La missione del Giusto nelle deportazioni…(Gariwo 18.12.19)

AGRIGENTO Cerimonia 7 dicembre 2019 – Interpreto il titolo proposto per questa sessione del “Premio Internazionale Empedocle per le scienze umane” dalla Presidente onoraria professoressa Assunta Gallo Afflitto, anima dell’Accademia, come un invito alla testimonianza.

Esprimo alla Presidente tutta la mia gratitudine.

Tempo fa ho ricevuto una lettera da un medico siriano rifugiato ad Aosta, il dott. Mejid. Mi chiedeva se avevo delle fotografie della sua casa natale di Der es Zor sulle rive dell’Eufrate, in Siria, dove ci eravamo incontrati. La casa è stata distrutta dai terroristi del Daesh.

Prima della guerra ero stato in Siria per un documentario sui luoghi della deportazione e del genocidio del 1915. Avevo visto i resti di un ponte costruito dagli armeni deportati, mai terminato perché il sindaco ottomano “buono”, il Giusto Ali Souad Bey lo faceva continuamente distruggere e ricostruire per poter ritardare l’eliminazione dei giovani armeni che vi lavoravano. Ho visitato le grotte dove il sindaco malvagio Zekki Bey aveva bruciato vivi più di 500 orfani armeni. A Shaddadeh mi sono inoltrato nelle caverne del deserto dove venivano gettati i deportati armeni. Sulla collina di Markadeh ho raccolto i resti delle loro ossa imbiancate e le ho portate nella chiesa armena di Milano. In quel mio viaggio della memoria ero stato ricevuto nel palazzo dei Mejid, ora distrutto. Cosa era successo più di un secolo fa in quei luoghi dove oggi si rinnova lo scempio dello sterminio dei curdi?
Un milione e cinquecentomila armeni, donne, anziani, bambini, deportati. La meta finale: il deserto siriano di Der es Zor; gli uomini e i giovani inviati sulla costruenda ferrovia Berlino-Bagdhad e eliminati.

Ho affondato lo sguardo nel male, ho calpestato la sabbia del deserto, ho messo lo sguardo nel buio delle caverne, ho intervistato i beduini che avevano nonne armene, bambine e adolescenti rapite dai convogli, ho toccato il male con le mie mani, visto, udito, raccolto. Posso testimoniare la verità della storia del mio popolo e della mia famiglia.

Ma di fronte al male estremo potevo impazzire.

Sono figlio di un minore non accompagnato. Nella primavera del 1915 il cielo di Costantinopoli si era oscurato. Il 24 aprile tutti i notabili armeni erano stati arrestati e uccisi. Il nonno Andon, consapevole che non lo avrebbe più rivisto, affidò suo figlio Ignadios, mio padre, dodicenne, a un marinaio. La grande nave partiva dalla banchina del Corno d’Oro diretta a Venezia. Mio padre si avviava all’esilio, il nonno destinato alla deportazione o, nella migliore delle ipotesi, al carcere.

Nel collegio armeno di Venezia a mio padre fu aperta la strada del futuro. Divenne medico. Anche a me dodicenne, molti anni dopo, furono aperte le porte del collegio. Ero italiano, nulla sapevo delle mie origini. Mio padre non parlava mai del passato.
E tuttavia mio padre aveva progettato per me una formazione armena. Ho studiato sugli stessi banchi di mio padre, attanagliato dalla nostalgia del mio paese di origine, Arco, nel Trentino, diviso tra l’impulso a rafforzare la mia identità italiana dimenticando il mio nome impronunciabile e l’impulso a capire perché ero lì, tra studenti armeni di tutti i paesi, di fronte ai padri che tutto spiegavano in lingua armena, anche filosofia e apologia del cristianesimo. Ho vinto la nostalgia, ho completato gli studi, sono diventato medico e ho ripreso la mia identità italiana.
E’ stata la morte di mio padre e il totale silenzio sulla sua condizione di profugo a riconsegnarmi alle mie origini armene. Da quel momento è iniziato il mio viaggio della memoria, memoria del male inferto al mio popolo. Viandante alla ricerca di testimonianze, verità di un crimine senza nome che voglio riproporre citando un passaggio di uno scrittore austriaco, di origine ebraica,Friedrich Torberg:

“Ma perché, perché? Cosa abbiamo fatto? Perché ci odiano così tanto?
“Non è una buona domanda. Non ci odiano per quel che facciamo. Ci odiano per quel che siamo”
.

Questa è la sostanza della definizione di genocidio coniata da Raphael Lemkin nel 1944 per i “crimini senza nome” con cui si è aperto il ventesimo secolo.
Tra la fine dell’Ottocento, se vogliamo ricordare lo sterminio degli Herrero e dei Nama operato dai tedeschi in Namibia, e l’inizio del Novecento che si apre con il genocidio degli armeni e continua con gli ebrei, i cambogiani, i ruandesi, la ex Iugoslavia, fino alla contemporaneità con gli yazidi, e ora i curdi, si è voluto e si vuole colpire il “nemico innocente”.
Perché? Difficile rispondere.
Si rischia di essere travolti dall’orrore. Disperazione per l’uomo, per la brutalità incontenibile, per il male estremo di cui è capace. Deportazioni, esodi, umanità dispersa, si spezza l’unità della specie umana, viene meno l’idea di una comunità possibile nella diversità dei popoli e delle culture.
E tuttavia il “Tempo dell’odio e della vergogna”, va superato. L’odio è distruttivo, così come il risentimento. Se non si vedono vie d’uscita il male non può che riproporsi. La memoria che si concentra sull’orrore è una memoria tragica e può indurre alla paralisi emotiva.
Sono riemerso. Il mio viaggio nella memoria nel male ha subito una battuta d’arresto grazie alla scoperta casuale di una pagina di storia della mia famiglia salvata, al tempo dei massacri del Sultano Abdul Hamid II, da un vicino turco che ha deviato le bande dei massacratori. Il nonno aveva raccontato questo episodio a mio padre quando aveva cominciato la scuola, per insegnargli il valore di rapportarsi alle persone, non alle categorie. Il fronte dei carnefici non è mai compatto.
Della memoria si può fare un uso positivo pur nel contesto tragico da cui emerge. A me, figlio di minore scampato al genocidio, sono venute in soccorso le azioni dei giusti.
Ho percorso le strade della memoria del bene, intrecciata al male. Non più la disperazione che paralizza, ma la fiducia che muove all’agire.
Questa la missione del Giusto, essenziale negli esodi, nelle deportazioni, nelle migrazioni, di fronte a un’umanità che subisce l’esperienza dello sradicamento.

– Esodi
Ebrei e armeni: inevitabile un raccordo tra le memorie, non solo per la vicinanza culturale o per le appartenenze religiose su cui si fondano le loro identità, non avendo potuto contare su una territorialità stabile. Siamo nell’ordine della “solidarietà dei traumatizzati”, secondo l’espressione usata da Jan Patocka.
Rileggiamo l’esodo del popolo ebraico, schiavo degli egiziani, liberato da Mosè.
Il Dio di Israele, il Dio dell’Alleanza, è accanto al suo popolo in fuga dall’Egitto e annienta gli egiziani nelle acque del Mar Rosso. Un midrash racconta: gli ebrei, salvi sull’altra riva festeggiano la salvezza. Ma il cielo si apre e la voce ammonisce: “Perché festeggiate se i miei figli egiziani sono morti!”
Il Dio di Israele, il Dio dell’Alleanza, il Dio degli eserciti, compie un atto di giustizia. Il popolo liberato deve essere all’altezza della sua umanità riconoscendo l’umanità dell’altro, riconoscendo la comune umanità.

Tredici secoli prima di Cristo l’esodo degli ebrei, undici secoli dopo Cristo l’esodo degli armeni.
La Grande Armenia nell’est dell’Anatolia con capitale Ani non riuscì a reggere l’orda dei selgiuchidi di Alp Arslan, che vinsero a Manzikert nel 1071 e presero prigioniero l’imperatore bizantino. I superstiti armeni, guidati dal principe locale Ruben, un salvatore per gli armeni, si trasferirono verso il sud est anatolico, fondando il regno della Piccola Armenia in Cilicia, che sopravvisse fino al 1375. Alleata dei crociati, baluardo della cristianità, divenne il fulcro della cultura e dell’identità nazionale armena.
Percorsi identitari quelli degli ebrei e degli armeni segnati da fenomeni di “transculturazione “ . La storia ci mostra i risvolti positivi degli esodi e dell’esilio: integrazioni tra le culture e l’emergere delle capacità di innovare.
Gli antropologi li definiscono “i doni delle avversità”, che hanno, a livello personale, costi alti. Trauma dello sradicamento, professioni interrotte e affetti lacerati, insicurezza, malinconia forse attenuata dalla speranza di poter ricominciare.
– Deportazioni
Il lavoro della memoria mette a nudo i frutti avvelenati del nazionalismo estremo del Ventesimo secolo, espressione della modernità, che hanno portato sulla scena della storia il crimine di genocidio e messo a tacere, nei tanti volonterosi carnefici, ogni istanza etica. Le deportazioni di massa sono lo strumento attraverso il quale i regimi totalitari portano a compimento lo sterminio delle minoranze etniche, di interi gruppi di individui, o dei loro sudditi.
Alla deportazione, trasferimento coatto immediato con conseguente abbandono e confisca di beni, pochi sopravvivono. Nel caso armeno la destinazione è il “nulla del deserto”. Marce forzate verso la morte di bambini, donne, anziani.
Siamo in Anatolia, nel 1915, sulle strade della deportazione.
E’ la testimonianza di una sopravvissuta, Veron, allora bambina, madre del poeta e scrittore David Kherdian .
Una carovana di disperati, cenciosi, nudi, malati, morenti, attraversa un villaggio turco. La gente distoglie lo sguardo e rientra nelle case, sbarrando porte e finestre. Sulla strada solo un anziano turco non gira la testa dall’altra parte, corre verso la fila dei deportati e cerca con affanno di offrire del pane; un soldato lo colpisce facendogli cadere il pane a terra. L’uomo si siede in mezzo alla strada per non fare passare la carovana. I soldati lo spingono di lato con la canna del fucile e gli sputano addosso. Nella carovana il padre di Veron, ancora vivo, stringe la mano della bambina: « Vedi, voleva darci il pane, è abbattuto come noi, ci sono momenti in cui un uomo si accolla la coscienza di un intero popolo» . 
Un uomo che prende su di sé le responsabilità di un popolo, un «traditore» per i gendarmi turchi, un «uomo» che compie un atto giusto per interrompere la catena del male.
Sono tante le storie dei giusti che ho raccolto negli anni, giusti non armeni coevi agli eventi tragici che hanno cercato di fermare la deportazione o di denunciare ciò che stava accadendo.
Ho onorato questi giusti portando un po’ di terra raccolta nei luoghi di sepoltura al Memoriale del genocidio di Yerevan, e fondando nel 1996 Il Comitato dei Giusti per gli armeni: la memoria è il futuro. Dall’incontro con Gabriele Nissim nel 2001 è nato poi il comitato Gariwo, la foresta dei Giusti, e dal 2003 alberi e cippi sono stati dedicati ai Giusti per gli armeni nel Giardino di Monte Stella, a Milano, nella Valle dei Templi, qui ad Agrigento e in tanti altri giardini in Italia e all’estero, l’ ultimo, nel giugno del 2019, in Libano. Proprio dal raccordo tra le memorie è nata l’universalizzazione del concetto di Giusto, applicato a tutti i genocidi e totalitarismi del Ventesimo secolo e alle emergenze della contemporaneità, in un percorso dal passato al presente che vede al centro il tema di una memoria attiva che conduce al principio di responsabilità globale.
Una delle testimonianze di questo approdo è proprio il Giardino dei Giusti della Valle dei Templi.
Vi furono anche Giusti turchi, dignitari, governatori, che tentarono di fermare i massacri: 15 di loro furono giustiziati per non avere obbedito agli ordini del governo; fra questi Mustafa Agha Azizoglu, Hilmi Bey, Gelal Bey. Ho raccolto le storie di circa cento ottomani che hanno disobbedito agli ordini a rischio della vita. L’esistenza di questi giusti che hanno rotto la compattezza del fronte dei carnefici ci conduce alla distinzione tra popolo e governo. Attendo il giorno in cui in Turchia saranno eretti monumenti ai salvatori, ai funzionari disobbedienti, alle persone che hanno scelto di ascoltare la voce della coscienza e di agire.
– Migrazioni
Il buon uso della memoria storica si misura sulla capacità di proiettarsi sul presente e di leggere le ferite della contemporaneità. Guerre, conflitti religiosi, persecuzioni, mutamenti climatici, povertà, innumerevoli le cause delle migrazioni che appartengono alla storia dell’umanità. Teniamo fermo il termine ampio di “migranti” e “migrazioni che può essere scomposto in specifici movimenti di singoli, di famiglie, di comunità, di popoli.

Molto è stato detto sul tema dei migranti e sui Giusti dell’accoglienza.

Quotidianamente assistiamo alle tragedie del mare e poche voci di giusti vincono la furia delle onde e sovrastano il fragore della politica.

Una testimonianza.

Mi trovo sull’isola di Lesbo, in lontananza le coste della Turchia si accendono di luci. Vicino a me Daphne Vloumidi, onorata tra i Giusti a Monte Stella a Milano nel marzo del 2018. Un incontro che ha lasciato il segno. Questa la sua voce:

Esiste un valore su tutti: i diritti umani. Abbiamo lottato per conquistarli e queste persone che affrontano i mari per lo più senza speranza alcuna, ne sono stati privati, e dunque io devo fare qualche cosa per loro”.

L’ albero e la targa a me dedicata nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo è un onore che voglio continuare a meritarmi“.

Ma poi Daphne si fa seria e aggiunge: “Senza l’educazione gli alberi restano solo alberi”.

Conoscendo la sua storia si capisce che l’aiuto dato ai migranti sbarcati a migliaia sulle coste dell’isola di Lesbo visitata anche da Papa Francesco e che continuano a sbarcare sino ad oggi, nasce da una sua qualità interiore: Daphne si sente sino in fondo parte dell’umanità e mai potrebbe distogliere lo sguardo da chi chiede aiuto, perché è capace di mettersi dalla parte dell’altro.

Mentre aiuto gli altri”, mi dice, “trovo anche me stessa“.

Daphne mi accompagna al campo dei rifugiati di Moria.

Siamo vicini alla recinzione: capienza 2500, presenti 12.000
Migliaia di tende ammassate sui terrazzamenti: fili spinati, rifiuti, donne, uomini, giovani, anziani, bambini che vagano sotto un sole cocente, occhi aggrappati alla rete.
Tutti sono preda dell’ansia“, osserva Daphne, “perché il loro orizzonte è vuoto, la loro vita sospesa nel nulla“.
Anche Daphne, una Giusta per l’accoglienza, così come Alganesh, la Guardia Costiera, i pescatori di Lampedusa e tanti altri: hanno visto con i loro occhi e hanno agito.

Lo ius migrandi è la sfida del XXI secolo, per usare le parole della filosofa Donatella Di Cesare , per la quale esiste una connessione tra la migrazione e l’essenza della condizione umana. Abitare non significa radicamento, anche chi “abita” è straniero. Se riuscissimo a concepire per noi un altro modo di stare al mondo, se ci sentissimo “stranieri, residenti temporanei ”, non proietteremmo all’esterno le nostre paure, non sentiremmo lo straniero come minaccia. Riconoscere la nostra fragilità, la nostra solitudine, significa poter riconoscere la fragilità, la solitudine dello straniero, del profugo, dell’immigrato, del richiedente asilo.
C’è oggi un sentire che spinge sempre più verso l’identificazione tra Stato e Nazione, verso l’omogeneità che espelle chi alla Nazione non appartiene, erigendo recinti giustificati da motivi politici, giuridici, economici, sociali. Riappare il rischio delle espulsioni e delle pulizie etniche e sembra non esserci speranza per l’Europa unita nelle diversità.

Ho già sottolineato che l’identità armena non si è radicata su una territorialità stabile, ma su una appartenenza religiosa, linguistica, culturale, ma soprattutto sull’apertura all’altro. Più di cento etnie del Caucaso sono scomparse, ma gli armeni esistono ancora, tre milioni nella patria ritrovata, dieci milioni in diaspora, cittadini svincolati dal possesso del territorio, portatori di una identità capace di riconoscere nell’altro la comune umanità, impegnati a sostenere una condivisione dello spazio comune.

Chiudo ricordando un episodio che mi è accaduto in Armenia. Negli anni 1988 e 1989 , in un quadro di conflittualità nascente che ha portato poi alla guerra tra l’ Azerbaigian e l’enclave armena del Nagorno Karabagh, un mullah azero che viveva con la sua comunità musulmana in terra armena, a Evlu, e un maestro di scuola armeno che viveva con la sua comunità armena in un villaggio dell’Azerbaigian si sono incontrati, hanno abitato insieme per conoscersi e sono poi riusciti a concordare lo scambio tra le due comunità: ognuna di esse ha messo a disposizione dell’altra le proprie case, le scuole, i campi, gli animali, gli attrezzi. Non è bastato ad evitare la guerra, ma i due Giusti, hanno salvato delle vite, evitando che venissero snaturate dalla guerra e chi salva una vita non salva il mondo intero, ma opera per la realizzazione della nostra comune umanità.

Esprimo profonda gratitudine alla Presidente emerita Assunta Gallo Afflitto, alla Giuria e a tutti i presenti.

Voglio dedicare questo premio all’amico Gabriele Nissim, Presidente di Gariwo, con il quale percorro da anni una strada che ci vede impegnati a scoprire e far vivere nei Giardini le storie dei Giusti dell’Umanità per donarle a chi verrà dopo di noi, nella speranza che queste luci restino accese nei tanti momenti bui della storia e rendano visibile e chiara la strada da percorrere.

Vai al sito