«Mia nonna è arrivata in America scappando da Aleppo» (Corriere della Sera 30.01.17)

NEW YORK «La forza dell’America, il suo successo, lo straordinario fascino dell’ American dream : il sogno che si realizza. Tutto questo è stato costruito sulle spalle degli immigrati che abbiamo sempre accolto: gente di ogni religione e origine etnica che ha lavorato duro per la grandezza di questo Paese. Gente che fuggiva dalle persecuzioni o voleva solo offrire un avvenire migliore alla sua famiglia. Non possiamo rinnegare tutto questo: è contro i nostri interessi e la nostra storia».

Quella di Ian Bremmer è una delle tante voci di condanna del decreto presidenziale di Donald Trump che ha bloccato l’ingresso dei cittadini di sette Paesi musulmani negli Usa. Il politologo e fondatore di Eurasia usa argomenti economici («Il 40 per cento delle grandi imprese americane, quelle dell’indice Fortune 500, è stato fondato da immigrati o dai loro figli») e politici («negli Stati Uniti siamo riusciti a integrare gli islamici nella società molto meglio che altrove: un patrimonio da non dissipare») per spiegare la sua avversione alle barriere volute dal nuovo presidente.

Ma Bremmer ha anche un motivo personale più profondo per lanciarsi in questa battaglia civile: la sua famiglia ha origini armene e la nonna è arrivata negli Stati Uniti, all’inizio del Novecento, proprio da quella Siria che oggi è uno dei Paesi messi al bando dalla Casa Bianca. «Mio padre», racconta il politologo nato e cresciuto a Boston, «è morto quando io avevo quattro anni. Ho scarse memorie di lui e ho sempre avuto pochi contatti coi miei parenti dal lato paterno, tutti residenti nel West». Quella di Bremmer ricorda un po’ la storia di Barack Obama, cresciuto senza padre, allevato anche lui dalla madre e dai nonni materni.

Pure per Ian la figura-chiave dell’adolescenza diventa la nonna, Maria Orfaly (al centro nella foto): «Una donna arrivata qui da bambina, sbarcata a Ellis Island nel 1923, col padre Simon e la madre Tourfanda: erano sopravvissuti al genocidio degli armeni e venivano a cercare il loro spicchio di sogno americano. Maria era una donna dura, orgogliosa, impegnatissima nel sociale: in Massachusetts ha proposto leggi per la tutela degli anziani. È stata lei a trasmettermi la passione per la politica».

Senza i suoi parenti armeni e l’aiuto di quella comunità, per Bremmer, forse, la storia sarebbe stata diversa. Quando morì il padre, infatti, la madre dovette trasferirsi coi figli nelle case popolari di Boston dove vivevano i nonni. Anni di grandi ristrettezze economiche, di sacrifici per far studiare i figli. Ian aveva scoperto la sua vocazione quando era ancora uno studente delle medie: la nonna portò a scuola il vicegovernatore del Massachusetts, Tom O’Neill, e lui lo intervistò per un giornale locale, il Chelsea Record .

Studente brillante, Bremmer ha potuto frequentare le migliori università, fino al dottorato di ricerca a Stanford, grazie al sostegno dell’Agbu, l’Associazione degli armeni in America, che gli ha offerto una borsa di studio. È riuscito, così, a coronare un sogno filtrato attraverso le soffrenze di un popolo perseguitato: un bisnonno, Simon Ourfalian (in America cambierà il cognome in Orfaly), che sposò Tourfanda Kassabian nella città turca di Adana, in Turchia. Poi l’emigrazione per sfuggire alle persecuzioni. Prima ad Aleppo, in Siria, dove Simon ha un certo successo come mercante. Poi, nel 1923, la partenza dal porto del Pireo, in Grecia, su una nave americana, la SS King Alexander, e la nuova vita negli Usa.

Passando attraverso Ellis Island: isola della speranza ma anche del dolore, perché anche allora, pur senza la minaccia del terrorismo islamico, l’America non accoglieva tutti. «Certo», ammette Bremmer, «i massicci flussi d’immigrazione erano una sfida per quel giovane Paese. Ma il numero di quelli che sono stati accolti è enorme. E la ricchezza e le capacità che hanno portato negli Stati Uniti è ugualmente incredibile: comunità dinamiche come quella armena, rifugiati rapidamente diventati motori della prosperità americana. Capisco che oggi chi arriva da Paesi islamici può essere percepito da una parte dei nostri concittadini come una minaccia, ma l’America ha sempre saputo gestire e riassorbire questi timori, ha integrato i nuovi arrivati nelle comunità locali. Se smettiamo di essere un faro e cominciamo a discriminare e a respingere alimenteremo risentimenti ed estremismo. Rendendo l’America un luogo non solo meno civile, ma anche meno sicuro».

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