Milano, il campione di kickboxing che dormiva in Centrale: è una stella (Corriere della Sera 24.07.17)

La fuga dall’Armenia nascosto in un tir e le notti trascorse in stazione. Giorgio Petrosyan, arrivato nel capoluogo lombardo a 14 anni ora ha una palestra – di Gianni Santucci

Non gli piace parlare. E questo si capisce subito. E si comprende anche perché, ogni tanto, le parole si sciolgono invece su certi argomenti. La disciplina, prima di tutto. Quella dell’allenamento. Che in questo periodo prevede decine di «ripetute» ogni mattina, in una pista d’atletica ad Assago. E poi il «lavoro sulla forza», quello che fa di pomeriggio, in una palestra col pavimento morbido a scacchi rossi e blu e i mattoni nudi alle pareti, in via Sibari, estrema periferia Sud alla fine di via Ripamonti. Per arrivare alla palestra bisogna percorrere una strada chiusa tra carrozzerie e laboratori artigiani. Ambiente perfetto dove allenarsi per uno come Giorgio Petrosyan: 31 anni, ragazzo educato e silenzioso, una leggenda mondiale del kick boxing, record di combattimenti vinti, cinque volte campione del mondo. Una sorta di Messi o Valentino Rossi, nel suo sport. Da Erevan, in Armenia, partì come Gevorg. Da tre anni è italiano: cittadino per meriti sportivi e per una lettera che dopo un importante incontro a Roma gli fece recapitare l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Lettera corredata da una bandiera tricolore, che il campione Petrosyan conserva oggi nel suo appartamento di Milano. E che è l’emblema di una storia che si compie: perché a Milano Giorgio arrivò col padre e un fratello, quando aveva 14 anni, immigrati illegali nascosti nel cassone di un camion, 10 giorni di viaggio passando dalla Russia. La prima notte dormì col padre e il fratello in stazione Centrale. «Un posto dove andare non ce l’avevamo; un riparo qualsiasi per la notte ci serviva». Su quel ricordo, anche, le parole si fanno più intense. Non tanto per raccontare la fatica o la paura dell’emigrazione, ma per descrivere il ruolo di quel padre «coraggioso»: «Lui voleva venire in Europa, non aveva pensato all’Italia. Siamo finiti a Milano perché è qui che il camion ci ha lasciati. Eravamo nascosti e mio padre ci tranquillizzava, quando sei ragazzino e ti senti rassicurato i pericoli non li senti. Il giorno che siamo arrivati avevo 40 di febbre. Faceva freddissimo».

Il resto della storia comprende un breve passaggio a Torino; poi l’approdo quasi casuale a Gorizia; i mesi alla Caritas; un piccolo imprenditore che prende a cuore la famiglia e gli offre una casa e un lavoro per il padre. Il ragazzino lega dei cuscini alla struttura di un canestro da basket e s’allena così; poi una palestra, il primo incontro vinto a 16 anni contro un tizio di 22 («Prima tutti mi guardavano e ridevano»), una dozzina di match per dimostrare che in un anno, ancora minorenne, in Italia Petrosyan non aveva praticamente più rivali. Al padre arrivò pure un ordine di espulsione, ma riuscirono a sistemare le carte. Questa dei documenti è una storia che accompagnerà Petrosyan per buona parte della carriera: per anni è stato il numero uno al mondo, combatteva per l’Italia, ma ogni competizione all’estero nasceva una grana per passare i confini. Il ritorno a Milano, qualche anno fa, per aprire la palestra di via Sibari col fratello Armen, anche lui atleta di livello internazionale e organizzatore dell’incontro per il titolo mondiale che Giorgio Petrosyan combatterà all’ex Palaiper di Monza il prossimo 14 ottobre. Milano la vive poco, ogni tanto una cena con qualche amico in corso Garibaldi. Niente più. Il resto è allenamento e riposo. Disciplina.

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