Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian ha dimostrato che la regione non è più lo stesso “giardino di casa” della Federazione Russa. (L’intellettuale dissidente 15.06.21)

Il Caucaso, affacciato sul Mar Nero e sul Caspio, confine naturale tra l’Europa e l’Asia, è stato nella storia uno degli unici due punti di contatto tra l’Unione Sovietica e un Paese Nato, oltre a ricoprire il ruolo di serbatoio petrolifero di Mosca. Il collasso dell’Urss di inizio anni ’90 ha portato alla separazione politica della regione: i territori settentrionali, tra cui spiccano Cecenia e Daghestan, sono rimasti sotto il controllo della nascente Federazione Russa, mentre le ex-repubbliche sovietiche di Georgia, Armenia e Azerbaigian hanno dichiarato la propria indipendenza. Perno cruciale della politica estera sovietica, il Caucaso si è trasformato in una polveriera all’inizio degli anni ’90. Le tensioni etniche e religiose, appianate dalle autorità sovietiche, sono esplose in concomitanza con la creazione degli Stati-nazione, vista anche l’impossibilità di tracciare confini statali che soddisfacessero i vari attori in causa. Il processo di indipendenza da Mosca delle ex-repubbliche satelliti è stato segnato da numerosi conflitti interetnici, come dimostra oggi l’esistenza di entità parastatali in Georgia, le repubbliche di Abcasia e dell’Ossezia del Sud, e in Azerbaigian, la repubblica di Artsakh. Alla fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000, Mosca ha inoltre ripetutamente inviato l’esercito a combattere e sopprimere i movimenti separatisti di matrice islamista ceceni e daghestani, nell’estremo sud del Caucaso rimasto sotto il controllo della Russia. Le turbolenze regionali rendono dunque il Caucaso fortemente soggetto a ingerenze straniere. La Russia ha sempre considerato la regione come il proprio «giardino di casa». Nell’impellenza di evitare un eccessivo consolidamento dell’Alleanza atlantica a ridosso delle proprie frontiere, le ex-repubbliche caucasiche fungono da cordone di sicurezza, uno degli ultimi rimasti all’interno di un quadro che ha visto molti Stati, un tempo membri del Patto di Varsavia, cambiare bandiera. A differenza di quanto successo in Europa orientale infatti, Mosca ricopre un ruolo centrale nell’area, esercitando ancora oggi una forte influenza.

A seguito del disfacimento dell’Urss, la Russia è stata in grado di sfruttare a proprio vantaggio l’esplosione delle tensioni regionali, garantendosi un ruolo preminente per quello che riguarda la mediazione tra gli attori in causa e la protezione dei propri interessi. Nel Caucaso, il Cremlino punta al mantenimento dello status quo, intervenendo chirurgicamente quando necessario. Questo è avvenuto in Georgia nel 2008, quando il presidente Saakashvili aveva dichiarato di voler portare il Paese nell’orbita della Nato, così come nel corso del conflitto tra Armenia ed Azerbaigian. Se in Georgia si è trattato di un intervento militare, nel Nagorno-Karabakh la Russia si è imposta come mediatore diplomatico, portando alla firma di un cessate il fuoco. L’elemento comune che ha guidato gli interventi russi è stata la volontà di mantenere inalterata la propria centralità regionale a fronte diingerenze straniere, americane in Georgia e turche in Azerbaigian. Tra settembre e novembre 2020, l’ormai quasi trentennale conflitto tra Armenia ed Azerbaigian ha assunto una nuova dimensione, cambiando definitivamente gli equilibri regionali risalenti alla firma di un cessate il fuoco del 1994. Il conflitto, che si è protratto per quasi cinquanta giorni, è stato caratterizzato dall’avanzata azera all’interno dei territori della Repubblica di Artsakh, l’entità parastatale armena nel Nagorno-Karabakh. La fine delle ostilità, mediata dall’intervento russo, ha permesso all’Azerbaigian di uscire fortemente rafforzato dallo scontro, sia da un punto di vista militare che territoriale. Baku ha infatti mantenuto il controllo dei territori conquistati durante l’avanzata, insieme alla riconsegna, da parte dell’esercito armeno, di sette distretti occupati nel corso del conflitto degli anni ‘90. L’accordo ridimensiona inoltre i confini della Repubblica di Artsakh e garantisce al governo di Baku la possibilità di costruire un collegamento stradale che connetta il territorio azero con l’exclave di Naxçivan. La tregua, per cui si è speso in prima persona il presidente russo Vladimir Putin, assegna ai berretti verdi del Cremlino il ruolo di peacekeeper nell’area, a garanzia degli accordi di pace.

La vittoria militare azera rappresenta un vero e proprio cambiamento dello status quo regionale, e le motivazioni vanno ricercate nei cambiamenti che hanno caratterizzato entrambi i Paesi dalla firma degli accordi del 1994. Ilham Aliyev, presidente azero succeduto a suo padre Gaydar, ha dichiarato in occasione della parata della vittoria:

«Abbiamo accresciuto la nostra forza negli ultimi anni, potenziato l’economia, accresciuto il nostro ruolo nell’arena internazionale (…) L’Azerbaigian ha sostenuto un grande sviluppo negli anni recenti e, passo dopo passo, la nostra superiorità si è manifestata in maniera sempre più evidente».

Le parole di Aliyev dicono molto di quanto sia cambiato l’Azerbaigian negli ultimi venticinque anni. Lo sfruttamento delle risorse di gas naturale, di cui il Paese abbonda, ha permesso il rilancio dell’economia nazionale e, soprattutto, la creazione di un esercito moderno dotato di un arsenale all’avanguardia. Nel corso del recente conflitto infatti, l’Azerbaigian ha potuto contare su una serie di armamenti di moderna generazione, contro il quale poco ha potuto l’esercito armeno, ancora dotato di armi dell’era sovietica. Il fattore decisivo si è dimostrato essere l’utilizzo dei droni da combattimento, di provenienza turca e israeliana, grazie ai quali Baku ha potuto ottenere rapide conquiste. Il giorno della parata per la vittoria tra le strade di Baku, al fianco di Aliyev era presente anche Recep Tayyip Erdogan, ringraziato per aver dimostrato la sua vicinanza e il suo sostegno alla causa azerbaigiana sin dallo scoppio del conflitto. I due Paesi, entrambi turcofoni, si considerano parte della stessa nazione, accumunati dall’inimicizia nei confronti dell’Armenia. Per la Turchia, il conflitto che ha opposto Baku ad Erevan rappresentava una vetrina importante. Da un lato, le posizioni filo-azerbaigiane rappresentano un elemento di notevole attrazione per l’elettorato conservatore di Erdogan, da sempre attento alla questione armena. Dall’altro, il conflitto ha permesso la messa all’opera dei droni prodotti dalle aziende militari hi-tech turche, in un momento in cui il settore è in forte espansione e Ankara si candida al ruolo di leader produttore in Africa e Medio Oriente.

In Armenia invece, la sconfitta e la conseguente perdita dei territori occupati rappresenta una ferita nazionale. La retorica nazionalista ruotante attorno alla questione dell’Artsakh ha condizionato la politica armena degli ultimi trent’anni, motivo per cui la popolazione ha accolto la firma del cessate il fuoco come un tradimento. Nikol Pashinyan, eletto primo ministro in seguito alla “rivoluzione di velluto” del 2015, è riuscito a sopravvivere a un tentativo di colpo di stato da parte dell’esercito e si è candidato alle elezioni in programma per il prossimo 20 giugno. Tuttavia, la sconfitta militare non sarà facilmente superabile. L’esercito armeno è apparso completamente impreparato a fronteggiare le truppe di Baku, perdendo facilmente il controllo delle posizioni occupate. Gli stretti legami politici, commerciali e militari che legano Erevan con la Russia, esiste tra i due Stati anche un trattato di cooperazione militare (il Ctso), hanno portato gli armeni a credere che mai il Cremlino avrebbe permesso un ridimensionamento del loro controllo sui territori del Nagorno-Karabakh e dintorni. Tuttavia, la «rivoluzione di velluto» del 2015 e la conseguente elezione di Nikol Pashinyan ha quantomeno alterato i rapporti con Mosca. Eletto grazie a una piattaforma politica innovativa, democratica e critica nei confronti del sistema politico precedente, dominato dalla corruzione endemica e dai legami con Mosca, Pashinyan ha cercato di dare inizio a un processo che guardasse anche a Ovest. Chiaramente, il Cremlino non è rimasto entusiasta di questi tentativi. Allo scoppio del conflitto, la Russia ha fatto sapere che il Ctso non era attivabile al momento, visto che i combattimenti non avvenivano in territori de iure armeni. L’accusa nei confronti di Mosca è di essere intervenuta troppo tardi, permettendo agli azeri di compiere importanti conquiste territoriali e imporre un cessate il fuoco solo al momento ritenuto più opportuno per i propri interessi. Il fatto che sia Aliyev che Pashinyan abbiano accettato che siano le truppe del Cremlino a gestire le operazioni di peacekeeping è un segnale importante, dal momento che era dal 1992 che i soldati di Mosca non stazionavano in Azerbaigian. Va inoltre sottolineato come la Russia abbia sempre cercato di mantenere un ruolo super partes, mantenendo un certo equilibrio tra i due contendenti e intrattenendo ottimi rapporti commerciali non solo con Erevan, ma anche con Baku, a cui ha fornito circa il 30% degli armamenti che compongono il suo arsenale.

Rimanendo alla finestra, la Russia ha saputo sfruttare gli scontri tra gli eserciti di Baku ed Erevan per rinforzare la propria posizione. I berretti verdi di Mosca sono dislocati, sin dal 2008, nelle repubbliche separatiste georgiane, a sostegno della popolazione russofona che le abita. Da adesso, saranno presenti anche nei territori contesi del Nagorno-Karabakh, garantendo al Cremlino il controllo delle aree più turbolente della regione. Anche per questo motivo, Putin si è opposto alla richiesta del presidente Aliyev di assegnare compiti di peacekeeping anche alle truppe di Ankara. Il crescente attivismo turco, diventato ormai una costante nei territori un tempo sotto il controllo dell’impero ottomano, prende piede anche nel Caucaso, spingendo verso una nuova forma di collaborazione con Mosca, alla luce di quello che è un costante rimodellamento degli equilibri geopolitici internazionali.

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