LETTURE/ Mariam, dopo cento anni il genocidio armeno brucia ancora (Il Sussidiario 25.06.17)

Durante un recente viaggio a Yerevan in Armenia, l’8 maggio scorso, nel giorno della festa nazionale in cui si ricorda la liberazione di Shushi, nella regione del Nagorno Karabakh (8 maggio 1992) ho avuto modo di incontrare una studentessa ventiduenne di germanistica e storia, Mariam Martyrosian. Il Nagorno Karabakh è quella enclave che durante il periodo della dominazione sovietica, negli anni venti del ventesimo secolo, era stata regalata all’Azerbaijan, sebbene il Nagorno Karabakh fosse storicamente di cultura e tradizione armena. Mariam è nata nel giorno di Pasqua del 1995 e per questo porta il nome di Maria, nella versione armena. Sta seguendo un corso di storia dal professore Ashot Hagruni dell’Università di Yerevan sul tema della questione armena e della politica dell’est nella Germania guglielmina. Mariam parla benissimo il tedesco ed è completamente armena, nelle emozioni e nel modo di leggere la storia. Alla mia domanda se potrebbe innamorarsi di un turco, risponde con un deciso no. Le è certamente possibile parlare con un turco, ma anche questo solo nel caso che non neghi la realtà. I ricordi della sua famiglia, proveniente da un regione del nord dell’attuale Armenia, vicina alla Georgia, sono troppo vivi per poter essere esclusi dal suo modo di rapportarsi con gli altri.

Mi racconta con cura di dettagli l’inizio delle dimostrazioni nel 1988 a sostegno delle proteste nel Nagorno Karabakh per raggiungere l’indipendenza, e del loro affievolirsi, anche a causa del forte terremoto che nel 1988 colpì il 40 per cento degli armeni. Nel 1989 arrivò un chiaro no dell’Azerbaijan a questo desiderio di indipendenza, a cui l’Armenia non poteva rispondere con una proprio esercito, che dopo la dominazione sovietica non esisteva ancora. La guerra nel Nagorno Karabakh di quegli anni venne sostenuta dagli armeni residenti all’estero, dagli armeni della diaspora, come li chiama Mariam. Dopo la liberazione di Shushi ci fu un conflitto armato di cui si è firmato l’armistizio solo nel 1994. La situazione però rimane tesa, come dimostrano i quattro giorni di guerra dell’aprile 2016.

Ho chiesto a Mariam come ha giudicato la visita di papa Francesco in Armenia nel giugno dello scorso anno. Ha detto che si è trattato di un grande onore per il suo popolo che anche lei ha potuto sentire come suo. Il Papa avrebbe voluto riconoscere che la Chiesa armena nel 306 era stata la prima ad essere dichiarata “religione di stato”. Tantissima gente ha salutato per strada il Papa. Mariam doveva lavorare, ma ha seguito il viaggio di Papa Francesco in televisione. Per quanto riguarda la visita di Francesco in Azerbaijan, avvenuta qualche mese dopo (ottobre 2016), condivide la perplessità del suo popolo e non sa come mai essa sia stata necessaria. Non crede che in Azerbaijan possano avere accolto il Papa con la stessa simpatia, ma capisce che forse era un tentativo di indicare una via di riconciliazione. Capisce anche che a livello di politica mondiale il Papa non possa fare un guerra contro l’islam, un fenomeno religioso che supera completamente i limiti turchi ed anche arabi.

Per Mariam, che conosce gli orrori compiuti dall’Azerbaijan nella guerra dei quattro giorni nei confronti anche di vecchi e bambini (si è trattato di brutalità analoghe a quelle del genocidio) è difficile pensare ad una conciliazione con l’islam, sia in riferimento all’Azerbaijan sia alla Turchia (che si considera come il fratello maggiore dell’Azerbaijan). Con la Turchia vi sono stati nel recente passato dei tentativi di avvicinamento mediante quella che viene chiamata la “politica del calcio”, dove politici turchi ed armeni hanno visto alcune partite di calcio insieme, ma la condizione che è stata posta dalla Turchia per la riapertura delle frontiere, e cioè di accettare l’appartenenza del Nagorno Karabakh all’Azerbaijan, è per un armeno inaccettabile. Non meno di come sia inaccettabile che si parli, ancora oggi nei libri di storia turchi, del genocidio come di “problemi etnici”. Erdogan infatti si comporta analogamente ai Giovani Turchi di allora, a cui apparteneva anche Atatürk, il fondatore della Turchia democratica. Il riconoscimento della verità storica, l’accettazione della realtà accaduta fa parte anche per una ventiduenne di oggi in Armenia della definizione della propria identità. La stessa identità che Erdogan continua a negare. L’accettazione della realtà sarebbe invece per Mariam la condizione per offrire il perdono, che come cristiana sa di dover dare. Un perdono a basso costo, però, non è disposta a darlo. Anzi, il riconoscimento del genocidio da solo non è sufficiente: è necessaria anche un’assunzione di responsabilità a livello economico.

Per quanto riguarda la Germania, Mariam è disposta a non dare troppa importanza al ruolo equivoco della Germania guglielmina di allora, che per non guastare le relazioni con l’impero turco aveva taciuto le informazioni in suo possesso sul genocidio in atto e documentate per esempio da Johannes Lepsius, missionario della Chiesa evangelica luterana, nel suo libro L’Europa e l’Armenia. Una protesta contro le grandi potenze cristiane (“Europa und Armenien. Eine Anklageschrift gegen die christliche Großmächte”). Ovviamente ha conoscenza anche della recente presa di posizione ambigua del parlamento tedesco sul riconoscimento del genocidio come tale, ma mi ha parlato piuttosto del discorso chiarissimo dell’ex presidente tedesco Gauck nel duomo luterano di Berlino il 23 aprile 2015, in cui con chiarezza chiamò per nome il genocidio, che aveva mosso i suoi primi passi già nel 1894 con il massacro avvenuto nella città di Sasun.

Mariam intende la storia del genocidio anche come una questione di appartenenza religiosa. Secondo lei proprio i cristiani erano coloro che non avrebbero dovuto avere diritto di esistenza nel progettato regno Turan. Come dicevo, Mariam conosce il ruolo ambiguo se non di collaborazione avuto dalla Germania guglielmina, tuttavia menziona anche due generali che a Costantinopoli (Mariam non usa il termine Istanbul) e a Mosul si erano rifiutati di mettere in atto le richieste della Turchia di allora. Per quanto riguarda la Germania attuale spera che l’influsso turco, che ha saputo minacciare addirittura onorevoli tedeschi di origine turca nel caso questi avessero — come poi hanno fatto — sostenuto il riconoscimento del termine genocidio, non aumenti eccessivamente.

Sono state due ore di intenso dialogo significative per me, forse ancor più che se avessi parlato con il suo professore di storia, perché ho potuto vedere negli occhi di questa giovane donna tutta la tensione emotiva che entra in gioco nel rapporto tra storia ed identità attuale di un uomo e del suo popolo.

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