In viaggio a tempo indeterminato/283: ‘a colloquio’ con Madre Armenia (Lecco On Line 17.05.23)

Era ancora lì, fiera ed elegante, che guardava l’orizzonte.
Me la ricordavo più bassa o forse ero io a sentirmi più grande prima.
Me la ricordavo più severa, o forse ero io a vederla con occhi più giudicanti prima.
Lei non è cambiata quindi evidentemente sono io ad esserlo.
Si dice che sia l’osservatore a fare il quadro e credo fermamente non ci sia nulla di più vero.
Il nostro stato d’animo, quello che abbiamo vissuto, il percorso che abbiamo fatto fino a quel momento, influenzano il nostro sguardo sulle cose.
E tornare nello stesso posto dopo del tempo ne è la conferma.
Mi è successo proprio qualche giorno fa quando mi sono svegliata e, una volta aperto il portellone del van, mi sono trovata davanti la statua di Madre Armenia.

Si tratta della gigantesca statua di una donna con in mano una spada. È posizionata su una collina sopra la città di Yerevan, la capitale armena. Realizzata per rappresentare le donne che decisero di andare in guerra al fianco dei mariti, oggi è diventata simbolo dell’importanza del ruolo femminile all’interno della società.
Madre Armenia era su quella collina lo scorso luglio quando preparavamo i nostri zaini. Stavamo per parcheggiare il minivan blu che ci aveva accompagnato dall’Italia fino a lì, per proseguire la nostra avventura a piedi, o meglio in autostop, in Iran.
E mi sembrava che un po’ mi giudicasse Madre Armenia come a dirmi “sei proprio sicura di quello che stai per fare?”
Dieci mesi dopo, quella statuona gigante la vedo più benevola, forse perché è anche la festa della mamma.
Non che la possente Madre Armenia mi ricordi mia mamma che in realtà è alta un metro e cinquanta, ha dei corti ricci biondi ed è tutto tranne che severa.
Credo di aver visto lo stesso sguardo di Madre Armenia sul volto di mia madre solo una volta. Avevo 6 o 7 anni e io e mia sorella avevamo appena disegnato delle belle righe colorate con i pennarelli sull’adorato tavolo di legno del salotto.
Non la prese bene, ma per fortuna non teneva in mano una spada come l’eroina armena!
Rivedere quella statua oggi, però, devo ammettere che mi ha fatto piacere.
È stato un po’ come chiudere un cerchio. Un cerchio grande come il mondo che abbiamo scoperto negli ultimi 10 mesi.
Un cerchio che racchiude l’emozionante e spropositata ospitalità iraniana. Racchiude la speziata e colorata follia indiana.
Racchiude la timidezza polverosa del Nepal e l’allegra genuinità dello Sri Lanka.
I miei occhi in questi mesi si sono abituati a così tanta bellezza, spiritualità e natura che forse ora vedono Madre Armenia in un modo completamente nuovo.
Come se ora leggessero l’amore dietro la severità dello sguardo, la protezione dietro la spada, l’eleganza dietro la fierezza.
Come se andassero oltre l’apparenza per cercare la sostanza, che poi è quello che devi fare in Armenia sennò ti sembrerà solo una distesa decadente di edifici in stile sovietico.

O forse, e questa credo sia l’ipotesi più probabile, sto iniziando ad avere le visioni per colpa del trauma che è stato tornare a vivere in van!
Sì è vero, ci sono traumi decisamente peggiori di viaggiare su uno sgangherato van blu.
Ma mentirei se dicessi che non mi ha quantomeno scombussolato tornare a vivere in due metri quadri con le ruote, un motore e  senza una doccia.
Quello di cui più mi sono resa conto, però, è di quanto sia molto più solitaria questa vita su un mezzo.
Devi parcheggiati nella natura, spesso lontano da altre persone. Non sei più circondato costantemente dalla vita del Paese in cui ti trovi.
Non hai più il bisogno di appoggiarti ad estranei anche per le cose più basilari perché volendo sei autonomo e indipendente.
Necessariamente un po’ ti chiudi e finisci a parlare persino con una statua!
So che per molti questa è la tipologia di viaggio ideale (conversazioni con le statue escluse) ma per due come noi che amano il contatto con le persone del posto, che si emozionano nel gesto amorevole di uno sconosciuto, che si sentono vivi nel non avere nessuna barriera con il mondo che li circonda; ecco, per due così tornare a viaggiare con un mezzo è stato un trauma.
Una consuetudine a cui riabituarsi.
Paolo apre il portellone del van, guarda fuori.
“Hai salutato Madre Armenia?” gli chiedo.
“Buongiorno Madre Armenia! Dormito bene lassù? Ammazza che vista che hai, da lì vedi tutto il monte Ararat. Per caso si vede l’arca di Noè?”
Io l’avevo detto che questo cambiamento così bene non ci ha fatto!

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