“In Siria una guerra internazionale, per noi armeni una nuova deportazione” (Lastampa.it 01.07.18)

Ci sono itinerari in Medio Oriente che raccontano le ferite storiche sofferte dai cristiani. A nord est della Siria, al confine con la Turchia, si trova la zona di Qamishli, la capitale di fatto del Rojava, la regione curda siriana che rivendica l’indipendenza. È un’area di antico cristianesimo e di insediamenti cristiani più recenti, crocevia per migliaia di armeni (ma anche di assiri ) sfuggiti al genocidio tra il 1915 e il 1916 che qui trovarono rifugio. E da qui passò la carovana di migliaia di disperati mandati a morire dai turchi nel deserto a Deir-el-Zor. Non lontano trovarono casa i caldei nel 1933, fuggiti dall’Iraq appena divenuto indipendente, massacrati perché pretendevano l’autonomia. E ora si continua a scappare. Dall’inizio della guerra il 60% dei cristiani sono andati via, conferma padre Nareg Naamo, da oltre due anni rettore del Pontificio Collegio degli Armeni a Roma con otto seminaristi, di cui quattro provenienti dal Libano, tre dalla Siria e uno dagli Stati Uniti. Prima di ricevere l’incarico a Roma, il giovane padre Naamo, laurea in Teologia alla Gregoriana, è stato parroco di una delle tre chiese armene cattoliche di Qamishli, dove è nato e dove ancora vivono i suoi genitori, e dove il suo bisnonno trovò scampo in fuga dal genocidio nel 1915.

 

Quale è attualmente la situazione a Qamishli?

«La tensione è altissima, esplosiva. La zona è strategica: a meno di un chilometro ci sono i turchi, a 120 chilometri abbiamo il Kurdistan iracheno che sollecita un Kurdistan siriano. Raqqa, l’ex capitale dell’Isis, è a soli 200 chilometri. La situazione è di incertezza e di spaesamento. In questi anni non ho mai cessato di fare visita ai miei genitori almeno due volte l’anno e ogni volta ho notato i cambiamenti; ora la città è divisa, si passa da un quartiere all’altro e cambia tutto, dalle targhe delle automobili, alla composizione degli abitanti, curdi da una parte, arabi sunniti dall’altra, e l’esercito siriano da un’altra parte ancora. Cosa sarà di noi? Che voce potremo avere in questo assetto? Siamo minoranza anche se consistente: assiri, armeni cattolici e ortodossi, siriaci. Abbiamo avuto sempre le nostre scuole dalle elementari fino alla terza media, abbiamo avuto sempre le nostre feste riconosciute. Ora c’è il vuoto e le nostre scuole sono deserte. Qamishli è stata risparmiata dai bombardamenti, ma ci sono stati tanti attentati. Il più grave tre anni fa, il giorno di Capodanno, in un ristorante frequentato da cristiani: 20 ragazzi morti, tra cui un mio cugino di 35 anni. Poi sono iniziate le tensioni tra i curdi e l’esercito siriano. La guerra in Siria non è più contro o per Assad, che è ormai questione superata. Ora è una guerra internazionale. È, come dice il Papa, la terza guerra mondiale ma “a pezzi”, uno dei pezzi più devastati è la Siria, la gente perde la vita, perde il lavoro, perde il futuro».

 

Quando parla delle divisioni di Qamishli intende dire che è un anticipazione di quello che potrebbe diventare la Siria?

«Esatto, è una piccola anticipazione di come andrà a finire, anche se nessuno di noi, nessun siriano vorrebbe o si augura una Siria fatta a pezzi, divisa… ma quando ogni giorno vedi la guerra tra russi e americani, tra iraniani e sunniti, tra sciiti e sunniti, guerra che purtroppo ormai coinvolge tutta la Siria, non puoi non immaginare la divisione del territorio. E sarebbe una tragedia; ti trovi nella città in cui sei nato e non la riconosci, è un incubo. La gente è stanca, fa fatica a cercare il pane quotidiano, fa fatica a sopravvivere alla guerra, alle preoccupazioni, e ora altre divisioni… diventa troppo».

 

E i rapporti con la comunità musulmana ? 

«I cristiani sono stati sempre un ponte in questo mosaico, non sono mai stati di ostacolo alle altre comunità, non sono mai stati una presenza minacciosa, anzi, sono stati importanti sul piano culturale ed economico. Non c’era area industriale della Siria in cui non trovavi imprese di armeni che avevano creato lavoro per tutti. Le nostre scuole sono state sempre aperte, hanno educato i nostri figli ma anche i figli dei musulmani. Quando sento parlare di corsi per promuovere interreligiosità tra musulmani e cristiani, penso che noi abbiamo praticato sempre l’interreligiosità. Era naturale nelle nostra piccole famiglie, nei nostri quartieri. Vicino alle case cristiane ci sono quelle dei musulmani, con i curdi avevamo rapporti ottimi, non eravamo stranieri l’uno verso l’altro. Purtroppo pero quando c’è la guerra, quando c’è di mezzo il sangue, quando perdi qualcuno della tua comunità…. lì cominciano le rotture, le fratture, le distanze».

 

E dunque, che futuro vede per la comunità cristiana di Qamishli?

«La speranza è che la nostra comunità si ricomponga. Come armeni, come siriani, come cristiani non cessiamo mai di avere la speranza, anche se tante volte resta schiacciata sotto le macerie. La speranza e la fede non ci hanno abbandonati! Ma so anche che chi è partito e ha trovato accoglienza in un altro Paese è difficile che torni indietro. È la nostra storia. Le mie sorelle da due anni hanno trovato asilo in Svezia, a sud di Stoccolma a Sodertalje, che ormai sembra una città siriana. C’è lì una grande comunità di rifugiati di Qamishli, ma ci sono anche assiri, tanti armeni ortodossi; per le strade si parla armeno, siriaco, ci sono uffici per l’immigrazione molto efficienti e molte facilitazioni. Anni fa sono stato parroco a Stoccolma per un anno, le famiglie siriane erano appena una decina, dopo la guerra sono 400».

 

Quale è il ruolo degli armeni in questa guerra?

«Abbiamo tentato di proteggere le nostre strutture. È ovvio che contro l’Isis e contro l’Islam estremista le nostre comunità non possono fare niente. Certo, abbiamo tanti giovani che ancora sono nell’esercito siriano, sono rimasti in tutti questi anni a fare il servizio militare ma il nostro intervento è stato difendere le nostre chiese, le nostre scuole. Abbiamo creato gruppi di giovani che a turno hanno fatto la guardia alle nostre famiglie, alle nostre case. A Kamishli le famiglie che sono partite hanno lasciato le case in custodia alle chiese. È nato un comitato di sorveglianza, un corpo di laici appartenenti a tutte le chiese, cui le famiglie in partenza consegnano le chiavi perché le case non vengano saccheggiate, ma alcune purtroppo sono state occupate. Nella zona assira del Grande Khabur, a nord di Hasakah tutte le chiese e molte case sono state danneggiate e saccheggiate».

 

Una zona che sembra la mappa del genocidio del 1915…

«Sì, le carovane con i deportati partirono dal sud della Turchia passando l’Eufrate per arrivare nel deserto siriano. È a Deir-el-Zor che è avvenuto il massacro, la maggioranza delle famiglie armene della zona è composta dai discendenti di chi è scampato al genocidio. Ogni cento anni ci troviamo a fare i conti con una deportazione: lasciare tutto, la casa, le tradizioni, la lingua, partire un’altra volta. Quello di oggi non è un genocidio di sangue, ma è egualmente un genocidio, anche se “bianco”, nel senso che la nostra gente si sta perdendo. Sei costretto a integrarti in un’altra comunità, perdi la lingua, l’identità. Ma noi abbiamo una forza enorme di rivivere, di rinascere, abbiamo speranza come ci indica la nostra fede. Cristo ci ha detto: “Da questa Croce verrà la vostra salvezza”».

 

Ha avuto modo di incontrare Papa Francesco?

«Sì, in questi eventi drammatici l’ho incontrato più volte. Parla spesso della martoriata ed amata Siria che gli sta molto a cuore, è vicino a questo popolo che ha sofferto tanto. Per noi il Papa è presenza paterna anche perché in Argentina la comunità armena era molto vicina a lui. Il nostro vescovo in Argentina Borgosian è un suo caro amico. Papa Francesco dopo aver parlato apertamente di genocidio degli armeni, ha dichiarato anche San Gregorio di Nerek dottore della Chiesa universale».

 

Sono riconoscimenti molto significativi… 

«Sono il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica delle sofferenze del popolo armeno per la sua testimonianza della fede. Ad aprile il Papa ha voluto nei Giardini Vaticani la statua dell’eroe della cultura armena, San Gregorio di Narek, ponte tra Oriente e Occidente e simbolo dell’ecumenismo. È stato un evento molto significativo alla presenza dei rappresentanti delle chiese armene di tutto il mondo, del loro Catholicòs, del nostro Patriarca. È stato un momento di fraternità, di scambio di parole. Il ruolo del Vaticano è promuovere la pace».

 

Ed è possibile ipotizzare in questo momento drammatico per il Medio Oriente la riunificazione delle chiese armene ?

«Non la vedo all’orizzonte, richiederebbe passi importanti e molto coraggio da tutte le parti. Credo che ancora non sia arrivato il momento».

Vai al sito