Mivekannin e il melograno armeno (Il Manifesto 13.04.25)
Roméo Mivekannin (1986) è un pittore nato in Costa d’Avorio, cresciuto in Benin, con una formazione in architettura in Francia e un dottorato in storia dell’arte a Tolosa in corso. Nella sua prima personale italiana alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia (Black Mirror, fino al 27 luglio), espone D’après La couleur de la grenade, Sergueï Paradjanov (1969) (2024), un dipinto orizzontale (150×300 cm) realizzato su velluto nero, non incorniciato, non fissato su alcun telaio e sospeso nello spazio, lo stesso in cui evolve lo spettatore. Una tecnica che sperimenta per la prima volta, ispirata a un’opera di Julian Schnabel nella Collezione Maramotti. Come servirsi di un materiale utilizzato per i vestiti e non per la pittura, di un tessuto che assorbe la luce e rigetta i colori, di uno specchio nero su cui le figure non si stagliano o staccano, prese in una fibra comune che le tiene prigioniere? Il risultato non è pienamente prevedibile, la sfida è raccolta.
Nella ventina di opere in mostra i soggetti sono debitori della storia dell’arte e del cinema, con molte influenze italiane, di quelle predilette dal mondo culturale francese come il duo Caravaggio-Pasolini; non mancano tuttavia riferimenti a Pina Bausch o a un regista visionario quale Leos Carax. Indipendentemente dai riferimenti storici, Mivekannin interferisce volentieri con le composizioni originali riproducendo il suo volto se non il suo corpo che emerge dal buio del tessuto nero. Il risultato è un autoritratto polifonico in cui si mette nella pelle di personaggi di rappresentazioni storiche, privilegiando le figure marginali su cui cade la sua attenzione quando, arrivato in Francia, visita le collezioni museali. Insoddisfatto dalla postura subalterna e passiva della citazione, che riduce l’artista a un abile copista, si proietta nello spazio dell’opera fino a sostituirsi ai suoi personaggi. Una teatralità in cui la storia dell’arte è, più che citata, fagocitata. Un’esplorazione del sé in cui il gioco erudito con l’atlante delle immagini del passato si accompagna all’introspezione psicologica. Del resto, poiché vestendoci portiamo il tessuto su di noi, a contatto con la nostra pelle, Mivekannin considera l’abito come una casa sociale.
Come indica il titolo, D’après La couleur de la grenade è ispirato al film Il colore del melograno (1969) in cui Sergueï Paradžanov riesce nell’arduo compito di ricostruire la biografia di un poeta, quella del trovatore, bardo, musicista, ashugh armeno Sayat-Nova del XVIII secolo. Anziché seguirne pedissequamente la biografia (come nei biopic), il film – allusivo e sospeso – procede per tableaux vivants. Ogni scena è un paesaggio cromatico, una festa per gli occhi. Per quanto poetico, il titolo fu proposto dai censori russi per i quali il film – intitolato dal regista Sayat-Nova – non rispecchiava la vita del poeta armeno.
Mivekannin, che colleziona fotogrammi di film, seleziona una delle tante scene corali, pochi secondi in cui una quindicina di monaci barbuti e nerovestiti addentano con gusto un melograno. Nel film il colore rosso o porpora è ricorrente, a partire dalla scena iniziale di tre melograni che macchiano un telo bianco: i vestiti del giovane poeta, i tappeti stesi in verticale come lenzuola al vento, un corno di corallo appeso al collo come amuleto, la cresta di un gallo, un pigmento che colora il palmo della mano, la pelle di un tamburo, le ali degli angeli, i mitra liturgici e altri paramenti sacri, il sangue – umano o di un capretto sgozzato – che, alla fine del film, insozza la veste bianca del poeta, in omaggio alla simbologia della passione. Mivekannin tralascia il corpo dei monaci, ne moltiplica i volti e i gesti delle mani, li dissemina nella superficie del telo nero in una rêverie teatrale e muta.