La crisi del Nagorno Karabagh nell’era di Trump (Spondasud 13.12.16)

di Bruno Scapini 

Il conflitto del Nagorno Karabagh, congelato fin dalla firma del “cessate-il-fuoco” del 1994, sottoscritto tra Armenia e Azerbaijan, non accenna a risolversi. In tutti questi anni, i negoziati condotti dalle grandi Potenze, sia nella sede del Gruppo di Minsk dell’ OSCE, sia sul piano bilaterale con la mediazione della Svizzera, non hanno condotto a nessun risultato accettabile per le Parti in causa. Anzi, avrebbero esasperato, per la loro incongruenza, la tensione esistente tra Yerevan e Baku alimentando un crescendo di violazioni del “cessate-il-fuoco” che, da modalità casuali e circoscritte a qualche colpo di cecchino, sono venute assumendo sempre più i caratteri di una aperta belligeranza concretizzatasi nella sua forma più evidente nell’attacco sferrato da parte azera il 1 aprile  scorso. Un’azione militare, quella, portata avanti inaspettatamente da Baku con un impiego di mezzi e uomini senza precedenti, e impegnando sul terreno quasi tutto l’arco confinario della c.d. “linea di contatto”.

Le ragioni di questa inconciliabile confrontazione non vanno tuttavia ricercate in una supposta rigidità delle posizioni assunte dall’Armenia – ben comprensibili  del resto a fronte della retorica bellicosa tenuta dal Presidente azero Alijev  e alla luce della sua comprovata inaffidabilità negoziale –  bensì risiederebbero proprio nella proposta risolutiva sostanziata dall’OSCE nei Principi di Madrid, la cui primaria ispirazione non sembra essere la ricerca di un riconoscimento equo e sereno delle legittime aspettative del popolo del Nagorno Karabagh, – tra l’altro fondate giuridicamente sulla base di quanto disposto  dalla legge della Federazione Russa sulla secessione delle Repubbliche ex sovietiche –, ma l’ ipocrita finzione di porre il principio della integrità territoriale sullo stesso piano di quello della autodeterminazione dei popoli. Un principio, quest’ultimo, che, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite, ha alimentato e nutrito le aspirazioni alle libertà fondamentali dei popoli oppressi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ovvero promuovendo, nella fase post-colonialista della Storia moderna, la configurazione del nuovo assetto politico internazionale fondato sul riconoscimento di “nazionalità”.

Fino ad oggi, così, hanno prevalso logiche di potere economico nello stabilire a quale di questi due principi occorresse riconoscere priorità; e i grandi “player” internazionali, nell’ottica di proteggere i propri interessi legati alle fonti energetiche di cui l’Azerbaijan –  e non l’Armenia purtroppo – è ricco, hanno gareggiato nel tacere la verità, sostenendo spesso, e più o meno subdolamente, la causa di Baku.

Ma l’ascesa inaspettata alla Casa Bianca di Donald Trump sembra ora aprire la strada verso una nuova impostazione della politica estera americana.

2.

Forse è troppo presto per avanzare delle previsioni che potrebbero essere smentite una volta che il Presidente eletto si sia insediato nella “stanza ovale”.

Ma attenendosi alle sue dichiarazioni programmatiche e ad alcune condotte tenute in questo periodo di transizione, vi sarebbe fondato motivo per credere che Trump intenda seriamente cambiare qualcosa nei rapporti finora intrattenuti tra gli USA e il resto del mondo. E ciò se non altro per una ragione imprescindibile di coerenza nell’attuazione del suo programma di rinnovamento interno del Paese.

La politica estera – sappiamo – non conosce un indirizzo autonomo rispetto alla politica interna. Anzi, ne è la continuazione, con altri mezzi e procedure, in una proiezione esterna, sì da rifletterne le esigenze di fondo attraverso l’adozione di altrettante linee di azione adeguate per finalità e portata. Trump promette di portare il PIL americano a crescere del 3.5%, parla di incrementare la produzione nazionale e di allocare risorse al rinnovamento delle infrastrutture del Paese. Ma tutto questo implicherebbe, da un lato,  una revisione della politica economico-commerciale con l’estero ( nel senso di favorire un certo protezionismo economico ), e, dall’altro – onde reperire le risorse – una significativa riduzione dell’impegno alla cooperazione internazionale e alla protezione militare degli alleati . Tale ultimo obiettivo non sembrerebbe comunque raggiungibile senza un cambiamento decisivo del rapporto con la Russia di Putin risultando, infatti, imprescindibile una intesa con Mosca a garanzia del nuovo “re-setting” delle relazioni con i membri della NATO e con tutti gli altri Paesi ai quali Washington ha finora assicurato il proprio sostegno economico ( leggi Israele, Turchia  ed altri) o protezione militare.

Un rinnovato rapporto con Mosca, fondato sul reciproco riconoscimento di priorità, appare, dunque, come una possibile, ma anche probabile, direttrice della nuova politica estera di Trump, di cui potranno beneficiare presumibilmente anche tutti quegli altri Paesi e  gruppi nazionali che fino ad oggi hanno visto sacrificati i propri interessi e aspirazioni da una relazione conflittiva tra Washington e Mosca  a seguito di quella abitudine, dura a morire – nutrita dalle lobby del “military-industrial complex” americano –  di antagonizzare la Russia rappresentandola sempre come lo Stato da demonizzare, piuttosto che vederla come utile partner per un generale e pacifico riordino mondiale.

L’Armenia, in una tale prospettiva, non potrebbe che trarne beneficio. La prevedibile ridimensionata importanza che avrebbe l’Azerbaijan in un contesto di interessi energetici compresso dal neo-protezionismo americano e da una Russia determinata a favorire le proprie vie di transito per gli idrocarburi diretti in Europa, apporterebbe

3.

 

Indubbi vantaggi alla  Yerevan ufficiale nel controbilanciare l’aggressività azera. Non solo, ma la dichiarazione di Trump di voler essere “giusti” con “popoli e nazioni” (non ha parlato infatti di Stati ) sottenderebbe chiaramente l’intendimento del neo-presidente americano di appoggiare quelle cause nazionaliste oggi in sofferenza per una erronea interpretazione dei valori storici. In quest’ottica ne gioverebbero presumibilmente comunità nazionali come quella curda, la palestinese, o Paesi finora marginalizzati come Taiwan, la Corea del Nord e tanti altri ancora, a causa di una “distorta” visione del mondo tenuta in passato dai “grandi” del pianeta.

In questo quadro, il popolo del Nagorno Karabagh potrebbe verosimilmente acquistare importanza nell’attualità internazionale, acquisendo  un ruolo suo proprio non solo come destinatario di un riconoscimento di legittime aspirazioni di libertà, ma anche, e forse più tecnicamente, quale primario soggetto di una trattativa negoziale dalla quale è stato finora ingiustificatamente escluso.

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