LETTURE/ “Digiunare”, cioè rimanere saldi: dai latini all’Armenia, non è una rinuncia (Ilsussidiario 28.02.21)

Nel periodo liturgico che stiamo attraversando, la Quaresima, la Chiesa ci chiede in determinati giorni la pratica del digiuno, una volontaria rinunzia al cibo come forma di educazione alla vita e alla prassi penitenziale della Chiesa. La storia della parola ci mostra quanto il linguaggio del cristianesimo abbia permeato di sé nei secoli passati la cultura europea.

Alla base di digiuno c’è il latino ieiunus (o iaiunus) divenuto prima gigiuno e poi, con quella che i linguisti chiamano una dissimilazione (la sequenza g – diviene d – g), digiuno. Oltre non si va: c’è un collegamento col latino ientare “fare uno spuntino”, ma non vi sono in altre lingue indoeuropee parole che si possano accostare a ieiunus per tracciarne la storia remota. La parola in latino classico non ha il valore di oggi: si tratta di un aggettivo in uso nella terminologia agricola col valore di “secco, poco fertile” (terra ieiuna): l’opposto di umidus, che invece indica il terreno saturo di liquidi. Poi l’aggettivo passa alla terminologia della medicina (ieiunus indica l’organismo smunto ed emaciato) e si presta a un’infinità di usi metaforici: ieiuna può essere l’oratio (un modo di parlare dimesso e senza fronzoli), ma possono essere anche l’odium e la fames “secca”, portata agli estremi.

Benché pratiche di digiuno fossero comuni a molte religioni antiche (dalla Grecia, dove “digiuno” è nēstis “il non mangiare”, alle religioni misteriche, all’ebraismo e così via), la diffusione del sostantivo ieiunium o ieiunum comincia soprattutto nei primi secoli del cristianesimo, quando il tema del digiuno diventa oggetto di discussione e la Chiesa primitiva chiede, come forma di penitenza, il digiuno tutte le settimane. Uno dei più antichi scrittori ecclesiastici latini, Tertulliano (morto nel 230), dedica al tema del digiuno un’opera di forte intonazione polemica, scritta quando ormai si era allontanato dall’ortodossia cattolica (De ieiunio).

La parola latina è proseguita in tutte le lingue romanze occidentali sotto varie forme (francese jeûn, catalano dejuni, portoghese jejum, inoltre spagnolo ayuno da iaiunum). In altre lingue non se ne hanno in genere riprese (l’inglese jejune è un termine tecnico recente). L’interruzione del digiuno è il dis-ieiunum, da cui il francese déjeuner e lo spagnolo desayuno “colazione”.

Da ieiunum ci aspetteremmo una derivazione verbale sul tipo di ieiunare, e questa in effetti esiste, ma è d’uso relativamente raro, perché si preferisce ricorrere a perifrasi come observare ieiunum, tanto che in alcuni contesti di latino medioevale basta observare da solo per “digiunare”.

Questo uso di observare ha riflessi importanti anche al di fuori dell’ambito latino. Nelle lingue germaniche il verbo abitualmente usato per “digiunare” si rifà a una radice che originariamente valeva “resistere, mantenersi saldo”: si tratta di fastan, che troviamo nel senso di “digiunare” già nella più antica traduzione della Bibbia in una lingua germanica, quella in gotico curata da Wulfila (IV secolo). L’uso della radice si trova anche nelle altre lingue germaniche: l’antico inglese ha fæstan (da cui il moderno fast), il tedesco fasten, lo svedese fasta. Il senso originario è rimasto invece nell’aggettivo fast (antico inglese fæste “saldo”, in cui oggi prevale il valore secondario di “veloce, rapido”). Fast è evoluzione di un precedente posti-. A questa forma fanno capo varie parole indicanti il digiunare nelle lingue slave, dall’antico slavo postiti al russo postit’sja. Anche in armeno per “digiunare” si usa pahel, il cui significato originario è quello di “mantenere, osservare”, sottintendendo com “digiuno”.

Naturalmente anche le religioni dell’Asia (induismo, buddhismo) hanno forme di digiuno rituale, talora anche severe. La rinuncia al cibo è spesso accompagnata dalla rinuncia ad altri aspetti gradevoli del vivere (eleganza, fiori, profumi, unguenti). La parola più diffusa in India è upavāsa, dal verbo upavas- “dimorare, aspettare”. Sembra che l’idea fondamentale per il fedele indiano sia quella di una fissità passiva, mentre il digiuno della tradizione cristiana si inscrive tra le opere di carità, e quindi presume nel fedele un atteggiamento partecipe. L’osservanza del digiuno non è un atto masochistico. Come scriveva il teologo ed eremita camaldolese don Paolo Giannoni, il digiuno cristiano “non è mortificazione, ma ‘vivificazione’ perché è opera positiva personale e comunitaria”.

Vai al sito