Jacques Kébadian, cinquant’anni di cinema politico (Il manifesto 08.11.18)

All’edizione 2018 da poco conclusasi di Doclisboa sono state riproposte alcune delle opere dedicate all’Armenia dal regista francese Jacques Kébadian, nato nel 1940 da genitori sopravvissuti al genocidio. Kébadian è stato uno degli ospiti del festival, dandoci l’occasione di una conversazione che partendo dal cinquantenario del 1968 ha ripercorso cinque decenni di un cinema politico e poetico realizzato in modo spesso indipendente. Assistente alla regia di Robert Bresson, è stato tra gli animatori del collettivo ARC (Atelier de Recherche Cinématographique), che ha realizzato alcuni dei film simbolo del Maggio francese (Ce n’est qu’un début, Le joli mois de mai, Le droit à la parole).

Trotskista, poi maoista – «non m’interessava costruire il partito rivoluzionario» – sul finire degli anni ’60 entra in fabbrica come operaio nello stabilimento di vernici Valentine a Gennevilliers di cui denuncia le condizioni di lavoro nel corso di manifestazioni violente che nel 1969 gli valgono l’arresto e due mesi di carcere. Nel suo primo lungometraggio, Trotsky (1967), compaiono Patrice Chéreau, Guy e Joani Hocquenghem e lui stesso ha recitato in Les baisers de secours (1989) di Philippe Garrel. Quest’estate, al Cinema Ritrovato, la retrospettiva sul ’68 ha incluso il recente L’île de Mai co-firmato con Michel Andrieu, un film di montaggio che raccoglie il vasto repertorio sulle rivolte studentesche e operaie filmato da ARC e da altri cineasti militanti.

Negli anni, ha raccontato le lotte dei sans-papiers (D’une brousse à l’autre, 1998), degli zapatisti (La Fragile Armada, 2002) ma si è anche dedicato a ritratti: del regista Sergej Paradjanov, dello scrittore Pierre Guyotat, di Germaine Tillon e Geneviève de Gaulle Anthonioz. L’«io» è però un pronome poco presente nel vocabolario di Kébadian, che usa la prima persona quasi solo al plurale.

Come è nato il collettivo ARC?
Da alcuni compagni di studi dell’IDHEC (l’Institut des Hautes Études Cinématographiques, poi Fémis), uniti dalla lotta contro la guerra in Vietnam. Iniziammo riprendendo con le cineprese della scuola il grande sciopero dei minatori del marzo-aprile 1963 nel Nord-Pas-de-Calais. Il film è conosciuto con il titolo La grande grève des mineurs. Tra noi c’erano alcuni registi più esperti come Jean-Denis Bonan e Mireille Abramovici che frequentavano il gruppo di ricerca CERFI presso la clinica psichiatrica sperimentale La Borde, dove c’erano Félix Guattari e Jean-Claude Polack e dove ci ritrovammo regolarmente sul finire del 1967. Nel febbraio del 1968 andammo a Berlino per filmare Rudi Dutschke e il movimento dell’Università critica, con i trotskisti della Gioventù comunista rivoluzionaria. Ma c’erano anche gli studenti di Nanterre e Daniel Cohn Bendit. È stata l’occasione per firmare il nostro primo film come ARC, intitolato Berlin 68. Quando siamo tornati abbiamo ripreso le manifestazioni a Nanterre fino all’occupazione. Eravamo antistalinisti, antimperialisti, anticapitalisti e con noi c’erano anche dei situazionisti: il maggio 1968 fu la nostra «rivoluzione d’ottobre».

Quando ha incontrato Robert Bresson?
Alla fine dell’IDHEC. Anche se mi sono diplomato in regia, mi piaceva molto il montaggio e lavoravo come montatore nel programma per bambini Bonne nuit les petits il cui sceneggiatore e produttore era Claude Laydu, che era stato protagonista di Diario di un curato di campagna. Lui voleva affidarmi la regia del programma, ma un giorno che parlavamo di Bresson venne fuori che aveva in preparazione un nuovo film. Ci ha presentati e ho lavorato con lui tra il 1966 e il 1969 per Au hasard Balthazar, Mouchette e Così bella, così dolce in cui ho anche una parte. Lavorare con Bresson è stato formidabile. Avevamo una relazione piuttosto stretta anche perché come non amava gli attori professionisti, così non voleva un assistente professionista. Tra noi c’era complicità e mi affidava vari compiti: per Au hasard abbiamo curato insieme il lavoro sul suono. Per Mouchette mi mandò nel Nord come attrezzista. Uno dei miei compiti era anche quello di trovare gli interpreti giusti. Per esempio, Jean-Claude Guilbert, che lavorò sia in Au hasard sia in Mouchette, era un muratore ma anche un intellettuale. Loro due si capivano.

Quando ha iniziato a lavorare sull’Armenia?
All’inizio degli anni ’80, quando l’impegno politico sembrava diventato difficile. Ho intrapreso quella strada per ritrovare le mie radici. In quegli anni ci fu chi scelse di mostrare attraverso la violenza di non aver dimenticato quanto accaduto al popolo armeno, per esempio i «Giustizieri del genocidio armeno» oppure l’ASALA, l’esercito segreto armeno per la liberazione dell’Armenia che nel 1981 condusse l’Operazione Van, l’attacco all’ambasciata turca di Parigi. Dopo tanto silenzio si ricominciava a parlare del genocidio, che la Francia non aveva ancora riconosciuto. Con un gruppo di persone decidemmo di creare l’Association audiovisuelle arménienne perché volevamo raccogliere e diffondere testimonianze sul genocidio.

Nella vostra famiglia si parlava di quella pagina di storia?
Mia madre parlava quasi solo turco e nel 1915 aveva quattro anni. Né lei né mio padre ne facevano parola. Io non sapevo come intraprendere il discorso, non era un tema di discussione. Per questo il mio film Arménie 1900 è il risultato di un processo di scoperta di una storia e di una terra che non si possono limitare alla formula «un milione di cadaveri». C’era stata una vita prima del massacro e ho cercato di raccontarla, di immaginarla attraverso le cartoline d’inizio Novecento.

In «Arménie 1900» la vita che viene raccontata è in parte anche una vita ipotizzata, sognata, è cinema, è scrittura…
Sì, il film è un adattamento di un libro di Yves Ternon in cui attraverso cartoline e fotografie d’epoca, un orfano cerca di ricostruire la memoria del padre morto durante il genocidio e così facendo racconta la storia di una città armena, con i suoi paesaggi e la vita quotidiana degli abitanti, poco prima della strage. Ho voluto riprendere l’idea di un racconto e rivolgerlo direttamente a qualcuno, quindi il film inizia e termina con le immagini di mio figlio da piccolo.

Una delle presenze importanti nei suoi film «armeni» è l’attore e regista Serge Avedikian. Come l’ha conosciuto?
Ho incontrato Serge ai tempi dell’Association audiovisuelle arménienne. Con lui all’inizio degli anni ’80 ho fatto Colombe et Avédis sulla storia dei suoi nonni, e Sans retour possible, film televisivo in due puntate con testimonianze dei sopravvissuti al massacro. È stato trasmesso per due domeniche di fila alle 20 in armeno con sottotitoli in francese, cosa abbastanza straordinaria. L’ambasciata turca a Parigi ha protestato ma anche molti armeni hanno lamentato il fatto che mostrassimo la povertà, le vittime e non celebrassimo storie di successo e di integrazione. Lo abbiamo realizzato prendendo in prestito l’attrezzatura dal CNR perché sapevamo che non avremmo potuto conservare nel montato finale tutte le interviste ma desideravamo che fossero archiviate. Abbiamo filmato circa 15 ore di racconti sia su pellicola sia in video. Il video ci permetteva di non dover economizzare e di registrare a lungo. Con quel materiale d’archivio, che è disponibile alla Biblioteca nazionale, nel 1993 è nato il film Mémoires armeniennes. Quello fu anche il titolo della grande installazione che concepii con Jean-Claude Kebabdjian e fu in mostra alla Villette di Parigi nel 2006-2007, in occasione dell’anno dell’Armenia in Francia. Quindici schermi, distribuiti su una grande mappa della presenza armena tra Caucaso e Turchia prima del 1915, trasmettevano le interviste che avevamo filmato nel 1982 in corrispondenza della città natale dei testimoni. Molte di quelle persone erano ormai decedute ma restava la loro memoria. In quell’occasione ci fu anche una rassegna cinematografica in cui si proiettò pure Ritorno a Khordociur di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi.

L’Armenia continua a essere presente nel suo lavoro e nella sua vita?
Il mio ultimo film armeno è Dis-moi pourquoi tu danses… del 2015, su una compagnia che attraverso la danza racconta la storia di quel popolo: la coreografa è originaria dell’Armenia sovietica, ci sono armeni provenienti dalla Francia, dall’Iran, dall’Egitto. Ho cominciato a girarlo nel 2006/2007 ma non avevo fondi così l’ho terminato per il centenario del genocidio.

Ultimamente si è anche occupato della questione abitativa.
Qualche anno fa è nata una collaborazione con l’architetto Patrick Bouchain che a Boulogne-sur-Mer studia modi alternativi di costruire e di progettare con gli abitanti. Per tre anni ho filmato la trasformazione di una via, gli interni delle case insieme ai residenti, ed è nato Construire ensemble la rue Auguste Delacroix, codiretto con Sophie Ricard.

Non ha mai pensato di realizzare un film totalmente di finzione?
Sì ma è molto difficile. Ho scritto una sceneggiatura dal titolo Phébus che racconta la storia di una famiglia di origine armena tra anni ’30 e ’80 ed è ispirata ad un romanzo. Ma finché non trovo un produttore il progetto è fermo.

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