Le manovre militari USA-Armenia e il “cambio di tono” di Repubblica (Antidiplomatico e altri 06.09.23)

di Fabrizio Poggi per l’AntiDiplomatico

Nell’Armenia del premier Nikol Pašinjan, i prossimi 11-20 settembre, si svolgeranno le manovre militari USA-Armenia “Eagle Partner 2023”. Ufficialmente, il Ministero della difesa di Erevan, parla di “preparazione congiunta a missioni internazionali di pace” che, con la presenza di forze yankee, appare come un ossimoro.

Tant’è che, parallelamente ai tentennamenti armeni nel ODKB (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva: Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirgizija, Tadžikistan), il presidente del comitato europeo per l’allargamento della NATO, Günther Fehlinger, dichiara che sia tempo per il paese caucasico di entrare nell’Alleanza atlantica. Il politologo Aleksej Martynov non attribuisce però particolare valore alle parole di un semi-privato cittadino, a capo di un ente “semi-commerciale” e sostiene che nessuno pensa seriamente all’ingresso dell’Armenia nella NATO, non foss’altro che in base allo statuto del blocco atlantico, che vieta l’ingresso a paesi che abbiano conflitti territoriali in corso.

Ma, tutto questo avviene sullo sfondo di altri fatti: quello, ad esempio, di addossare alla Russia la responsabilità degli ultimi insuccessi militari e politici armeni: in un’intervista a La Repubblica, Pašinjan ha detto di ritenere un errore la dipendenza di Erevan da Mosca nelle sfere energetiche e della sicurezza e, per questo, sta cercando di diversificare la propria sicurezza, come a volerla affidare al “miglior offerente” che, puntualmente, si fa avanti nella persona, appunto, del signor Fehlinger.

Ora, nota il portale Anna-news: si esorta Erevan a entrare nella NATO, uno dei cui membri, la Turchia, da sempre stretto alleato dell’Azerbajdžan, persegue come proprio obiettivo lo smembramento dell’Armenia. In effetti, se il contingente di pace russo protegge la popolazione armena del Nagorno-Karabakh dagli attacchi azeri, la base operativa dello stesso contingente protegge gli armeni d’Armenia da qualsiasi piano aggressivo turco. E la NATO, quand’anche avvenisse l’adesione di Erevan, non si preoccuperà certo di difendere l’Armenia, dal momento che suo unico obiettivo nella regione è quello di eliminare dall’area Russia e Iran.

Inoltre, si fa notare che Erevan non si è fatta scrupolo di riconoscere le decisioni del cosiddetto Tribunale penale internazionale a carico di Vladimir Putin e le sue ultime azioni mostrano la volontà di rompere i rapporti con Mosca, volgersi a ovest, scegliendo Washington quale intermediario per l’accordo di pace con Baku, che non può non contemplare la cessione del territorio del Karabakh. La scelta riguardo alla regione contesa, potrebbe però costare politicamente cara a Pašinjan, così che egli non trova di meglio che incolpare il contingente di pace russo di non fare abbastanza per difendere la popolazione armena della regione.

Da tutto ciò, l’osservatore dell’agenzia REX, Stanislav Tarasov, deduce che, primo: Pašinjan si rende conto di non poter coinvolgere Mosca in una guerra con Baku; secondo: le dichiarazioni pro occidentali non significano una prospettiva di ulteriori “bonus” concessi all’Armenia, a parte forse qualche generica critica francese e del Dipartimento di stato rivolta a Baku. Così che  Pašinjan deve attendersi pochi cambiamenti, nonostante le sue assicurazioni secondo cui l’Armenia non è alleata della Russia nel conflitto in Ucraina e che, dice lui, Mosca e il suo contingente di pace non starebbero svolgendo le proprie funzioni di pacificazione e sicurezza e si starebbero «allontanando dalla regione»: affermazione subito smentita dal portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov. Intanto, l’Iran tace, mentre la Turchia guarda con sospetto alle manovre del premier armeno e alla sua “alleanza” con la Francia, considerato che Parigi verrebbe coinvolta in una contrapposizione con Ankara nel Mediterraneo.

In concreto, nei giorni scorsi si sono notati strani movimenti di mezzi militari azeri in prossimità delle frontiere armene, in particolare nelle regioni di Sjunik, Gegarkunik e Vajots Dzor, ed è ovviamente difficile non collegarli alle dichiarazioni americane di presentarsi quali intermediari nel conflitto per il Nagorno-Karabakh.

In realtà, osserva ancora Aleksej Martynov, solo una limitata parte dell’élite armena guarda da tempo a USA e UE, con l’intera vicenda del Nagorno-Karabakh messa in moto nel tentativo di sloggiare la Russia dal Caucaso; lo testimonierebbe anche il dettaglio curioso di come, dopo la nomina di Richard Moor a capo del Mi-6, nell’agosto 2020, già a settembre fossero ripresi gli scontri nella regione.

Riferendosi alle parole di Pašinjan a La Repubblica, l’osservatore Gevorg Mirzajan ricorda come l’intro percorso del premier (prima come giornalista, poi oppositore e dal 2018 primo ministro) indichi una propensione al deterioramento delle relazioni russo-armene e all’indebolimento dell’influenza russa nel Caucaso meridionale. E si può dire con relativa sicurezza che tale obiettivo fosse stato fissato dai suoi sponsor stranieri. Dunque, nota Mirzajan, l’assunto di Pašinjan di non affidare la propria sicurezza a una sola fonte, è giusto in teoria; in pratica, c’è un unico interrogativo: dispone l’Armenia di “fornitori” di elementi vitali, di sopravvivenza, alternativi, con capacità e disponibilità equivalenti a quelle russe?

L’élite pro-occidentale, con la sua diaspora attiva in USA, dichiara ovviamente che tale alternativa è costituita dagli Stati Uniti, cui, altrettanto ovviamente, non dispiacerebbe poter disporre di una base in Armenia, al centro del Caucaso meridionale, vicino ai confini di Russia, Turchia e Iran, vicino alle rotte di transito degli idrocarburi del Caspio diretti in Europa e in uno dei rami della “Via della seta”. Ma una tale base yankee trasformerebbe automaticamente Erevan in un nemico per tutti i paesi regionali, così che, perdendo gli amici, non troverebbe un difensore; soprattutto, l’affidabilità delle «garanzie americane di difesa» solleva forti dubbi; possono confermarlo curdi, georgiani e vari altri paesi, spinti dagli americani contro “giocatori” molto più forti di loro e poi lasciati a sbrigarsela da soli.

Ci sarebbe la variante francese: quantunque meno influente degli USA, Parigi non si è distinta per aver lasciato soli i propri alleati; in più, tutta una serie di politici francesi sono oggi tra i più seri difensori dei diritti degli armeni del Karabakh e chiedono a Macron di prendere il controllo del corridoio di Lacin (che collega Erevan a Stepanakert) fermando così il blocco azero della regione. Tuttavia la Francia non dispone di sufficienti forze e mezzi per intervenire in caso di conflitto a protezione dell’Armenia. In secondo luogo, Parigi non è in grado di entrare in conflitto con la Turchia, principale minaccia alla sicurezza dell’Armenia. In terzo luogo, la Francia farà tutto ciò che gli americani diranno: se Washington chiederà a Parigi di usare la presenza in Armenia per destabilizzare i vicini e l’intera regione, allora la risposta sarà un sì.

Terza opzione: Iran. Teheran avrebbe la possibilità e la forza militare di intervenire in caso di bisogno: un confine comune con l’Armenia e un esercito tra i più forti della regione. Avrebbe anche interesse a difendere un’Armenia amichevole e stabile, avendo già abbastanza nemici ai confini. Tuttavia l’Iran è anche meno adatto di altri per il ruolo di difensore dell’Armenia: non può permettersi conflitti con la Turchia, né tantomeno con l’Azerbajdžan, dal momento che in Iran vivono più azeri che nello stesso Azerbajdžan, e ogni tentativo di prendere le parti di Erevan provocherebbe sommosse nelle province settentrionali.

Dunque, nessuna delle varianti potrebbe assicurare all’Armenia una completa sicurezza, politica, militare, economica, quanto la Russia. La scelta pare quindi obbligata.

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