Il Premio Cultura Cattolica ad Antonia Arslan, immensa voce e penna del popolo armeno (Tempi.it 31.07.20)

Gli schiamazzi dei rivoltosi, le lagne delle élite americane, il silenzio su Santa Sofia. La scrittrice che ha immortalato il genocidio della prima minoranza cancellata dalla storia parla di Occidente orfano di simboli e intellettuali cristiani

«Accidenti»: quando spiegarono ad Antonia Arslan che la giuria del Premio Internazionale Medaglia d’Oro al merito della Cultura Cattolica aveva deciso all’unanimità di assegnarle lo stesso riconoscimento andato ad Augusto Del Noce, Joseph Ratzinger, Luigi Giussani, Hanna-Barbara Gerl Falkovitz, l’eccezionale scrittrice di origini armene si trovava, come tutti, in clausura, confinata nella sua amata casa a Padova.

CORAGGIOSA TESTIMONIANZA DI FEDE

Arslan è dunque la vincitrice della 38esima edizione del Premio. Dando l’annuncio proprio oggi, Francesca Meneghetti, presidente della Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, ha detto:

«Il premio assegnato quest’anno valorizza una scrittrice di fama internazionale, che ha narrato la storia di uno dei più antichi popoli cristiani. Antonia Arslan ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza della storia armena in Italia, ed è tutt’ora un riferimento di spicco del mondo culturale: in molte occasioni ha dato una coraggiosa testimonianza di fede, senza cedere al politicamente corretto. Le sue opere, pur descrivendo il dramma del genocidio armeno e le sue terribili conseguenze, non hanno mai smesso di lanciare messaggi di speranza e di cercare la bellezza, in tutte le sue forme».

La cerimonia di conferimento del Premio si terrà a Bassano del Grappa (VI) venerdì 20 novembre alle ore 20:30 presso il Teatro Remondini.

CERCARLO DAPPERTUTTO

Era squillato spesso il telefono nelle settimane seguenti il 2 febbraio, quando «in un’alba scura e polverosa gli tenni la mano sul cuore e gli dissi: “A presto, amico della mia vita”». Un breve addio alla vita intera del marito Paolo Veronese, seguito da giorni trascorsi a «cercarlo dappertutto» per le grandi stanze abbandonate. La compagnia della figlia Cecilia, impossibilitata a tornare in Grecia quando venne proclamato lo stato di emergenza, le carte, gli scampoli di una vita da docente di Letteratura italiana all’Università di Padova, i libri “trascurati”, le puntate di Star Trek, qualche buona idea da trasformare in racconto: erano trascorsi così i giorni di «casalinga solitudine, in cui antiche paure di malefici e di contagi tutti ci opprime» – in cuore un tacito grazie per aver potuto accudire il marito con medici e infermiere prima che si trincerassero a combattere il Covid, il silenzio innaturale che gravava come un grosso masso di pietra sulla città rotto dallo solo dallo squillare del telefono.

LA CHIAMATA, IL PREMIO, «ACCIDENTI»

«Mi chiamavano per chiedermi articoli, recensioni, rubriche, per sapere cosa stessi leggendo e raccomandarmi – da che pulpito, amiche di poco più giovani di me! – di stare in casa pasticciando con questo gergo malsano d’importazione americana: lockdown», racconta a Tempi la vivace autrice de La masseria delle allodole -. È il termine che designa l’isolamento di un detenuto evaso o il confino nelle celle dei prigionieri in seguito a disordini e invito chiunque a non usarlo». Poi un giorno, dall’altra parte del telefono non ci sono amiche apprensive o giornalisti ma Cesare Cavalleri, direttore delle Edizioni Ares e del mensile Studi Cattolici, e il professor Lorenzo Ornaghi, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; le spiegano il motivo della chiamata, le annunciano che il Premio le verrà consegnato a novembre: «accidenti», pensa Arslan riflettendo su chi l’ha preceduta e le cose che non capitano per caso.

«DOVE SONO OGGI LE PENNE CATTOLICHE?»

«Tre le tante carte riemerse durante la clausura come dopo un naufragio ho ritrovato un foglietto sul quale avevo trascritto molti anni fa una piccola poesia di un poeta dell’epoca di Shakespeare, Thomas Nashe. S’intitola, pensate un po’, Tempo di pestilenza e dice: “La luce scende dall’aria,/ regine sono morte giovani e belle;/ la polvere ha chiuso gli occhi di Helen./ Io sono malato e devo morire./ Che Dio abbia pietà di noi». Quando le chiediamo quindi perché di grida forti di fede iscritta in un destino nel mondo della cultura non ne udiamo più Arslan rammenta «il clima anticattolico pervasivo che in tanta parte del mondo diventa persecuzione, morte, sangue. Sarebbe un errore sottovalutarlo, così come è un errore chiudere gli occhi davanti alle fiamme che si sono levate da ventuno chiese di Francia, la distruzione e l’abbattimento di lapidi nei cimiteri ebraici, le esibizioni che scherniscono immagini e simboli sacri. Ridicolaggini immonde, quest’ultime che non meritano neanche l’aggettivo blasfeme, certo è che non vedo molti eroi della penna, poeti, scrittori, giornalisti pronti a giudicare i fatti per quello che sono, scrivere per chi non può o non riesce a levare null’altro che una voce esitante, incespicante. In compenso, abbondiamo di autoanalisi, riflessioni egoriferite, esercizi colti centrati su se stessi. È innegabile notare una sorta di assenza di amore fervido per la propria cultura, per il popolo cattolico».

LA VOCE DEGLI ARMENI

Di corpi e anime rivestite di Cristo fin dagli albori del IV secolo, identità millenarie forgiate alle pendici maestose dell’Ararat, discendenze che si erano fatte sciami verso le più vivaci capitali europee, per poi diventare ritorni nella splendida Costantinopoli prima che il Metz Yeghern, il Grande Male li inghiottisse, ha scritto tanto Arslan, ancora bambina quando nonno Yerwant le salvò la vita (era un medico eccezionale) e le raccontò la sua storia, quella delle stragi, di suo fratello il farmacista mite e fantasticante, decapitato con fredda efficienza, della deportazione, delle sorelline morte di fame: Arslan tenne queste cose nel suo cuore, finché non riuscì a scriverle. E continuò a scriverne.

GLI SCHIAMAZZI DEI RIVOLTOSI

Voce del genocidio armeno, di cristiani che «morirono tutte le morti della terra, le morti di tutti i secoli» (come le definì Armin Wegner, ufficiale tedesco e coraggioso testimone degli indiavolati giorni del massacro) che ancora percorrono come sangue le vene della storia armena che tanti vorrebbero cancellare, Arslan ha osservato i distruttori di statue e di eredità riversarsi in strada. Ma soprattutto ha osservato giornali ed élite imbastire «sui banalissimi e scontatissimi schiamazzi dei rivoltosi questa buffonata della cancel culture: non c’è niente di nuovo, quando la gente scende nelle vie a urlare senza scontrarsi contro qualcuno o dover pagare pegno non può che prendersela con i monumenti. Quando cadde la Repubblica di Venezia non si salvarono dagli scalpelli nemmeno i leoni sulla facciata del comune di Feltre. Io non mi scandalizzo affatto, quando cambierà il vento verranno abbattute o verniciate altre statue e siccome la mamma dei cretini è sempre incinta si rivendicherà la cancellazione di altri nomi, altri scrittori, altri film. Ora ce l’hanno con Colombo, la O’Connor, Via col vento, domani sarà Shakespeare o la Bibbia e via dicendo. Non è questo a preoccuparmi».

LA SCIATTERIA DEI CORRISPONDENTI IN USA

A stupire e disgustare Arslan è piuttosto la sciatta cretineria in cui indugiano giornali e sedicenti uomini di cultura per tenere bordone alla narrazione delle urgenze di un’America ridotta a “quel che accade in California, Washington, New York” e all’ossessione degli atenei per l’igiene delle identità: «Sembra che per stampa e tv in mezzo alle due coste non ci sia niente, non ci sono 50 stati che hanno poco a che vedere l’uno con l’altro, o 330 milioni di abitanti, ci sono solo quelli che chiedono giustizia per George Floyd. Un nero ucciso da un poliziotto in uno stato democratico, con un governatore democratico, in una città democratica che ha eletto un sindaco democratico che ha nominato un capo della polizia democratico. Non mi aspetto che chi strepita in piazza dichiarando guerra ai simboli faccia due più due, ma che lo faccia il corrispondente degli Stati Uniti sì».

SANTA SOFIA E LA DIMENTICANZA DEL SIMBOLO

Eppure basterebbe guardare là dove la scure del Grande Male si abbatté su una minoranza sottomessa ma fiera di essere stata il primo popolo a chiamarsi cristiano per capire cosa sia un simbolo: «Come si fa a non protestare con vigore e a voce alta e chiara contro la decisione di Erdogan di riconvertire Santa Sofia in moschea? È mai possibile che nessuno osi dire che il nuovo nazionalismo turco si sia appropriato di un potentissimo simbolo della cristianità, con i suoi splendidi mosaici e la sua storia di basilica millenaria, per tirare l’ultimo schiaffo ai cristiani del Medio Oriente? Sapete – racconta Arslan – quasi nessuno ricorda, perché in pochi lo hanno raccontato, dove si è diretto l’esercito turco appena entrato in Siria. Non a un obiettivo militare ma alla minuscola Chiesa dei Martiri Armeni di Deir ez-Zor. La chiesa era per gli armeni quello che per gli ebrei potrebbe essere Auschwitz: la meta delle deportazioni, il luogo dove gli ultimi sopravvissuti vennero brutalmente sterminati. Intorno alle loro ossa, affiorate nel deserto e deposte sotto l’altare, veniva celebrata ogni anno la messa di commemorazione del genocidio. Ora quella chiesa non c’è più, bisognava distruggerla, distruggere il simbolo». Ma del simbolo, da cui rinasce la vita, ha perso memoria l’Occidente distratto. E forse da qui dovrà ripartire una cultura per potersi dire generata da un’esperienza di vita e a buon diritto definirsi cattolica.

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