radicali. Lo stesso accadde a Yervant. Prima della guerra Kalusd si era dedicato anima e corpo a una carriera nell’esercito ottomano. Durante il conflitto si guadagnò una medaglia al merito, e nel 1915 fu sorpreso nell’apprendere che alcuni armeni combattessero con i russi. Ancora nel 1919, egli scriveva con soddisfazione della fedeltà all’impero sua e del suo popolo.

Molti diari e resoconti scritti durante o subito dopo la guerra danno voce ad atteggiamenti sfumati e mutevoli nei confronti dell’impero, della religione, e della nascente nazione. Queste prospettive “transitorie” si trovano spesso in netto contrasto rispetto alle nuove direttive politiche stabilite nei tardi anni Venti. Le storie che ci raccontano Kalusd e Yervant non rispecchiano le posizioni della storiografia sulla Grande Guerra nel Medio oriente, che spesso dà per scontato l’inevitabile crollo dell’impero ottomano.

Sia Kalusd che Yervant spesero il resto delle proprie vite lontano dai loro luoghi natali. Nessuno dei due lo aveva del tutto pianificato. Dopo la guerra Yervant intendeva stabilirsi ad Adana, ma notizie circa le magre prospettive lavorative lo fecero desistere. Finì con l’accompagnare

la sua futura cognata negli Stati Uniti, dove si stabilì e mise su famiglia. Kalusd invece fuggì dall’Armenia sovietica e si rifugiò a Bagdad, “con grande nostalgia di casa e la profonda convinzione che, un giorno, ci saremmo ritornati”.

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