Il genocidio degli armeni fu pianificato. Ecco la prova (Agi.it 26.04.17)

“La pistola fumante del genocidio armeno”. Questa la definizione che Taner Akcam, docente turco di storia presso la Clark University del Worcester, ha dato del ritrovamento degli ultimi documenti relativi una delle questioni più controverse della storia turca. Fonte inesauribile di polemiche tra Ankara e la comunità internazionale, Vaticano incluso, consumate senza tregua sull’utilizzo della parola “genocidio”. Termine tabù in Turchia ed “inaccettabile” per il presidente Recep Tayyip Erdogan.

La pistola fumante che potrebbe far superare un’impasse su cui si discute da 102 anni si è appalesata sotto forma di un telegramma originale relativo ai processi che seguirono il massacro, riemerso da un archivio del patriarcato armeno di Gerusalemme. Lo storico, che con spirito da detective ha ricostruito minuziosamente la catena di connivenze e responsabilità del genocidio, è risalito a Behaeddin Shakir, l’ufficiale dell’impero che avrebbe reso esecutivo il “primo genocidio del ventesimo secolo”.

Il telegramma perduto (e ritrovato)

Il telegramma in questione, come una montagna di altri documenti, finì impilato in 24 scatoloni imbarcati in fretta e furia su una nave che li avrebbe portati in Inghilterra nel 1922, quando i nazionalisti turchi stavano prendendo il potere nel Paese e in particolare nel nord est, nella regione di Erzurum, landa gelida di montagne e altopiani teatro della strage.
Gli scatoloni contenenti la “pistola fumante” finirono poi in Francia e in ultimo a Gerusalemme, dove dopo anni di tentativi a vuoto il professor Akcam è riuscito finalmente a visionarne una parte. Il colpo di scena arriva per grazie a Krikor Guerguerian, monaco armeno scampato ai rastrellamenti, che negli anni 40 al Cairo apprende da un ex giudice ottomano che i documenti sono a Gerusalemme. Guerguerian ci va e li fotografa, prima che finiscano nelle mani di suo nipote a New York. La conferma Akcam la trova nel confronto tra i documenti fotografati dal monaco e le lettere dell’epoca conservate negli archivi di Istanbul.

Una controversia lunga oltre un secolo

La storia ricompone un puzzle che vide il 24 aprile di 102 anni fa Bahaeddin Shakir ordinare dei rastrellamenti in cui sarebbero morti un milione e mezzo di persone, 450 mila secondo i turchi. La storia di Shakir continua con un ergastolo in contumacia, una fuga in Germania dove la parola fine e la parola vendetta si sovrappongono quando due sicari armeni gli sparano alla testa mentre rientrava a casa.

Manca ancora la parola fine e la questione è ancora in ballo per quanto riguarda l’accettazione del genocidio da parte di Ankara e di buona parte dei turchi che, a prescindere dal credo politico, negano fino alla fine che di genocidio si trattò.
Difficile, quasi impossibile che Erdogan volti pagina in questo senso, almeno fino a quando gli Stati Uniti, sempre preoccupati di non inimicarsi un alleato Nato fondamentale in Medio Oriente, non prenderanno una posizione precisa sull’argomento. Una pietra sulle polemiche relative il termine “genocidio”, che hanno minato le relazioni con Francia, Russia, Germania e con Papa Francesco, più delle ricerche di Akcam, potrebbe metterla il presidente americano Donald Trump.

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Genocidio degli armeni, trovata la ‘pistola fumante’ (L’Indro 26.07.17)

Lo scorso lunedì 24 aprile è stato ricordato il 102esimo anniversario del genocidio armeno perpetrato dal Governo dei Giovani Turchi a partire dal 1915. Lo sterminio di circa un milione e mezzo di armeni non è mai stato riconosciuto da Ankara  -il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, quest’anno ha ammesso l’importante partecipazione della comunità armena nella storia del suo Paese, ma ha chiesto di «non approfittare della storia», aggiungendo che «oggi, come ieri, gli armeni svolgono importanti ruoli nella vita sociale, politica e commerciale del nostro Paese, in cui sono cittadini liberi ed eguali», affermazione questa che è stata contestata dalle organizzazioni per i diritti umani che denunciano una quotidiana discriminazione, a partire proprio dalla negazione del genocidio.

Per più di un secolo, infatti, la Turchia ha negato ogni ruolo nell’organizzazione dell’uccisione degli armeni, oramai definito ‘genocidio’ dalla maggioranza degli storici,  forte del fatto che nessuna effettiva prova documentale è mai stata trovata. Fonte inesauribile di polemiche tra Ankara e la comunità internazionale, Vaticano incluso, consumate senza tregua sull’utilizzo della parola ‘genocidio’. Termine tabù in Turchia ed ‘inaccettabile’ per Erdogan. Ora, dopo 120 anni, questa prova che attesta in genocidio sarebbe stata trovata. É stata definita «la pistola fumante del genocidio armeno» da Taner Akcam, storico e sociologo turco, docente di storia presso la Clark University del Worcester, autore del ritrovamento.

Quella che è considerata una delle questioni più controverse della storia turca potrebbe essere superata e divenire un fatto incontestabile dal punto di vista documentale, grazie a un telegramma originale relativo ai processi che seguirono il massacro, riemerso da un archivio del patriarcato armeno di Gerusalemme. Telegramma ritrovato da Akcam.  Lo storico, che con spirito da detective ha ricostruito minuziosamente la catena di connivenze e responsabilità del genocidio, è risalito a Behaeddin Shakir, l’ufficiale dell’impero che avrebbe reso esecutivo il ‘primo genocidio del ventesimo secolo’. Il telegramma in questione, come una montagna di altri documenti, finì impilato in 24 scatoloni imbarcati in fretta e furia su una nave che li avrebbe portati in Inghilterra nel 1922, quando i nazionalisti turchi stavano prendendo il potere nel Paese e in particolare nel nord est, nella regione di Erzurum, landa gelida di montagne e altopiani teatro della strage.

Gli scatoloni contenenti la ‘pistola fumante’ finirono poi in Francia e in ultimo a Gerusalemme, dove dopo anni di tentativi a vuoto il professor Akcam è riuscito finalmente a visionarne una parte. Il colpo di scena arriva per grazie a Krikor Guerguerian, monaco armeno scampato ai rastrellamenti, che negli anni 40 al Cairo apprende da un ex giudice ottomano che i documenti sono a Gerusalemme. Guerguerian ci va e li fotografa, prima che finiscano nelle mani di suo nipote a New York. La conferma Akcam la trova nel confronto tra i documenti fotografati dal monaco e le lettere dell’epoca conservate negli archivi di Istanbul.

«Era una giornata di pioggia», afferma Akcam, ricordando la sua scoperta, «ho visto questo telegramma nell’archivio. Sono uscito e rimasto sotto la pioggia per 15 minuti, alzando le mie mani al cielo e dicendo ‘grazie a Dio l’ho trovato’».

La storia ricompone un puzzle che vide il 24 aprile di 102 anni fa Bahaeddin Shakir ordinare dei rastrellamenti in cui sarebbero morti un milione e mezzo di persone, 450 mila secondo i turchi. La storia di Shakir continua con un ergastolo in contumacia, una fuga in Germania dove la parola fine e la parola vendetta si sovrappongono quando due sicari armeni gli sparano alla testa mentre rientrava a casa.
Manca ancora la parola fine e la questione è ancora in ballo per quanto riguarda l’accettazione del genocidio da parte di Ankara e di buona parte dei turchi che, a prescindere dal credo politico, negano fino alla fine che di genocidio si trattò.

Difficile, quasi impossibile che Erdogan volti pagina in questo senso, così come lo stesso Presidente americano Donald Trump, come riconosce in una intervista rilasciata al ‘New York Times’ lo stesso Akcam, visto che gli Stati Uniti sono preoccupati di non inimicarsi un alleato Nato fondamentale in Medio Oriente. Infatti Trump, come il predecessore Barack Obama, si è guardato bene dall’usare la parola genocidio nel ricordare l’uccisione di 1,5 milioni armeni nei territori dell’impero ottomano. Il 45esimo presidente definisce il cosiddetto ‘Meds Yeghern’ come «una delle peggiori atrocità di massa del ventesimo secolo». Un anno fa Obama aveva parlato della «prima atrocità di massa del ventesimo secolo» ma nella sua prima campagna elettorale aveva usato senza giri di parole il vocabolo ‘genocidio’.

Sia nel comunicato diffuso dalla Casa Bianca, sia in quello di un anno fa – quando al potere c’era ancora Obama – Washington parla di un milione e mezzo di armeni “deportati, massacrati o fatti marciare fino alla morte” negli anni finali dell’impero ottomano. Se il 44esimo presidente aveva parlato di «giorni bui» per gli armeni, il suo successore cita «questo capitolo buio della storia dell’umanità». Come Obama, anche Trump sostiene che «dobbiamo ricordare queste atrocità per prevenire che si verifichino di nuovo». Entrambi hanno lodato la “resilienza” del popolo armeno.
Trump «dà il benvenuto agli sforzi di turchi e armeni per riconoscere e valutare con dolore la storia, un passo cruciale per costruire le basi per un futuro più tollerante e giusto».
Obama aveva «dato il benvenuto all’espressione di visioni di chi ha cercato di gettare nuova luce sull’oscurità del passato, dagli storici turchi e armeni a Papa Francesco». Sia l’uno, sia l’altro leader Usa evitano di essere espliciti nel criticare il gesto turco, l’anno scorso definito genocidio da Papa Francesco (cosa che sollevò le polemiche del governo turco di Recep Tayyip Erdogan) e proprio ieri definito e riconosciuto ufficialmente come ‘genocidio’ dalla Repubblica Ceca.

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