High tech e geopolitica, così Erdogan è diventato il signore dei droni da guerra (Repubblica 22.12.20)

A gennaio di quest’anno, quando il Parlamento turco ha autorizzato l’invio di soldati in Libia, l’esercito di Recep Tayyip Erdogan ha rapidamente cambiato il corso della guerra costringendo le milizie del generale Khalifa Haftar – sostenuto da russi, egiziani, emiratini e francesi – a ripiegare verso est.  Agli inizi di ottobre, il presidente azero Ilham Aliyev ha ringraziato pubblicamente la Turchia per avergli consentito di vincere la guerra contro gli armeni: “Se non avessimo ottenuto queste capacità (dei droni, ndr) – ha detto – sarebbe stato molto più difficile”. In Libia come nel Nagorno Karabakh a fare la differenza nel conflitto è stata una tecnologia su cui i turchi investono da 10 anni e che è diventata un punto di forza per le ambizioni geopolitiche di Erdogan nel Mediterraneo e in Asia centrale: l’industria dei droni.

I droni turchi hanno “rivoluzionato” le regole del gioco nelle guerre in Libia e in Siria, ha ammesso a luglio Ben Wallace, il segretario alla Difesa britannico, probabilmente avendo in testa le immagini dei Bayraktar TB-2 turchi che abbattevano i missili Pantsir di fabbricazione russa in Siria.

La Turchia ha iniziato a sviluppare gli arei a pilotaggio remoto agli inizi degli anni Duemila – prima per missioni di sorveglianza e intelligence, poi armandoli – quando si è resa conto che difficilmente avrebbe potuto ottenerli da Paesi stranieri come gli Stati Uniti o Israele. Oggi è diventata un attore importante del mercato, e si candida a competere con la Cina anche per le esportazioni in Africa, in Medio Oriente, in Asia, dove le regole più rigide per l’export militare impediscono agli Stati Uniti di conquistare mercato. Ha già venduto droni al Qatar e alla Libia, all’Azerbaijan e all’Ucraina e sta negoziando possibili forniture con alcuni Stati dell’Asia centrale e meridionale come il Kazakistan e l’Indonesia, ci conferma Arda Mevlutoglu, analista esperto di Difesa di base ad Ankara. Ci sono notizie che un drone della Turkish Aerospace Industry, l’Anka-S, si stato ordinato anche dalla Tunisia.

Questo attivismo si riflette nei numeri: nel 2002 la Turchia esportava 248 milioni di dollari attrezzature militari, l’anno scorso è arrivata a 3 miliardi, secondo il rapporto annuale dell’associazione turca delle industrie della Difesa e dell’Aerospazio, la Sasad.

Il manager e l’ingegnere: gli uomini della Difesa 

L’industria della difesa turca ruota intorno a due figure chiave: Selcuk Bayraktar, 41 anni, l’ingegnere aerospaziale che ha guidato l’ascesa della Baykar, l’azienda produttrice dei Bayraktar TB-2. E’ anche il cognato di Erdogan, ha sposato la figlia più piccola del presidente, Sümeyye. L’altro è Ismail Demir, un manager vicinissimo a Erdogan che ha passato molti anni di studio e di lavoro negli Stati Uniti ed è a capo delle industrie della difesa turche: di recente è stato sanzionato dagli americani per l’acquisto del sistema russo S-400. Entrambi stanno cercando di far avanzare la capacità aeronautica turca superando i limiti dell’industria nazionale.

Il 15 dicembre ha Turchia ha firmato un accordo con l’Ucraina: forniture militari in cambio di know how nello sviluppo dei droni. “L’Ucraina ha una forte base industriale soprattutto nei motori e nell’elettronica, che può essere utile alla Turchia. Un buon esempio è il drone strategico Akinci, che è in fase di test ed è equipaggiato con due motori turboelica ucraini”, spiega Mevlutoglu. L’altro progetto riguarda lo sviluppo di un jet da combattimento, un obiettivo ambizioso visto che “la Turchia fino ad ora non ha mai prodotto un aereo a reazione” e “non dispone di infrastrutture di test e sviluppo adeguate e di risorse umane per produrre e testare un velivolo da combattimento avanzato. Il roll-out è previsto nel 2023, i primi voli un paio di anni dopo”. In soccorso di Ankara è corsa la Bae Systems britannica che ha un ruolo da consulente tecnico nel progetto.

Il Canada dice no all’export militare, la Germania frena  

Altri Stati si sono disposti invece in maniera diversa nei confronti della crescita militare turca. A ottobre, dopo il conflitto nel Nagorno, il Canada ha sospeso l’esportazione verso la Turchia di componenti che possano essere utilizzati per fare i droni. La Germania si è invece opposta a un embargo totale delle forniture di armi alla Turchia che era stato chiesto dalla Grecia dopo le tensioni nel Mediterraneo Orientale. “Abbiamo già sperimentato una volta come la Turchia, quale membro della Nato, abbia acquistato missili dalla Russia perché non li riceveva più dagli Stati Uniti”, ha detto martedì il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas.

Ulteriori limitazioni potrebbero spingere Ankara a cambiare la sua catena di fornitura, guardando magari a est? Probabilmente la Turchia “aumenterà gli sforzi nell’indigenizzazione delle tecnologie oltre a trovare fonti alternative”, riflette Mevlutoglu. “L’industria della difesa è sempre stata una delle massime priorità in Turchia, indipendentemente dalla visione politica del partito o del leader al potere. Sulla base dell’esperienza dell’embargo statunitense nel 1975 e degli anni ’90 e ultimamente delle sanzioni Caatsa, la Turchia agirà sicuramente in maniera ancora più attiva”.


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