Il Nagorno Karabakh, la regione contesa del Caucaso (Zetaluiss 25.03.24)

«L’Italia, come grande importatore di gas e petrolio azero, avrebbe voce per influire sulla questione del Nagorno Karabakh» sostiene Aldo Ferrari, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), rimarcando la dipendenza energetica del nostro paese dall’Azerbaigian, «uno dei paesi più repressivi a livello mondiale, tra gli ultimi posti delle classifiche di libertà e democrazia, governato da Ilham Aliyev, un presidente figlio del suo predecessore». La nazione caucasica non brilla per rispetto dei diritti civili e politici. Secondo Freedom House, Ong con sede a Washington, corruzione e persecuzione contro i partiti di opposizione sono problemi persistenti che delineano un volto autoritario, mostrato sull’altopiano armeno.

Il Nagorno Karabakh, o Repubblica di Artsakh, è sconosciuto ai più, non si studia nelle scuole italiane, non se ne parla nei programmi televisivi, è un nome complicato da scrivere o pronunciare, una terra che molti non saprebbero collocare sulla cartina geografica. In pochi sanno che il suo territorio montuoso è grande come metà della Sardegna. Situata nel Caucaso meridionale, l’enclave priva di sbocco sul mare è stata attribuita negli anni Venti, per ragioni politiche, dall’Unione sovietica all’Azerbaigian. È contesa tra Baku e Yerevan in un conflitto con radici antiche che impongono un excursus indietro nel tempo. Dopo la dissoluzione dell’Urss, la maggioranza armena, col supporto del paese d’origine, ha chiesto a gran voce l’indipendenza e la riunificazione alla madrepatria. Ciò non è avvenuto, e la tensione è sfociata in una guerra che, tra il 1992 e il 1994, ha portato alla proclamazione, da parte della comunità armena, della Repubblica di Artsakh, mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

Dopo anni di stallo, il rafforzamento economico dell’Azerbaigian gli ha permesso di scatenare un violento attacco militare nel 2020, riuscendo in 44 giorni a prevalere. «Quasi certamente l’intervento non avrebbe avuto luogo se Mosca non avesse in qualche modo acconsentito». La mancata intromissione russa a sostegno dell’Armenia si spiega con la Rivoluzione di velluto del 2018, con cui è andato al potere un gruppo dirigente più proiettato verso l’Europea e l’Occidente. Parlando di democratizzazione e lotta alla corruzione, la nuova élite ha ottenuto grande sostegno nella popolazione, irritando non poco Vladimir Putin, che vedeva sino ad allora Yerevan come un fedele alleato. In questo periodo si consuma secondo Ferrari il definitivo sganciamento della Russia dall’amico storico, lasciato solo. L’offensiva ha chiuso ogni spiraglio per la pace, permettendo a Baku di occupare la parte meridionale del Nagorno Karabakh. I richiami delle Nazioni Unite e la mediazione russa hanno condotto ad una tregua e la creazione di una zona di pace al confine, sorvegliata dal Cremlino, insufficiente ad allontanare le armi.

Nel settembre 2023 le ostilità sono ricominciate con la vittoria dell’esercito azero, più attrezzato rispetto a quello avversario. La conseguenza è stata la resa della Repubblica di Artsakh e l’esodo di più di centomila armeni. Uomini, donne e bambini in lacrime sono stati costretti a scappare da casa e portare con sé i propri averi, i ricordi più cari – come album di foto – in centri di accoglienza. Tutto ciò è avvenuto dopo che i soldati di Baku avevano bloccato il corridoio di Lachin, attraverso cui le persone ricevevano materiale di prima necessità. Anche l’Unione europea ha parlato di un’inaccettabile “pulizia etnica”. Dal 1° gennaio 2024 la Repubblica di Artsakh non esiste più. La capitale Stepanakert ha cambiato nome in Khankendi. È iniziata l’operazione “Grande Ritorno”, ovvero il ripopolamento da parte dei cittadini azeri che l’avevano abbandonata o erano stati espulsi negli anni Novanta. «Non ci sono più armeni nel territorio in cui hanno vissuto, lavorato e creato arte per millenni. Per paura di esser uccisi hanno deciso di lasciare la loro terra. Vivono in Armenia in condizioni difficili» aggiunge Ferrari.

«In questi anni l’Azerbaigian non aveva dato nessuna garanzia di salvaguardia della vita e libertà a coloro che avevano servito nella burocrazia o nell’esercito del Nagorno Karabakh. La fuga, benché non imposta da Baku, è comprensibile» racconta l’analista, che non esita ad ammonire l’Europa: «La comunità internazionale non ha fatto nulla. Ci sono state proteste da parte della Francia e la Germania mentre l’Italia ha taciuto tranne la vergognosa intervista del viceministro degli Esteri che si rallegrava di quanto avvenuto dicendo che così il diritto internazionale era stato ripristinato». Secondo Ferrari, l’Europa può rafforzare la piccola missione disarmata inviata all’inizio dello scorso anno alla frontiera tra Baku e Yerevan, o elaborare una politica chiara e aperta. «Ci sono spazi di azione dell’Ue per proteggere un paese piccolo come l’Armenia, debole militarmente, che ha subito più di cento anni fa il genocidio dei turchi» continua.

Proteggere il paese e convincere l’Azerbaigian a non fare pressione politica e militare sull’Armenia sarebbe la soluzione, ma lo scetticismo traspare dalle parole dell’esperto. «Non ho la sensazione che l’Europa vada in questa direzione, anche se potrebbe intervenire con la diplomazia sulla presenza delle truppe azere al confine, che hanno conquistato alture, territori piccoli ma strategici. L’ipotesi è molto difficile, non è facile trattare con la situazione attuale tra l’Unione europea e il Cremlino».

Non stupisce l’influenza di Mosca data la presenza di basi russe in Armenia, il ruolo di security provider giocato a lungo dalla Federazione e i legami commerciali che la legano all’Azerbaigian.  Se da un lato Putin ha abbandonato Yerevan, concentrandosi sull’invasione dell’Ucraina, dall’altro è l’Armenia ad aver marcato la distanza. Il premier Nikol Pashinyan ha definito un “errore strategico” la dipendenza dal Cremlino, ritirandosi dalla Csto, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, un blocco a guida russa, composto da Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Risulta evidente come la scarsa incisività della diplomazia europea abbia gettato nell’incertezza il Nagorno Karabakh, la regione «giuridicamente azera, ma storicamente armena».

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