La guerra in Nagorno Karabakh negli occhi di una pacifista azera(Osservatoriodiritti 17.09.21)

Gunel Movlud è una giornalista, scrittrice e difensore dei diritti umani azera. È nata nel 1981 nella regione di Jabrail, in Nagorno Karabakh, e quando aveva solo 12 anni è stata costretta a fuggire con sua madre e i suoi fratelli perché i combattimenti tra le truppe armene e quelle azere investirono anche la sua città.

Movlud ha trascorso i successivi 5 anni in un campo profughi nella regione di Sabirabad, in Azerbaijan, poi l’università, gli studi di lettere ed è stato a quel punto che ha deciso di dedicarsi, attraverso i suoi scritti e il giornalismo, alla difesa dei diritti umani, alla promozione di una cultura di pace e all’impegno nel promuovere una politica di convivenza tra i due popoli.

Un lavoro estremamente difficile e anche pericoloso se fatto in un Paese, l’Azerbaijan, che stando al World Press Freedom Index, la classifica stilata da Reporter senza frontiere che indica il livello di libertà dei media in una determinata nazione, è al 167esimo posto su 180. Una situazione che infatti l’ha portata ad abbandonare la sua terra caucasica e a trasferirsi in Europa.

In seguito alla guerra dei 44 giorni che tra settembre e novembre 2020 ha infiammato di nuovo il Caucaso, la scrittrice azera si è così espressa, in una lunga intervista, in merito alle sue prospettive e alle sue convinzioni su quello che è uno scontro armato che perdura ormai da più di 30 anni.

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Originaria del Nagorno Karabakh, ha vissuto da bambina la guerra degli anni ’90 ed è cresciuta in un campo profughi in Azerbaijan. Oggi crede in una convivenza tra i popoli armeno e azerbaijano. Com’è maturata questa scelta?

Proprio in virtù della mia esperienza ho capito che la guerra è un qualcosa di amorale. La prima guerra del Nagorno Karabakh, quella degli anni ’90, oltre ad aver provocato 30 mila morti ha visto più di un milione di persone perdere la propria casa e dover fuggire e rifugiarsi nei campi profughi. Se alla guerra fa seguito la propaganda dell’odio non ci sarà mai una fine alle sofferenze della gente.

Occorre invece coltivare un pensiero e una cultura pacifista ed è quello che io ho fatto in questi anni grazie anche a un approfondito studio della cultura umanista. Quando poniamo l’uomo come valore più alto, al di là del fatto che sia originario di un Paese o di un altro, possiamo capire che il nemico costruito attraverso la propaganda e la retorica belligerante non esiste.

Chi è il nemico? Se andiamo oltre agli slogan e alle parole d’ordine ci rendiamo conto infatti che il ”nemico” concretamente non è un soldato armato fino ai denti ma è un vecchio nonno, oppure una donna molto tenera, o un bambino con bisogno di aiuto. Queste sono le persone che vivono in Azerbaijan e in Armenia e non sono dei carnefici o degli assassini, ma uomini e donne di ogni giorno. Ed è partendo da questa riflessione, che guarda all’uomo nella sua essenza, che possiamo capire come viene costruita l’immagine del nemico e di conseguenza capirne il vuoto che la compone.

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Che ricordi ha della guerra degli anni ’90?

Ero poco più di una bambina quando è scoppiata la guerra nel 1991. Con mia madre e i miei fratelli siamo dovuti scappare perdendo tutto quello che avevamo, per sempre. Abbiamo attraversato il fiume Aras e una volta in Azerbaijan abbiamo ricominciato una nuova vita in una tendopoli. Migliaia di persone hanno trovato un rifugio temporaneo nei campi profughi dove l’inverno era freddissimo e l’estate caldissima.

Per decenni centinaia di migliaia di sfollato hanno vissuto in questi campi dove mancava l’acqua, ricevevamo solo l’aiuto e l’assistenza delle organizzazioni umanitarie, una casa era una tenda di 8 metri quadrati e d’inverno spesso ci svegliavamo nella neve. Molte persone morivano anche perchè non c’era assistenza sanitaria, le donne, come mia madre, per sopravvivere, raccoglievano cotone per salari bassissimi e questo stato delle cose ha portato a una situazione grave sia da un punto di vista fisico ma anche morale.

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Quando a novembre ha visto le immagini dei cittadini armeni che scappavano dal Nagorno Karabakh cosa ha provato?

Sono state immagini molto dure per me. I cittadini armeni stavano vivendo un qualcosa che io avevo vissuto in passato e capivo perfettamente il loro stato d’animo. Ho avuto concreti momenti di deja-vù durante la guerra dei 44 giorni, perché quando vedevo le file di camion che portavano via le famiglie armene mi sono subito ricordata cos’era successo durante la prima guerra del Karabakh. Ho pensato al mio vissuto.

C’è tanta, tantissima somiglianza, tra le condizioni degli sfollati dopo le guerre. I profughi, di tutto il mondo, hanno dei denominatori comuni. In primis il fatto di essere vittime. E quando vedevo i video della gente armena che scappava mi ha assalito anche una profonda tristezza, perché se non ci sarà un cambio di rotta, quello che abbiamo visto e vissuto potrà ripetersi di nuovo ed è molto triste pensare che non si è stati capaci trovare una soluzione a questa crisi in tutti questi anni. Siamo due popoli che abbiamo vissuto entrambi delle tragedie. Non è forse il momento di porre fine a tutta questa sofferenza?

Cosa vuol dire essere pacifista in Armenia e Azerbaijan?

Essere pacifisti in Azerbaijan e Armenia non è popolare. E lo è ancor meno dopo l’ultima guerra. La maggior parte della popolazione cresce educata a valori di nazionalismo e patriottismo e spesso collidono con una visione di riconciliazione e convivenza tra i due popoli.

Essere pacifisti in Azerbaijan però è molto più difficile che in Armenia. In Azerbaijan chi ha una prospettiva e un’idea come la mia viene considerato spesso come un traditore che non vuole tornare nei territori perduti ed essere pacifisti in Azerbaijan è anche pericoloso.

Proseguirà con il suo attivismo per un Karabakh libero dalla guerra?

Per quanto sia difficile questo cammino, credo che sia estremamente importante coltivare il pacifismo perché se noi avremo la fortuna di arrivare a una situazione di riconciliazione tra i due popoli sarà per merito dei pacifisti. Saranno i pacifisti a dover guidare la riconciliazione rispettando le tragedie vissute e allo stesso tempo superandole. Io credo e spero che questo un giorno avverrà. Noi sappiamo come vivere insieme, l’abbiamo fatto per secoli in passato, ed è la storia a insegnarcelo e ricordarcelo.

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