NAGORNO-KARABAKH: Continua la rivoluzione postbellica (Esatjournal 07.02.21)

Le sei settimane di guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh si sono concluse con un accordo di cessate il fuoco lo scorso 9 novembre; il conflitto è stata una vera e propria rivoluzione che, dopo aver ridisegnato i confini del Caucaso del Sud, continua ad influenzare tanto la politica internazionale, quanto quella interna ai due paesi belligeranti.

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Basi e ferrovie

A livello internazionale, si stanno progressivamente mettendo in atto le clausole dell’accordo del 9 novembre.

Il 30 gennaio è stato inaugurato il centro di monitoraggio congiunto russo-turco del cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh, uno degli argomenti su cui più si è discusso dopo la fine della guerra. L’installazione si trova in Azerbaigian, nella regione di Aghdam, a pochi chilometri dalla parte di Nagorno-Karabakh rimasta sotto il controllo armeno. Secondo quanto riportato da Reutersospita un generale e 38 militari turchi e personale russo in pari numero. La presenza dei due piccoli contingenti in Azerbaigian rappresenta, in qualche modo, un doppio spartiacque storico. Se Baku una volta raggiunta l’indipendenza da Mosca (1991) si è, infatti, impegnata nell’obiettivo – raggiunto solo nel 2012 – di far chiudere tutte le installazioni militari russe eredità dell’epoca sovietica sul proprio territorio, il Cremlino è storicamente ostile all’ingerenza di paesi terzi, soprattutto in tema di sicurezza, nelle ex repubbliche sovietiche. Il fatto che Baku e Mosca abbiano accettato questo compromesso è uno degli effetti della rivoluzione causata dalla guerra dello scorso autunno.

Sempre il 30 ottobre, in ottemperanza con un’altra clausola dell’accordo di pace, a Mosca si è tenuto il primo incontro del gruppo di lavoro per l’apertura dei corridoi di trasporto nel Caucaso del Sud. I vice dei capo di governo di Armenia, Azerbaigian e Russia hanno, in particolare, discusso della rimessa in funzione della ferrovia tra Baku e Erevan attraverso l’exclave azera del Nachicevan. Tale infrastruttura è stata spezzata in tronconi dopo il crollo dell’Unione Sovietica dal momento che attraversa ben tre volte i confini chiusi tra Armenia e Azerbaigian. La sua riapertura consentirebbe da una parte il collegamento terrestre diretto tra Baku e il Nachicevan (attualmente possibile solo per via aerea o con un lungo giro attraverso l’Iran), e dall’altra una connessione ferroviaria tra Erevan e la Russia, negli interessi di Mosca. Le implicazioni della sua riapertura si estendono anche a Iran e Turchia, i cui confini sono situati letteralmente a pochi metri dalla ferrovia.

Azerbaigian, il costo della vittoria

La vittoria nel conflitto dello scorso autunno ha suscitato grandissimo entusiasmo popolare in Azerbaigian. La perdita di territori internazionalmente riconosciuti come parte del paese per effetto della guerra negli anni Novanta, costituiva, infatti, una sorta di trauma collettivo, soprattutto per i rifugiati costretti ad abbandonare le aree finite sotto il controllo armeno.

Il conto della vittoria, rischia però di essere molto salato per la popolazione azera, già alle prese con la crisi economica causata dalla pandemia. Il presidente, Ilham Aliyev, ha infatti proclamato una vasta campagna di ricostruzione per rendere abitabili i territori riconquistati, attualmente devastati dalle guerre. A tale scopo saranno destinati 1,3 miliardi di dollari solo nel corso del 2021. Per finanziare il progetto tra dicembre e gennaio sono stati aperti tre fondi statali: il fondo per l’assistenza dell’esercito azero, il fondo YAŞAT e il fondo per la rinascita del Karabakh. I primi due sono destinati al supporto dei veterani e delle famiglie delle vittime, il terzo, come si evince dal nome, alla ricostruzione.

Ufficialmente, a finanziare tali investimenti saranno i cittadini e le imprese su base volontaria. Come riportato, però, in molti casi i lavoratori, sia nel settore pubblico che nel privato, vengono costretti dai superiori a versare parte del proprio stipendio ai fondi o ricevono direttamente un salario ribassato. La pratica risulta particolarmente stonata in un paese ricco di risorse naturali come l’Azerbaigian, ma l’ondata di patriotismo causata dalla vittoria, potrebbe mettere sotto silenzio le voci dissenzienti.

Armenia, dalle ceneri della guerra ecco la fenice Kocharyan

Dopo la sconfitta militare e le grosse perdite territoriali, il primo ministro, Nikol Pashinyan, è finito nel mirino delle opposizioni in Armenia. Le proteste animano ormai da quasi tre mesi la capitale, Erevan, e non è escluso che la crisi possa portare ad elezioni parlamentari anticipate nel breve periodo.

In questo contesto, l’ex presidente del paese (nel decennio tra il 1998 e il 2008), Robert Kocharyan, ha annunciato l’intenzione di candidarsi ad eventuali elezioni. Tale sviluppo è anch’esso sintomo dei grossi cambiamenti portati dal conflitto. Kocharyan è, infatti, parte di quell’elite politica – il cosiddetto clan del Karabakh – apparentemente ormai uscita di scena con la “Rivoluzione di Velluto” che aveva portato al potere Pashinyan nel 2018. Per di piu,  Kocharyan è sotto processo per la repressione violenta delle proteste contro i brogli a seguito delle elezioni presidenziali del 2008 vinte dall’alleato e successore alla guida del paese, Serzh Sargsyan. Se si andasse alle elezioni, potrebbero aprirsi scenari impronosticabili fino a pochi mesi fa.

Segnali contrastanti

Difficile è anche prevedere cosa succederà nei prossimi mesi nel resto della regione. I negoziati sulla riapertura della ferrovia attraverso il Nachicevan sono segnali incoraggianti, così come lo è lo scambio di prigionieri di guerra tra Armenia e Azerbaigian avvenuto lo scorso 28 gennaio. Al contempo, l’esercitazione militare congiunta tra Turchia e Azerbaigian in corso nella zona di Kars, al confine con l’Armenia, rende chiaro che tutti gli attori coinvolti nel conflitto del Nagorno-Karabakh stanno ancora affilando le proprie armi e la diplomazia potrebbe essere nuovamente messa da parte.