L’Armenia in un vicolo cieco (Osservatorio Balcani e Caucaso 02.08.16)

Si è conclusa domenica l’occupazione di una stazione di polizia a Yerevan, rimasta in mano a un gruppo di insorti per più di due settimane. Gli uomini, fra cui vi erano diversi veterani della guerra del Karabakh, si sono arresi al termine di una crisi che si conclude senza vincitori e che – da qualunque parte la si guardi – ha il sapore amaro della sconfitta. Due morti, centinaia di fermi di polizia e di arresti, violenze contro gente comune e giornalisti, ostaggi presi sia fra le forze dell’ordine che fra i civili, sono alcuni dei segni più visibili di una crisi che ha avuto risvolti inediti e inquietanti per l’Armenia. Le divisioni interne al paese, ma anche quelle fra cittadini armeni e membri della diaspora, continuano a pesare, e impediscono che si esca da una situazione preoccupante, che assomiglia sempre più a un vicolo cieco.

“Yerevan non è Aleppo o Beirut. Non lasciamo che qualcuno cerchi di importare soluzioni tipiche della guerra fredda dal Medio Oriente all’Armenia”, ha dichiarato il presidente armeno Serj Sargsyan al termine della crisi. Un chiaro riferimento al leader degli insorti, l’armeno libanese Jirair Sefilian, veterano della guerra civile in Libano e di quella del Karabakh. Fra i suoi uomini, anche Alec Yenikomshian, anche lui armeno libanese, ex-membro dell’Esercito segreto armeno per la liberazione dell’Armenia, meglio noto come ASALA. Un’organizzazione clandestina di guerrigliera marxista-leninista – ma anche impregnata di nazionalismo, e nata nel sogno della rinascita dell’Armenia occidentale, nell’attuale Turchia – che operò fra gli anni Settanta e Ottanta, facendo decine di vittime.

L’insurrezione popolare perde l’innocenza

Sefilian, di cui gli insorti avevano chiesto la liberazione, resta ancora in carcere. Era stato arrestato a fine giugno per possesso e traffico d’armi. Un’accusa respinta da lui e dai suoi uomini, che lo considerano un prigioniero politico. La sollevazione popolare a cui avevano fatto appello gli assalitori della stazione di polizia non è avvenuta che in minima parte, e non senza dividere ulteriormente un’opposizione già debole e priva di leader credibili. Molti armeni, anche se stanchi del governo, della sua corruzione capillare e dei suoi continui soprusi, hanno trovato inaccettabile la violenza degli uomini di Sefilian, contestando inoltre la presa di ostaggi civili: tre medici e un’infermiera. Altri l’hanno lodata, invece, in modo incondizionato, parlando di eroismo, di sacrificio e abnegazione a proposito degli insorti.

Ne esce male anche la società civile armena, quindi, che giunta alla quarta estate consecutiva di proteste perde l’innocenza e scopre la fascinazione della violenza, senza ancora una volta ottenere risultati tangibili. La mancanza di un’opposizione strutturata, che sia capace di incidere, è forse il dramma più grande di questo paese, la cui società civile – per molti tratti pluralista e moderna – brancola ancora nel buio. Da qui l’abbaglio, l’illusione che ha colto molti a Yerevan negli ultimi giorni, anche fra i giovani: che il fare ricorso alle armi e alla violenza sia un’alternativa, o addirittura l’unica via da percorrere per uscire dal vicolo cieco.

Non lo è stata, e la crisi è stata e sarà un’occasione, per il governo, per prendere di mira e reprimere quel mondo debole e diviso che è l’opposizione politica armena. Un fallimento, di quelli che lasciano il segno. Simbolo della disperazione in cui versa la società armena è l’episodio di un uomo che ha tentato di darsi fuoco nel mezzo della folla, soccorso dagli altri manifestanti che – nonostante le ustioni riportate – gli hanno salvato la vita.

Karabakh: il tallone di Achille dell’Armenia

 

Ne esce male naturalmente anche il governo, che ormai ha perso larga parte della sua legittimità popolare, e fa appello – paradossalmente – alla stabilità e al rischio che torni a esplodere il conflitto in Karabakh per salvare i suoi privilegi e il potere. Un paradosso, dico, perché è proprio sotto questo governo che si sono invertiti in maniera drammatica i rapporti di forza nel conflitto del Nagorno Karabakh, fino a giungere, a maggio, alla perdita di una porzione dei territori conquistati negli anni Novanta. Un potere arbitrario, meschino, corrotto e – nonostante l’impegno e la dedizione di alcuni (pochi) individui – privo di idee, al punto da dare l’impressione a molti, in Armenia e in Karabakh, di avere perso completamente il polso della situazione.

E per comprendere la crisi appena conclusa è necessario passare proprio da lì, dal Karabakh, e in particolare da quella che i locali chiamano la “guerra dei quattro giorni”, in cui ad aprile hanno perso la vita oltre trecento persone. Come ho potuto constatare di persona a maggio, la situazione nella repubblica de facto, ancora ufficialmente parte dell’Azerbaijan, è politicamente molto tesa. Le critiche verso il governo di Yerevan, ma anche verso la Russia, accusata di essere sempre più lontana dagli interessi degli armeni, si sono fatte sempre più frequenti, anche a livello ufficiale e politico. Gli armeni del Karabakh non si sentono più sicuri, e i nodi della corruzione sono venuti al pettine proprio in quello che è il tallone d’Achille dell’Armenia di oggi: il conflitto del Karabakh, che si trascina da un quarto di secolo, con un dislivello diplomatico e militare crescente rispetto all’Azerbaijan che ha spinto di recente Yerevan all’angolo.

L’aggressione alla stampa

Fra i risvolti più inquietanti della crisi appena conclusa è stata senza dubbio la violenza compiuta dalle forze dell’ordine contro i giornalisti. Aggressioni, intimidazioni, minacce e insulti, pestaggi selvaggi e danni alle attrezzature da parte della polizia, che hanno coinvolto soprattutto – non a caso – i media indipendenti. In un paese piccolo come l’Armenia – dove i numeri sono assai ridotti e nel mondo politico e dei media tutti si conoscono di persona – questi episodi non possono che essere un messaggio ben preciso, da parte delle autorità, rivolto a uno dei segmenti più avanzati della società civile armena.

Internet e i social media, negli ultimi anni, hanno permesso infatti agli armeni, e soprattutto ai giovani, di trovare un canale di espressione che ha contribuito a porre fine al silenzio e al torpore politico tipico degli anni dell’URSS. Qui si sono inseriti giornalisti, blogger, TV su internet e portali di informazione, che hanno fatto dell’Armenia un centro vibrante – del tutto europeo e moderno – da un punto dei vista dei media alternativi. Una felice eccezione (nonostante la scarsa qualità della TV pubblica e dei media governativi) nel panorama desolante di molte repubbliche post-sovietiche. Ma ancora una volta, ecco l’entrata in un vicolo cieco, imboccato da un paese che si trova oggi sull’orlo di un abisso.

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