La “pistola fumante” del genocidio armeno (ilbolive.unipd.it 27.12.20)

Ha detto una volta a Il Bo Live Antonia Arslan che “il genocidio continua ancora perché non è mai stato riconosciuto da chi l’ha perpetrato. (…) Ai sopravvissuti non è concesso neppure di affidarsi all’oblio, non possono riconciliarsi e perdonare perché nessuno ha chiesto loro scusa”. Ancora oggi parlare di genocidio degli armeni e degli assiri in Turchia può comportare l’ostracismo civile e intellettuale, la prigione (in base al famigerato art. 301 del codice penale) o perfino la vita. Per questo è particolarmente prezioso un libro come quello dello storico turco Taner Akçam, appena tradotto in italiano da Guerini e Associati nella collana curata dalla stessa Arslan: Killing orders. I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno.

Tema del volume è la dimostrazione dell’autenticità dei documenti che attesterebbero il diretto coinvolgimento nei massacri di Talat Pasha, uno dei triumviri che di fatto ressero l’Impero ottomano durante la grande guerra e grande architetto della turchizzazione dell’Anatolia con le conseguenti efferate pulizie etniche. Alcuni dei suoi ordini, in seguito distrutti o occultati dallo Stato turco, furono raccolti da un burocrate, Efendi Naim, che all’epoca lavorava all’ufficio per la deportazione di Aleppo (una delle principali tappe dei viaggi della morte); questi poi li vendette al giornalista armeno Aram Andonian, che li pubblicò nel 1919 sotto il titolo di Memorie di Naim Bey. Da allora sia l’autenticità dei documenti che la stessa esistenza di Naim sono state ferocemente contestate dalle autorità e dell’intellighenzia nazionalista turche: da ultimo dagli storici Şinasi Orel e Süreyya Yuca in una ricerca promossa nel 1983 dalla Società Storica Turca. Tanto più che gli originali delle cosiddette Memorie non furono mai pubblicati fedelmente e che risultano oggi dispersi.

Il libro di Akçam, che allo sterminio degli armeni ha dedicato in passato diversi studi, vuole proprio essere una risposta definitiva ai dubbi e alle critiche avanzate da Orel e Yuca e da tanti altri dopo di loro, grazie a uno strumento formidabile: l’archivio di Krikor Guerguerian (1911-1988), monaco armeno che durante il Medz Yeghern (‘grande crimine’) fu testimone dell’uccisione di entrambi i genitori e di 10 suoi fratelli. Riparato fortunosamente all’estero, Guerguerian spese gran parte della sua vita raccogliendo oltre 100.000 pagine di documenti, in vista della preparazione di una tesi di dottorato sul genocidio armeno che tuttavia non vide mai la luce. L’archivio, recentemente pubblicato on line dalla Clarck University di Worcester (Massachusetts) a cura dello stesso Akçam, raccoglie una gran mole di foto e scansioni di originali che risultano in massima parte distrutti o dispersi, tra cui – e questo è il colpo di scena degno di un romanzo – proprio il gruppo di documenti e appunti che costituiscono le Memorie di Naim Bey.

Con l’accuratezza dello storico e il piglio dello scrittore di legal thriller l’autore analizza i testi ricostruendone la provenienza e confrontandoli con altri documenti della stessa epoca custoditi presso gli Archivi della Repubblica Turca ad Ankara. E la risposta è convintamente a favore dell’autenticità: persino i codici cifrati utilizzati sono gli stessi, con il particolare che gli archivi ottomani sono stati aperti agli studiosi solo in tempi recenti, per cui all’epoca della pubblicazione delle Memorie non erano a disposizione di eventuali falsari.

A più di un secolo di distanza certi passaggi gelano ancora oggi il sangue: “I diritti di tutti gli armeni sul suolo turco, come il diritto alla vita e al lavoro, sono stati soppressi – scrive ad esempio Talat Pasha il 22 settembre 1915 –; nessuno deve essere risparmiato, nemmeno l’infante nella culla”. In un altro telegramma, destinato al governatore provinciale di Aleppo e datato 29 settembre 1915, si afferma che “il governo (…) ha deciso di annientare completamente tutti gli armeni che vivono in Turchia. (…) Non vi è spazio per gli scrupoli di coscienza e non si faccia distinzione per donne, bambini e ammalati, indipendentemente da quanto cruente possano essere le modalità di distruzione” (Killing Orders, pp. 60-61).

I diritti di tutti gli armeni sul suolo turco, come il diritto alla vita e al lavoro, sono stati soppressiTalat Pasha

Molti di questi documenti nel 1919 furono esibiti e riconosciuti validi addirittura dai tribunali ottomani, nei processi intentati a militari ed esponenti dei Giovani Turchi su pressione dei vincitori della prima guerra mondiale (in particolare la Gran Bretagna), e alcuni fra questi furono addirittura pubblicati sulla Gazzetta Ottomana. Successivamente però si decise di stendere una coltre di silenzio su quanto rischiava di oscurare il prestigio della nuova Repubblica turca sorta sulle ceneri dell’Impero, e gli eredi dei vecchi apparati si mossero per occultare, distruggere le prove, ridurre al silenzio i testimoni.

I documenti pubblicati da Akçam non solo rendono giustizia di quello che ancora oggi è negato, ma gettano anche luce su aspetti meno conosciuti delle tragiche vicende che descrivono: da essi ad esempio si comprende che molti turchi musulmani diedero protezione e riparo agli armeni, spesso a rischio della loro stessa vita: gli ordini erano infatti di giustiziare immediatamente davanti alla propria casa coloro che nascondevano i fuggiaschi.

Il libro è dedicato alla memoria del giornalista di turco-armeno Hrant Dink, ucciso nel 2007 da un fanatico nazionalista davanti ai locali del suo giornale Agos, in un delitto dai contorni ancora oggi oscura. Akçam, a sua volta incarcerato per reati di opinione negli anni ’70 e in seguito rifugiato in Germania e poi negli Stati Uniti, rischiò a sua volta la vita per assistere al funerale di Dink: questa ricerca è un estremo omaggio alla lotta dell’amico per la verità sui massacri degli armeni, in un momento in cui i fantasmi dei conflitti etnici tornano ad aggirarsi nel Caucaso.

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