NAGORNO KARABAKH, UN’ALTRA MEMORIA CANCELLATA (Gariwo 23.11.23)

Non è facile parlare di terre perdute per i rivolgimenti della storia, ma ancora meno facile è parlare di una terra su cui hai viaggiato, hai portato amici alla scoperta di angoli nascosti e incontaminati che ti hanno regalato bellezza, arte, cultura, ma su cui hai visto con i tuoi occhi anche la distruzione lasciata da una guerra insensata; quasi impossibile parlare e scrivere quando le ferite sono aperte, perché oggi non si tratta di terre, si tratta di “persone”: più di centomila, anziani, donne, uomini, bambini, giovani, costretti all’esilio. Viviamo giorni che ci appaiono disumani e dominati dalla insensatezza e a volte sentiamo un livello di impotenza che potrebbe corrompere anche i nostri ideali. Fortunatamente non siamo soli e possiamo condividere lo sconforto con gli amici e le nostre comunità. Si ricava così nuova energia per continuare sulla strada intrapresa e rinsaldare la convinzione che al male si mescola sempre una possibilità di bene.

Luca Steinman, giornalista, scrittore e inviato di guerra, ha assistito in Armenia all’esodo sulla strada che collega il corridoio di Lachin con la città armena di Goris: “Migliaia di persone in fuga” -scrive – , “interminabili file di automobili sovraffollate sui cui tetti erano legati grossi bagagli o valigie contenenti gli ultimi averi impacchettati in fretta e furia prima di scappare…Dietro di loro si vedevano all’orizzonte le montagne del Nagorno Karabakh…”. Racconta anche delle tende della Croce Rossa posizionate ai lati della strada, dove si possono ricevere cure mediche, acqua e cibo, e dei gazebo colmi di vestiti e coperte che i fuggiaschi possono ritirare. “È troppo tardi, mormora uno sfollato…l’Artsakh non esiste più…solo ora ci rendiamo conto che non potremo mai più tornare nelle nostre case” (La Reubblica, 2 ottobre 2023). Case abbandonate che saranno ripopolate dagli azeri, che talvolta potranno trovare sulla soglia vasetti di frutta e verdura preparati per l’inverno. Li hanno lasciati gli armeni per quelli che verranno dopo di loro. Un bene possibile in atto, in un bene perduto per sempre.

Negli anni Novanta ho percorso sentieri, piste e tratturi. Ho attraversato paesi di pietre urlanti, ho apprezzato l’ospitalità dignitosa della gente, gustato i “lavash” di erbe aromatiche, visitato remoti villaggi, monasteri, chiese, scuole antiche di millenni. Il monastero di Amaras fu sede della prima scuola armena, fondata nel V secolo da Mesrob Mashtoz, il creatore dell’alfabeto, e luogo di sepoltura di Grigoris, il nipote di San Gregorio l’Illuminatore; Gandzasar, sede del patriarcato albano dipendente dalla Chiesa Armena; Dadivank, antichissimo complesso monastico nel cuore di ogni armeno; Tzitzernavank, sede dei primi cristiani apostolici; Sushi, la “Parigi d’Oriente”, capitale di arte e cultura; Vankasar, vicino a Tigranakert, e altre località note ed ignote che sono riuscito ad esplorare nel corso degli anni, muovendomi in motocicletta, mezzo adatto a raggiungere luoghi impervi, ma che soprattutto facilita il contatto con le persone. Un territorio su cui è profondamente impressa la cultura, l’arte, la fede del popolo armeno, ma anche una storia di sofferenza infinita.

La memoria mi riporta volti, sorrisi, accoglienza, narrazioni di ansia e paura, ma anche di resistenza e fiducia. Oggi, tutto sembra perduto e abbandonato nelle selve scure che ricoprono le montagne dell’Artsakh, antico nome armeno della regione ribattezzata Nagorno Karabakh, Giardino Nero. Un Eden di foreste incontaminate, greggi e pastori, campi di grano, prati fioriti, laghi, torrenti, fiumi, bufali, orsi, aquile. Sempre ben visibili nelle piccole città, paesi, villaggi, le ferite profonde delle guerre e della fuga precipitosa degli abitanti. Fa male l’immagine del presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, che calpesta la bandiera dell’Artsakh e innalza con grande orgoglio la bandiera azera dopo la presa di Stepanakert, capitale deserta, con la sua strada principale ribattezzata Enver Pasha, a ricordo di uno dei triumviri organizzatori del genocidio degli armeni del 1915.

L’antidoto a questo gesto la cui sostanza è violenza, esercizio di potere e tracotanza del vincitore, lo trovo se richiamo alla memoria le storie di alcuni Giusti azeri, che nel corso dei terribili pogrom di Sumagit, Baku, Kirovabad, commessi nel territorio dell’Azerbaijan alla fine degli anni Ottanta, hanno salvato, soccorso e aiutato gli armeni. Scriveva Elena Bonner, moglie di Sacharov, nella prefazione all’edizione francese del libro di Samuel Shahmuradian, La tragedia di Sumgait: “Forse non tocca a me, che sono metà ebrea e metà armena, scrivere questa prefazione. Forse non sarebbe meglio che la scrivesse quella donna azera che ha salvato una famiglia armena? Quella che ha detto: «Mio figlio vede tutto ciò, domani farà le stesse cose». È una messa in guardia per noi tutti in questo mondo. Se noi non arriviamo a far si che ogni stato sia al servizio degli uomini e non gli uomini al servizio dello stato, piccolo o grande che sia non importa, i nostri figli e i nostri nipoti si trasformeranno in una folla di bestie feroci. Come a Sumgait”.

Quale sarà il futuro del popolo armeno e della Repubblica Indipendente dell’Armenia, che oggi è capace di accogliere, sostenere e integrare più di centomila profughi delle terre perdute dell’Artsakh? Pochi giorni fa, il presidente dell’Armenia, Vahagn Khachaturyanha rilasciato un’intervista al quotidiano israeliano Haaretzesprimendo un concetto di fondo: la violenza e la guerra non hanno mai contribuito alla pace e alla crescita di un paese. La questione del Nagorno Karabakh non è stata una rivendicazione territoriale, e ancor meno un conflitto per motivi religiosi. Ha riguardato la richiesta di una piccolissima regione, abitata da armeni e rivendicata dagli azeri, di vivere in pace, sicurezza e autonomia. L’uso della forza non ha mai contribuito alla pace. Il presidente ha sottolineato gli errori da una parte e dall’altra dei contendenti e, soprattutto, l’illusione che si potesse vivere, prosperare e consolidare la democrazia accontentandosi di un cessate il fuoco o di una tregua. L’Armenia non ha altre risorse che quelle umane e la precondizione per guardare al futuro è la libertà e la democrazia: “Un punto, questo”, ha aggiunto il presidente, “su cui ci troviamo in disaccordo con il nostro più importante alleato, la Russia”.

Il presidente Khachaturyan ha ricordato, inoltre, che dal 1991, data dell’Indipendenza della Repubblica di Armenia, al 2018, data della rivoluzione di velluto, c’è stata una progressiva perdita di fiducia nelle istituzioni per una gestione politica del paese segnata dalla corruzione, dalla scarsa volontà di scrivere la pagina di una pace duratura e dalle derive nazionaliste, eredità pesante di relazioni conflittuali con i vicini. Nikol Pashinyan, primo ministro, ha cercato di avviare una nuova era di fiducia nella democratizzazione del paese combattendo la corruzione. Cammino difficile, ma senza relazioni di pace non si possono consolidare le istituzioni democratiche e guardare al futuro. E in riferimento alla domanda riguardante le relazioni tra Armenia e Israele, che assieme alla Turchia ha fornito armi all’aggressore azero, il presidente ricorda che l’Armenia non ha mai intrapreso passi contro gli interessi israeliani e che fornire armi ad un paese che le usa contro un paese amico è inaccettabile; tuttavia, egli è altresì convinto che un miglioramento delle relazioni con Israele sia auspicabile e anche possibile: “Siamo nazioni simili”- dichiara –“i nostri popoli sono sopravvissuti a un genocidio e entrambi sappiamo bene cosa significa. L’impatto psicologico si riverbera in tutto quello che si fa, nella musica, nella letteratura, nella pittura e questo, di fatto, non può che unire i nostri due popoli”.

In Karabakh c’è stata una pulizia etnica, gli armeni che vi abitavano da millenni hanno lasciato il loro paese. Vorrebbero ritornare? A condizioni di vita garantite, sottolinea il presidente. Il maggiore ostacolo è l’armenofobia. Un’intera generazione azera è cresciuta studiando su testi scolastici che descrivono gli armeni come barbari assassini. Ovunque, oggi, è prioritario combattere l’intolleranza, l’odio, il razzismo. La precondizione era (e resta) quella di sedersi al tavolo della pace.

Assieme all’immagine della donna armena che prima di unirsi alla lunga fila dei fuggiaschi lascia sulla porta della sua casa, abitata da centinaia di anni, le riserve di cibo per l’inverno, mi appare il volto dell’anziana ebrea prigioniera di Hamas, che nel momento della sua liberazione ha stretto la mano al suo carceriere dicendo: “Shalom”, Pace. I governi vanno e vengono, mutano colore e obiettivi, ma esiste sempre un essere umano che stringe la mano del nemico riconoscendo l’umano che è in lui. Un gesto, “il gesto”, che potrebbe ancora insegnare qualcosa ai potenti e dare voce agli organismi internazionali che voce non hanno.

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La storia

È necessario guardare la cartina geografica per avere un quadro storico essenziale e per individuare quanto rimasto dell’autoproclamata Repubblica Autonoma del Karabakh, una regione che per molti secoli ha goduto di autonomia sotto molte dominazioni straniere: persiani, romani, bizantini, arabi, turchi, tatari, russi, azerbaigiani.

Con la Rivoluzione russa del 1917, il Karabakh venne inglobato nella Federazione transcaucasica, divisa poi in Georgia, Armenia e Azerbaijan. L’Unione Sovietica ha esercitato un controllo ferreo sul Caucaso meridionale, creando l’Oblast, regione autonoma del Nagorno Karabakh inserita nella Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan, pur essendo abitata al 97 % dagli armeni. Vennero sempre ignorate le richieste inviate a Mosca dagli armeni dell’Artsakh, con lo scopo di ottenere l’annessione alla RSS dell’Armenia. La perestrojka e la glasnost furono, per gli armeni del Karabakh, l’occasione per richiedere l’annessione all’Armenia e l’Indipendenza dall’Azerbaijan.

Pogrom e guerra furono conseguenze inevitabili, in un quadro in cui la costruzione del nemico era in atto. La prima guerra, avvenuta dal 1992 al 1994, fu vinta dagli armeni, che conquistarono parte dei distretti di confine dell’Azerbaijan abitato da azeri. Seguì un periodo di conflitto, congelato con una via aperta ai negoziati (Gruppo di Minsk e principi di Madrid), di fatto inconcludenti. E intanto cresceva il nazionalismo, mito fondante di entrambi i paesi e, cosa più grave, intere generazioni crescevano nell’odio reciproco, con un’accentuazione particolare dell’armenofobia, dovuta al regime autocratico di Ilham Aliyev, presidente dell’Azerbaijian.

Un politico determinato – come abbiamo visto nel caso dello scrittore azero Akram Aylisli, onorato dalla Fondazione Gariwo tra i Giusti al Giardino di Milano – a spegnere ogni voce di dissenso e ogni aspirazione al dialogo. Intanto, Baku, grazie ai guadagni ricavati dalle sue risorse energetiche, era impegnata a costruire un esercito forte, dotato di armi moderne, con l’obiettivo dichiarato di risolvere una volta per tutte la questione armena. Stesso proposito era stato espresso dal governo dei Giovani Turchi, autori del genocidio del 1915  riproposto da Erdogan, desideroso di finire, appoggiando Aliyev, il lavoro di inizio secolo contro gli armeni. Quattro giorni di prove generali di attacco nel 2016 e poi, il 27 settembre del 2020, l’offensiva azera dei 44 giorni di guerra, che ha segnato la sconfitta delle forze armene del Karabakh e la perdita di molti distretti, compresa la città simbolo di Sushi.

Con la mediazione della Russia, peraltro indebolita dalla guerra sul fronte ucraino, la firma del cessate il fuoco del 9 novembre 2020 scrive la capitolazione del fronte armeno, il cambiamento degli equilibri di forza della regione e un rivolgimento delle alleanze. Il corridoio di Lachin, unico collegamento tra il Nagorno Karabakh e l’Armenia, diviene strumento di ricatto e arma per fiaccare definitivamente la resistenza dei 120.000 armeni dell’area di Stepanakert: blocco di forniture alimentari, di medicinali, del gas e dell’elettricità. Si sono levate alcune voci della comunità internazionale, ma non sufficienti per distogliere il governo azero dall’obiettivo di pulizia etnica della regione. Nell’agosto 2023, l’ex procuratore della Corte penale internazionale Moreno Ocampo ha dichiarato che il blocco del corridoio di Lachin, allora al suo settimo mese, doveva essere considerato un genocidio ai sensi dell’articolo II della Convenzione ONU sul genocidio: “infliggere deliberatamente a un gruppo condizioni di vita tali da provocare la sua distruzione fisica”. Un genocidio per procurata carestia. Il Lemkin Institute ha sostenuto la stessa tesi, così come altri studiosi del genocidio.

Il piano di conquista non è ancora completato. Si arriva così all’attacco a sorpresa del 19 settembre del 2023 contro la capitale Stepanakert, probabilmente concordato con Mosca. Il Parlamento europeo ha definito l’attacco una grave violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. Troppo tardi. È mancato alle istituzioni e agli organismi internazionali il criterio di “prevenzione del male”, la volontà e l’impegno di cogliere i segni premonitori delle catastrofi. L’Armenia non ha potuto aiutare l’enclave dell’Artsakh, data la forza militare azera preponderante. I duemila caschi blu russi sono rimasti in disparte, mentre gli azeri bombardavano obiettivi civili e militari. I dirigenti locali armeni hanno dovuto accettare la resa per evitare un vero e proprio “genocidio”. Ultimo atto al quale abbiamo assistito: l’esodo della totalità della popolazione armena dell’Artsakh. Dopo la sconfitta, il 21 settembre le autorità armene del Nagorno-Karabakh si sono incontrate con i rappresentanti dell’Azerbaijan e della Russia per discutere la loro resa. L’Azerbaijan ha chiesto il completo disarmo delle forze di autodifesa della regione; la consegna dei leader per un procedimento “penale”; lo scioglimento delle autorità dell’enclave.

Ci sarà una trattativa per la salvaguardia dei monasteri, delle chiese, delle antiche scuole, delle fortezze, dei cimiteri, delle opere che rendono visibile la storia, la cultura, la fede, in una parola l’identità del popolo armeno? Si è alzata solo la voce di Papa Francesco, proprio in concomitanza con la presenza a Stepanakert del presidente Aliyev, che in divisa militare si inchinava alla bandiera azera prima di issarla sul pennone. Dopo l’Angelus in Piazza San Pietro, Papa Francesco ha ricordato la tragedia degli sfollati del Nagorno Karabakh e ha lanciato un appello accorato per la protezione dei monasteri e delle chiese della regione, invitando le nuove autorità e gli abitanti al “rispetto dei luoghi di culto è un’espressione di fede e segno di una fratellanza che ci permette di vivere insieme nelle nostre differenze”.

La storia ci insegna, purtroppo, che il genocidio è infinito. Travolge uomini e cose, cancella con cura e determinazione a volte interi Stati e ogni traccia della cultura dei vinti.

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