Il genocidio armeno e la politica eurasiatica italiana (Lintellettualedissidente.it 30.04.19)

La Camera dei Deputati ha approvato una mozione che impegna il governo a riconoscere formalmente il genocidio consumato ai danni del popolo armeno: un gesto che ribadisce i forti legami culturali e religiosi tra Roma ed Erevan e conferma il progressivo riavvicinamento dell’Italia al cuore pulsante dell’Asia.

di Maxence Smaniotto – 30 Aprile 2019

Il 10 aprile 2019 la Camera ha approvato la mozione che riconosce il genocidio dei sudditi armeni dell’impero ottomano ad opera del governo dei Giovani Turchi, nel 1915, in piena Prima guerra mondiale. La mozione è passata con 382 voti favorevoli, 0 contrari e 43 astenuti, cioè tutti i deputati di Forza Italia. Fortemente voluta dalla Lega e da Fratelli d’Italia, la mozione è stata ugualmente sostenuta dal Partito Democratico, e impegna il governo Conte a riconoscere pienamente il genocidio del 1915. Considerati come quinta colonna agli ordini della Russia, i panturchisti che avevano conquistato il potere nell’impero ottomano in occasione della rivoluzione del 1909 massacrarono un milione e mezzo di armeni che vivevano nelle regioni orientali dell’impero, in ciò aiutati dalle tribù kurde e dai Circassi. Roma è di conseguenza a un passo dal divenire il ventinovesimo Paese al mondo a riconoscere i massacri del 1915 per quello che furono: un genocidio, la volontà, da parte della maggioranza turcofona e sunnita, di eliminare ogni minoranza religiosa, a cominciare dalla più numerosa, quella cristiana degli armeni. Ma non furono solamente loro ad essere massacrati, le loro donne vendute come schiave negli harem e i loro orfani turchizzati al fine di sradicarne l’identità. Ben prima dei demenziali massacri ad opera dello Stato Islamico, yezidi, aleviti, assiro-caldeani e greci patirono ricorrenti persecuzioni che sfociarono in nuovi massacri durante il genocidio degli armeni e proseguono periodicamente fino ad oggi. I legami storici e attuali tra l’Italia e gli armeni Seppur poco conosciuto in Italia, il genocidio degli armeni è stato raccontato attraverso vari libri, documentari e film di produzione nostrana. Segno che, anche se l’Armenia non figura tra i paesi più conosciuti da parte degli italiani, suscita malgrado tutto un certo interesse e una sicura e reciproca simpatia. Eppure i legami tra l’Italia e il popolo armeno esistono da secoli, soprattutto grazie gli scambi commerciali e culturali tra gli armeni del regno di Cilicia e la Repubblica di Venezia, nell’Alto Medioevo. Svariate comunità armene s’insediarono a Genova, Livorno, Sicilia e Ravenna nel corso dei secoli. La prima stamperia di Livorno è nata grazie all’iniziativa di un sacerdote armeno, nel 1643, e il primo libro mai stampato in armeno ha visto la luce proprio a Venezia, nel 1512.

La casa madre dell’Ordine dei mechitaristi, fondato dal monaco benedettino Mechitar nel 1700, si trova sull’isola di San Lazzaro degli Armeni, nella laguna di Venezia (pare che Iosif Stalin vi soggiorno’ nel 1907, lavorandovi come campanaro prima di recarsi in Svizzera per incontrarvi Lenin, allora in esilio). Mechitar Il genocidio del 1915 si rivelerà un’altra occasione per rinsaldare i legami tra l’Italia e gli armeni. Giacomo Gorrini, console a Tresibonda, sarà un importante testimone oculare del massacro e delle deportazioni. Dopo il genocidio l’Italia accolse varie migliaia di sopravvisuti, che s’installarono principalmente a Venezia, Padova e Milano. Oggi i rapporti diplomatici tra Erevan e Roma sono solidi e si basano in buona parte sui legami storici e culturali tra i due Paesi, soprattutto sulle comuni radici cristiane, in quanto l’Armenia fu il primo Paese al mondo ad adottare il cristianesimo come religione di Stato nel 301. Paese piccolo, senza sbocchi sul mare e con due frontiere, quelle con la Turchia e con l’Azerbaigian, chiuse e militarizzate, l’Armenia non rappresenta un importante sbocco commerciale per l’Italia, i cui investimenti sono molto ridotti. Allora perché riconoscere il genocidio degli armeni e inimicarsi così la Turchia (20 miliardi di euro in scambi commerciali nel 2018 secondo i dati della SACE) e l’Azerbaigian, da cui Roma dipende in buona parte per le forniture di petrolio e rischiare così delle ritorsioni economiche?

 Dinamismo internazionale

L’Italia del trittico Salvini-di Maio-Conte mostra un dinamismo sulla scena internazionale a cui più nessuno era abituato. Il ventennio berlusconiano aveva assuefatto gli italiani alla sudditanza americana e a rispondere, secondo un riflesso pavloviano ben collaudato dal secondo dopoguerra, al suo braccio armato, la NATO. Ciò ha portato il Bel Paese a impantanarsi nelle avventure brancaleonesche di Iraq, Libia e Afghanistan, contribuendo cosi a quel disastro geopolitico e umanitario che sono il Medio-oriente e il Nord Africa dal 2001. La parentesi di sinistra del governo di Massimo d’Alema (1998-2000), che non esitò a partecipare ai bombardamenti della Serbia socialista e sovranista di Slobodan Milosevic al fine di creare quell’oasi di democrazia e benessere che è il Kosovo, aveva mostrato i germogli di una nuova sinistra oggi nel pieno della sua maturità. Ieri no-global, localista e anti-militarista, oggi riconvertita alla globalizzazione, al neo-liberalismo e agli interventi militari per “ragioni umanitarie”, cosi care ai neocon statunitensi e francesi, da Bernard-Henri Lévy al cineasta sessantottino Romain Goupil, dal fondatore di Medici senza frontiere Bernard Kouchner al filosofo ex-maoista André Glucksman. Da ultimo il grigio inverno del PD e dei governi cosiddetti «tecnici» la cui azione internazionale si riduceva a chiedere consiglio a Bruxelles, Berlino e Parigi, tacendo spudoratamente sul dramma greco e sulle cause della guerra nel Donbass.

Una nuova politica internazionale per Roma, dunque? L’attuale governo di Giuseppe Conte sembra tentare di far intendere la propria voce non solamente quando si tratta di battibeccare su budget nazionale e architettura europea, ma ugualmente sui dossier libici, cinesi e del Medio Oriente, con i soliti alti e bassi che caratterizzano l’ondivaga politica nostrana. Il riconoscimento del genocidio armeno pare rientrare in questa linea. Esso non può essere esclusivamente inteso come un atto simbolico né come un disinteressato gesto di simpatia nei confronti del piccolo paese caucasico. L’atto deve essere sostenuto da una logica. Dispiacerà a due paesi fondamentali per l’economia europea e italiana: la Turchia che, irritata, l’otto aprile ha convocato l’ambasciatore italiano Massimo Gaiani per protestare, ma ugualmente il suo alleato principale, l’Azerbaigian, a cui le truppe armene hanno strappato la regione del Nagorno-Karabakh al termine di una sanguinosa guerra svoltasi tra il 1988 e il 1994.

Come precedentemente accennato, Ankara e Baku sono partner commerciali imprescindibili per Roma. Ma l’importanza nei confronti di questi due paesi va ben al di là del commercio. Dall’Azerbaigian arriva, tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), alla cui costruzione ENI ha partecipato per il 5%, il 17,7% delle importazioni di petrolio in Italia. E il BTC passa dalla Georgia, bypassa l’Armenia, attraversa tutto il Kurdistan turco e sfocia sulle coste mediterranee dell’Anatolia. Ma la Turchia è allo stesso tempo membro della NATO, di cui possiede il secondo esercito dopo quello USA, possiede una numerosa diaspora in Germania e Francia, e accoglie un gran numero di rifugiati provenienti da tutti il Medio oriente, che spedisce in Europa quando necessita di far pressione politica e economica sull’UE, come fu il caso nel 2015. La crisi e le sue conseguenze hanno contribuito a indebolire Angela Merkel, a discreditare Bruxelles, a rafforzare il governo di Viktor Orban in Ungheria e a far eleggere Sebastian Kurz in Austria. E certamente a incrementare i consensi per la Lega e Fratelli d’Italia.

Pur essendo un paese piccolo e dal mercato interno poco interessante, l’Armenia rappresenta però un partner politico di primo piano grazie alla sua posizione geografica e alle sue alleanze politiche e militari. Si trova al cuore del Caucaso e alla frontiera dell’Iran, alleato della Russia, verso cui l’Italia sta tentando un riavvicinamento non solo economico, dal momento che le sanzioni volute dagli USA hanno pesantemente colpito le esportazioni italiane, ma anche culturale e politico. Dal 2014 l’Armenia fa parte dell’Unione Economica Eurasiatica (UEE) a guida russa e composta da Kazakistan, Bielorussia e Khirghizistan, e, dal 2002 dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO). L’Armenia si trova inoltre sul percorso delle Nuove Vie della Seta (BRI) che, nei progetti di Pechino, dovrebbero legare l’Europa alla Cina in funzione antistatunitense, passando da Asia centrale, mar Caspio e, appunto, Caucaso. L’Italia ha recentemente firmato degli accordi commerciali con la Cina per diventarne il terminal, aprendo potenzialmente così le porte dell’Europa centrale all’Impero Celeste, la cui attività diplomatica e economica in Armenia sta crescendo. Nel complesso mosaico militare, politico e economico del Caucaso e dell’Asia centrale, l’Armenia è dunque un tassello importante, e delle buone relazioni con esse implicano il potenziale accesso, in quanto partner e investitore, a un ampio spazio economico e politico tutt’altro che fermo su se stesso.

Roma sembra voler tentare un’emancipazione dall’abbraccio soffocante di USA e UE orientando a sua politica economica all’Est e nell’Estremo Oriente. Il riconoscimento del genocidio degli armeni potrebbe dunque essere interpretato secondo diversi punti di vista. Un segnale di avvicinamento a quell’idea eurasiatica, cara a intellettuali come Alexander Dugin e Robert Steuckers, che sembra prendere forma con l’UEE a guida russa. Ma anche una dichiarazione implicita alla Turchia conservatrice e sunnita di Recep Erdogan, a cui una parte del governo italiano rifiuta l’adesione all’UE, ricordandole che l’Italia ha vocazione a ribadire la sua cristianità di fronte a un Paese i cui rapporti con lo Stato Islamico e altri gruppi fondamentalisti islamici sono stati (e rimangono) ben più che ambigui.

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