«La ferita sanguina», il genocidio armeno visto dai discendenti (Domani 04.05.25)
Ancora oggi la Turchia rifiuta di riconoscere la storia e i fatti come tali. I genitori di Arpi si sono conosciuti in Libano. Lei tiene viva la memoria
In Libano, nella Grande Casa di Cilicia ad Antelias, sede della Chiesa apostolica armena, c’è un mausoleo a memoria del genocidio degli armeni per mano dei turchi ottomani del 1915. È stato costruito nel 1938 e contiene i resti di chi è morto lungo la deportazione nel deserto siriano. «In punto di morte mia nonna si chiedeva quale fine avesse fatto sua madre», racconta Arpi Mangassarian, 72 anni, architetta e proprietaria del Badguèr, centro culturale e ristorante armeno nello storico quartiere di Bourj Hammoud, municipalità appena fuori da Beirut, considerata parte della città. Uno degli obiettivi del Badguèr è quello di preservare e mantenere vivo il patrimonio culturale armeno al di fuori dell’Armenia. Nel raccontare la sua storia Arpi si ferma più volte per le lacrime che scendono portando via il kajal nero dagli occhi. «È ancora doloroso, la ferita sanguina ancora», dice.
Per secoli gli armeni, il primo popolo ad adottare la religione cristiana nel 301 d.C. hanno abitato l’est dell’Anatolia, oggi Turchia. Mentre l’impero ottomano si sgretolava e i Giovani Turchi cercavano di tenerlo insieme, gli armeni furono percepiti come una minaccia da annientare. Il 24 aprile 1915 gli intellettuali armeni furono arrestati ed eliminati, mentre molti degli uomini costretti in campi di lavoro per la costruzione della linea ferroviaria Baghdad-Berlino.Il resto della popolazione fu spinta verso il deserto dove in gran parte morirono di stenti, violenze, fame e malattie. La bisnonna di Arpi era in marcia per raggiungere il marito ad Aleppo, ma ad un certo punto si è accasciata e ha pregato la figlia Nazely di continuare. «Chissà se il suo corpo è stato mangiato dagli uccelli, o dai cani», Arpi riporta le parole della nonna Nazely prima di morire a 91 anni, nel 1971.
Il genocidio e la diaspora
Nonostante tra il 1915 e il 1923 circa un milione e mezzo di persone sia morto, fin dal periodo repubblicano e ancora oggi la Turchia non riconosce come genocidio quanto accaduto, sostenendo che il numero dei morti sia inferiore e il risultato dagli scontri tra armeni cristiani e turchi musulmani – una sorta di guerra civile – nell’ambito della Prima Guerra Mondiale.
«Verso la fine degli anni Trenta, per volere dell’arcivescovo Bedros Saradjian circa centocinquanta tra teschi e ossa sono stati recuperati dal deserto siriano e portati nella chiesa di Antelias», spiega la direzione del museo della Grande Casa di Cilicia. Qui i resti degli antenati di molti degli armeni che vivono oggi in Libano, Russia, Stati Uniti ed Europa, oltre che in Armenia, costituiscono il monito di una tragedia che ancora oggi non trova pace.
I genitori di Arpi, entrambi discendenti da sopravvissuti al genocidio, si sono conosciuti in Libano, arrivati dalla Siria per parte di padre e dalla Bulgaria per parte di madre, dopo anni di spostamenti.
Da giovane il padre si era trasferito da Aleppo, in Siria al Libano per le migliori opportunità di lavoro. «Non si sarebbero mai incontrati se non fosse che una delle mie zie non voleva sposarsi ma continuare a studiare, così ha lasciato la Bulgaria dove l’influenza sovietica aveva avuto un impatto negativo sull’educazione per continuare gli studi in Libano», racconta Arpi. «Dopo qualche tempo ha convinto tutta la famiglia a raggiungerla».
Non arriviamo al come i suoi genitori si sono conosciuti e sposati a Zouk el-Blat, nel centro di Beirut nel 1951 perché il suo racconto viene interrotto dal pianto. La madre è mancata pochi mesi fa, aveva 104 anni. «Non è facile essere la figlia di queste persone».
Anche papa Francesco nel suo messaggio ai cristiani armeni in occasione del centenario del massacro nel 2015 aveva ripreso le parole di una dichiarazione di Giovanni Paolo II parlando del genocidio degli armeni come del primo del XX secolo.
A questo messaggio il presidente turco Recep Erdoğan aveva reagito convocando l’ambasciatore vaticano ad Ankara, richiamando quello turco in Vaticano e avvisando il pontefice di non commettere questo errore nuovamente. «Nascondere o negare il male è come permettere che una ferita continui a sanguinare senza medicarla», aveva aggiunto papa Francesco.
Ad oggi, secondo l’Armenian National Institute sono 32 i paesi che riconoscono il genocidio, compresa l’Italia. Dopo anni di ambiguità, nel 2021 anche l’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha usato il termine “genocidio” per parlare del massacro degli armeni.
Una foto dei genitori di Arpi da anziani è esposta nel corridoio, all’entrata del Badguèr. «Ho vissuto tutto quello che loro hanno vissuto. Ho sentito tutto quello che loro hanno sentito e porto con me il peso della mia storia e del mio patrimonio culturale», spiega.
Se per i nonni la patria era l’Armenia, per le nuove generazioni è diventata il Libano. «Col tempo questo paese si è guadagnato il nostro amore, senza mai dimenticare l’Armenia», sottolinea Arpi.
Non è chiaro quanti siano oggi gli armeni in Libano. «Circa 320mila prima della guerra civile libanese, ma ad oggi molti meno». Ogni anno diverse commemorazioni vengono organizzate in tutto il paese intorno al 24 aprile.
Quest’anno, in occasione del 110mo anniversario, anche uno spettacolo teatrale ha rappresentato il dolore del genocidio e la conseguente “Operazione Nemesis”, la campagna di omicidi mirati organizzata dalla Federazione Rivoluzionaria Armena con lo scopo di eliminare gli esponenti ottomani che avevano preso parte nell’organizzazione del massacro. Quello più importante fu quello di Talat Pasha, considerato uno dei principali responsabili del genocidio, ucciso a Berlino nel 1921 dall’armeno Soghomon Tehilirian, poi assolto. «Questo patrimonio va tenuto in vita e condiviso», dice Arpi mentre asciuga le lacrime. «E questo è il mio lavoro».
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