“LA FAMIGLIA DEI GENOCIDI È UNA MALATTIA UNIVERSALE DELL’UMANITÀ” (Gariwo 22.06.21)

Israel Charny è uno psicoterapeuta israeliano e un noto studioso di genocidi. Charny è uno specialista nel trattamento dei sopravvissuti all’Olocausto, con una lunga e stimata carriera come psicologo clinico e terapeuta familiare. Il professor Charny è anche il direttore dell’Institute on the Holocaust & Genocide a Gerusalemme, che ha fondato insieme a Elie Weisel. È anche co-fondatore ed ex presidente dell’International Association of Genocide Scholars, e autore di libri premiati sul tema dei genocidi, come Genocide: A Critical Bibliographic Review (1988), Encyclopedia of Genocide (1999-2000), e Fascism and Democracy in the Human Mind (2006). Nell’aprile 2021, ha pubblicato il suo ultimo libro, intitolato Israel’s Failed Response to the Armenian Genocide: Denial, State Deception, and Truth versus Politicization of History. Insieme a Yair Auron, storico e direttore associato dell’Institute on the Holocaust and Genocide, il professor Charny ha vinto il President of Armenia Prize “per il suo lavoro accademico decennale sul genocidio armeno e le attività che hanno contribuito al suo riconoscimento internazionale, nonché per le sue significative ricerche nel campo della negazione del genocidio”. In questa intervista, il professor Charny ci parla dei tentativi di Israele di cancellare una conferenza internazionale sui genocidi nel 1982, del rapporto di Israele con il genocidio armeno e altri genocidi, e del suo coinvolgimento personale, come psicoterapeuta, con il tema dei genocidi. Questa intervsista è stata editata per motivi di chiarezza e scorrevolezza.

Professor Charny, partiamo dal suo nuovo libro, intitolato Israel’s Failed Response to the Armenian Genocide: Denial, State Deception, Truth versus Politicization of Historyin cui lei si concentra sui tentativi di Israele di sabotare una conferenza accademica sulla Shoah e sul genocidio armeno nel 1982. Il libro contiene molte informazioni e fonti d’archivio, comprese le sue lettere personali a Shimon Peres, che si è allineato con la politica ufficiale di Israele di negazione del genocidio armeno. Potrebbe dirci di più su questo episodio, che lei ha definito come un “fallimento morale” di Israele?

Nel 1982, io e altri organizzammo una conferenza internazionale a Tel Aviv. La conferenza, intitolata International Conference on the Holocaust and Genocide, fu la prima conferenza mai organizzata sulla nozione di genocidio. Soprattutto, fu la prima conferenza a unire le nozioni di Olocausto e genocidio, collegando l’Olocausto ai genocidi precedenti e in corso di tutti gli altri popoli per “proiettare il genocidio come un problema universale nella storia e nel futuro di tutti i popoli” e per “riconciliare le vittime specificamente ebree con l’universalità di tutte le vittime“. Circa 600 persone si erano preregistrate per partecipare ma, a causa dell’enorme pressione esercitata su di loro affinché non venissero, solo 300 persone parteciparono alla conferenza. Alcuni membri del governo israeliano chiamarono personalmente gli iscritti alla conferenza e chiesero loro, in nome di Israele, di non partecipare alla conferenza. In alcuni casi, Israele inventò persino storie sul fatto che la Turchia avesse minacciato le vite degli ebrei per convincere i partecipanti a non andare. L’obiettivo di Israele era di far annullare la conferenza. Alla fine, la conferenza ebbe luogo comunque, e 300 persone decisero di venire quando seppero che la conferenza sarebbe stata organizzata ugualmente. Fu un’occasione molto commovente. L’atmosfera era elettrica: i partecipanti erano consapevoli della nostra lotta contro il governo e si sono identificati con noi, con il nostro coraggio e la nostra persistenza nel resistere contro i tentativi di cancellare la conferenza.

Perché pensa che fosse necessario organizzare quella conferenza, e cosa pensa che sia giusto imparare da questa esperienza?

Quella conferenza fu il primo tentativo di riunire menti e cuori per guardare al genocidio come un problema universale dell’umanità. Negli anni successivi alla nostra conferenza, altre università hanno collegato l’Olocausto e il concetto di genocidio. Di questo sono felice. L’Olocausto ha certamente la sua particolarità, ma è anche parte di una terribile famiglia chiamata genocidio, in cui nessuno è superiore agli altri o deve essere separato dagli altri. La famiglia dei genocidi rappresenta una malattia universale dell’umanità, fin dall’inizio della storia. È un aspetto tragico della storia umana, e così come ci organizziamo per lottare contro malattie come il cancro o per gestire i problemi ecologici che minacciano l’esistenza del nostro pianeta, dobbiamo anche combattere la naturale presenza del genocidio nel repertorio umano: il genocidio non smette mai di comparire.

Come psicoterapeuta ed esperto di genocidi, la sua prospettiva sulla relazione di Israele con altre atrocità di massa è unica e particolare. Come suggerisce il titolo di uno dei suoi libri – Fascism and Democracy in the Human Mind: A Bridge between Mind and Society -, i meccanismi tipici della vita psichica individuale possono essere applicati alla sfera collettiva e sociale. Per quanto riguarda il rapporto di Israele con il genocidio armeno, come pensa che questi due livelli si intreccino tra loro? Quali sono, secondo lei, i meccanismi all’origine della negazione del genocidio armeno da parte di Israele e, più in generale, della tendenza di Israele a separare la Shoah dagli altri genocidi, rifiutando qualsiasi confronto con essi?

Credi che questo sia il risultato di una complessa combinazione di due spinte inconsce. Da un lato, c’è la base emotiva ed esperienziale dei sopravvissuti, che vedono la loro insopportabile sofferenza come unica e senza precedenti, non paragonabile a quella di nessun altro. Questo è un meccanismo del tutto umano, pienamente giustificato, e che non metterei mai in discussione. D’altra parte, sfortunatamente, questa spinta si collega con un altro processo inconscio, che è abbastanza pericoloso e ha a che fare, paradossalmente, con la creazione di genocidi. Vale a dire, il bisogno inconscio di rendere se stessi – in questo caso il sé collettivo – superiori agli altri e di rendere gli altri inferiori a noi. C’è un pericolo essenziale in questo concetto: superiore è diverso da eccellente, vincente, o dall’essere eccezionale. La superiorità ha a che fare con il dominio, con l’essere più dell’altro, con il creare un contesto in cui l’altro è inferiore a noi. Sono due aspetti distinti, che possono combinarsi facilmente perché entrambi implicano un’enfasi sui nostri valori. Sentirsi superiori agli altri è di per sé una pulsione umana, che ci abita fin dall’infanzia: ma crescendo e diventando adulti, impariamo a superare questa pulsione, raggiungendo un livello superiore di convivenza con gli altri, basato sull’uguaglianza, sull’onore e sul rispetto reciproco.

Come si può realizzare questo livello superiore di coesistenza con gli altri?  

Dobbiamo guardare Israele dal punto di vista dello sviluppo dell’individuo. Tipicamente, il bambino ha bisogni, desideri e imperativi. Lentamente, si spera, nel processo di interazione premurosa con la madre, il padre, i fratelli, i nonni e gli altri bambini, il bambino sviluppa un senso di significato e di valore delle altre persone. Questo si collega strettamente con la capacità di sviluppare l’empatia: quando i bambini vedono che qualcun altro si fa male o si ammala, ne rimangono colpiti, preoccupandosi e allarmandosi. Durante la vita, lentamente ma inesorabilmente, la nostra cerchia si espande e impariamo a prenderci cura degli amici e di altri soggetti che amiamo: è così che si impara non solo a cercare sessualmente qualcuno ma a connettersi con gli altri emotivamente, in modo premuroso e reciproco. Lentamente ma inesorabilmente, il nostro mondo si espande nella consapevolezza che viviamo in un dato contesto, città, stato o paese, che i membri della nostra famiglia – che sia una religione, una nazione o un partito politico – condividono con noi dei valori. Se siamo fortunati, questo processo di sviluppo porta le persone a prendere coscienza che ci sono tanti altri esseri umani in questo mondo, che sono proprio come noi e hanno bisogno degli stessi elementi basilari di protezione che tutti noi cerchiamo. Un livello più alto di convivenza con gli altri, quindi, può essere raggiunto solo attraverso la coltivazione dell’amore: amore per noi stessi e, di conseguenza e in modo più maturo, per le altre persone, comprendendo che siamo tutti figli del miracolo. È un lavoro enorme, ma emozionante e meraviglioso.

Portiamo questo discorso a un livello sociale e collettivo: cos’è che è andato storto in questo processo di sviluppo, nel caso di Israele? E quali sono i soggetti di un possibile cambiamento? A Gariwo, per esempio, ci concentriamo sulle figure dei Giusti – di coloro che hanno scelto il bene in circostanze estreme – per educare la società alla cittadinanza attiva e alla responsabilità. Ma Israele? Pensa che questo sia un compito della leadership, delle istituzioni educative? Come si fa a creare una cultura diversa, che si basi sull’empatia e la connessione con l’altro?

Come ogni soggetto collettivo, Israele deve affrontare la sfida universale di avere a che fare con gli altri. Tuttavia, Israele ha un proprio fardello di una storia di così tante persecuzioni del popolo ebraico che la comprensibile necessità di rafforzare noi stessi – che è al centro del miracolo sionista, della ri-costruzione di Israele – ha occupato tanta parte della storia ebraica. E fare tutto questo mantenendo e sviluppando al tempo stesso un atteggiamento genuinamente universale di cura per le altre persone è una sfida enorme. Molte parti del popolo ebraico sono andate in questa direzione in modo costruttivo. Un verso della preghiera dello Shabbat dice: “tu ci hai scelto al di sopra degli altri popoli”: questo fa parte della preghiera da migliaia di anni. Molti di noi hanno cambiato quella preghiera: ora alziamo i nostri calici e cantiamo: “ci hai scelti insieme agli altri popoli”. Altre parti del popolo ebraico, tuttavia, non hanno colto questa sfida. E questo, per riprendere la sua domanda sulla leadership politica, include la dirigenza religiosa ortodossa di Israele. Anche se la tradizione ebraica offre alcune bellissime massime sulla cura dello straniero e sul prendersi cura degli altri, la leadership ortodossa è diventata ferocemente egocentrica e antagonista, incoraggiando il disprezzo verso gli altri. Questo è contro tutto ciò che l’ebraismo rappresenta. Alla luce di questo, credo che tutti i fattori che lei ha menzionato siano assolutamente rilevanti per costruire una cultura di rispetto reciproco e di empatia con gli altri: buoni leader e buoni educatori sono tutti fondamentali per raggiungere questo obiettivo.

Concentriamoci ora sul genocidio armeno. Perché, secondo lei, Israele si rifiuta di riconoscerlo? Recentemente, un vivace dibattito ha avuto luogo sulle pagine del giornale israeliano Haaretz: alcuni sostengono che Israele si rifiuta di riconoscere il genocidio armeno per motivi religiosi e culturali; altri ritengono che tutto si riducalla politica. Lei cosa ne pensa?

È una combinazione di diversi fattoriIl primo fattore è molto pratico e ha a che fare con la relazione di Israele con la Turchia. In ogni ministero degli esteri del mondo molti credono che le relazioni estere si basino sul fare ciò che è bene per il tuo popolo, ottenendo il massimo vantaggio possibile, e preoccupandosi molto poco di considerazioni di ordine morale. Si chiama realpolitik, e a me non piace. Credo che le relazioni estere dovrebbero certamente basarsi sulla praticità del proteggere se stessi, ma il più possibile, e contemporaneamente, dovrebbero anche basarsi sulla moralità e sulla decenza. Il secondo fattore ha a che fare con il processo culturale di cui abbiamo parlato: tante persone hanno insistito sul fatto che la Shoah non può essere paragonata o collegata in alcun modo ai genocidi di altri popoli. Il non riconoscimento del genocidio armeno da parte di Israele comincia quindi con questioni pratiche e continua con la coltivazione di un proprio senso di superiorità basato sull’esclusione di altri popoli: si tratta di una combinazione piuttosto problematica.


E l’ONU? Dopo che Rafael Lemkin ha coniato la nozione di “genocidio”, l’ONU ha giocato un ruolo centrale nel trasformarlo in un crimine internazionale, definito 
dal punt di vista giuridico. Eppure, l’ONU non ha mai preso ufficialmente posizione su ciò che è accaduto in Armenia tra il 1915 e il 1918, né l’Armenia appare nella descrizione ufficiale dell’ONU sull’origine di questo concetto. Inoltre, recentemente il portavoce del segretario generale dell’ONU Antònio Guterres ha detto: “Non facciamo commenti, come regola generale, su eventi che hanno avuto luogo prima della fondazione dell’ONU”. Lei cosa ne pensa? 

L’ONU riconosce il genocidio armeno, e ogni affermazione contraria è sbagliata. Per molti anni, l’ONU non ha riconosciuto il genocidio armeno, per i motivi di cui parla. Nel 1985, tuttavia, l’ONU ha istituito una commissione guidata da Benjamin Whitaker. La commissione Whitaker ha prodotto un bellissimo rapporto sui genocidi, che ha riconosciuto il genocidio armeno senza alcuna riserva. Quindi, dal punto di vista della storia e della legalità, l’ONU ha riconosciuto il genocidio armeno.

Il rapporto Whitaker elenca il genocidio armeno in un paragrafo [paragrafo 24, parte I, sezione B], insieme ad altri genocidi, affermando che alcuni di essi non sono genocidi dal punto di vista legale ma possono comunque essere definiti tali. Questo deve essere preso come un riconoscimento formale del genocidio armeno da parte dell’ONU? 

Sì, assolutamente.

Un’ultima domanda, di natura personale: come è arrivato a interessarsi, da psicoterapeuta, al genocidio armeno e al tema dei genocidi in generale?

Le racconterò due storie personali. La prima storia è questa: molti anni fa, quando vivevo ancora in America, lavoravo in un ospedale psichiatrico per adolescenti. Un giorno organizzammo una giornata di studio, e arrivarono due ospiti: uno psichiatra e uno psicologo turchi, di cui non sapevo nulla. Per puro caso, mi trovai seduto accanto a loro e così passammo tutta la giornata insieme, condividendo le pause caffè e pranzo. Durante la pausa caffè del pomeriggio, mi ricordai improvvisamente che avevo appena letto, e scoperto, del genocidio armeno in un articolo molto famoso apparso su una rivista chiamata Commentary Magazine. Così chiesi loro di parlarne, dicendo che mi sarebbe piaciuto saperne di più. In pochi secondi, queste persone si girarono e si allontanarono, e non mi rivolsero più la parola per il resto della giornata. Da quel giorno, non ho potuto fare a meno di interessarmi alla negazione del genocidio armeno.

La seconda storia che voglio raccontarle è questa: molti anni fa, dopo aver ricevuto il mio dottorato e dopo cinque anni di esperienza post-dottorato, feci un esame molto avanzato per essere riconosciuto come “specialista”. Specialista significa, per esempio, che quando si firma un modulo di assicurazione per un paziente, questo modulo è automaticamente riconosciuto in tutti gli stati d’America, anche in quelli in cui non si ha la licenza. Significa molte altre cose che definiscono lo specialista come un esperto del comportamento umano. Superai l’esame. Dopo aver ricevuto l’avviso, andai a dormire e feci un sogno. Il sogno riguardava l’Olocausto: vidi i nazisti uccidere gli ebrei, in particolare i bambini. Nel sogno, mi dissi: dicono che sono un esperto del comportamento umano, ma sono in grado di capire perché gli esseri umani possono comportarsi in questo modo? E la risposta è stata: no, non lo so, e la mia lunghissima formazione – che ora mi qualifica come “specialista” – non mi ha insegnato nulla al riguardo. Quello fu per me un punto di svolta: capii che mi sarei occupato di questo argomento per il resto della mia vita.

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