La Turchia usa il fact-checking per diffondere fake news (Il foglio 01.06.17)

Roma. Il 24 aprile 2016, un aereo acrobatico ha lasciato alcuni “messaggi di fumo” piuttosto criptici nel cielo sopra Manhattan, New York. Lo stunt ha creato le scritte “GR8 ALLY : TURKEY”, “STOP : PYD : PKK : ASALA : DAESH”, “RUSSIA + ARMENIA”, “# LET HISTORY DECIDE”, “101 YEARS OF GENO-LIE” (che suona come “101 anni di bugie sul genocidio”) e infine l’indirizzo del sito web “FACT CHECK ARMENIA.COM”. Per chi stava osservando il cielo in quelle ore, gli ultimi due messaggi hanno chiarito lo scopo dello spettacolo: si trattava di un tentativo di promuovere il negazionismo dello sterminio di un milione e mezzo di armeni da parte dell’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Il sito è stato pubblicizzato anche sui risultati di Google per le query di ricerca sul genocidio.

Se è ben noto il pugno di ferro che l’attuale governo turco esercita sulla stampa – con intimidazioni e arresti arbitrari di giornalisti critici – meno nota è la campagna di disinformazione orchestrata da falsi gruppi di fact-checking legati al governo, che un articolo di Poynter Institute analizza in dettaglio: il genocidio armeno è una menzogna; il governo non ha cercato di censurare Wikipedia; per le migliaia di dipendenti statali licenziati per ragioni politiche c’è una procedura di ricorso molto efficace. In un commento approfondito pubblicato dal Guardian, la giornalista Ece Temelkuran sostiene che la post verità in Turchia abbia preso il posto della realtà, in un processo che dura da almeno 15 anni. “Questo processo ha coinvolto l’abile e volontaria manipolazione delle narrative”. L’uso propagandistico del fact-checking è una di queste strategie.

 

Il caso di Factcheckarmenia.com è esemplare: la Turchia nega ufficialmente il genocidio armeno e ha realizzato in tutto il mondo campagne e attività di lobby contro il suo riconoscimento. Ankara sostiene che gli armeni non furono deportati ma solo “ricollocati” e che nessuno fu ucciso. Un sito come Factcheckarmenia va proprio in questa direzione, anche se non è chiaro chi davvero possieda il sito web. Secondo i registri la proprietà è registrata a nome di una società delle Bahamas. Ma la loro pagina Facebook dice che sono finanziati dalla ” Turkic Platform”, un’ong con sede a Istanbul della quale a sua volta sono sconosciuti i proprietari ma che, anche secondo i media filogovernativi turchi, realizza molte attività negli Stati Uniti. In più, Ayhan Özmekik, portavoce del sito, è anche il fondatore della fondazione Turkish American Youth and Education e ha avuto un ruolo in attività di sensibilizzazione del partito di governo Akp negli Stati Uniti.

Anche “Factcheckingturkey.com”, lanciato nel 2016, non è davvero un servizio di fact-checking. Si tratta invece di un progetto con l’obiettivo di contrastare gli autori degli articoli che criticano il governo dell’Akp. Il sito usa una metodologia non trasparente e raggiunge le sue conclusioni facendo riferimento solo alle dichiarazioni del governo. Il recente articolo, “La storia dietro al divieto di Wikipedia in Turchia” ne è un esempio: un anonimo funzionario dello stato turco è l’unica fonte utilizzata per “sfatare” nove report di media globali riguardo alla censura applicata da Ankara all’enciclopedia online.

La Cina ha in cantiere un progetto online per soppiantare Wikipedia. Con il controllo dello stato. Intanto anche la Turchia va alla guerra con la piattaforma

Su Twitter, il gruppo ha recentemente preso di mira il rapporto di Amnesty International sulle purghe post-colpo di stato in Turchia. Sulla base di 61 interviste, Amnesty aveva concluso che “nonostante la chiara arbitrarietà delle decisioni di licenziamento, non v’è alcuna procedura di ricorso efficace per i lavoratori del settore pubblico contro le loro espulsioni”. Factcheckingturkey risponde con il discorso (vecchio di mesi) di un consigliere del presidente Erdogan, Mehmet Uçar, che in uno show televisivo dice che una commissione d’appello “dovrebbe partire presto”.

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