Napoli, Teatro di San Carlo – Concerto per violino in re minore di Aram Chačaturjan (Il Mattino 23.09.21)

Domenica 26 settembre ore 18.00 è in programma al Teatro di San Carlo un nuovo appuntamento sinfonico.

Torna sul podio Juraj Valčuha che dirigerà l’Orchestra del Massimo napoletano e il violinista di origini ucraine Valeriy Sokolov nel Concerto per violino in re minore di Aram Chačaturjan e nella Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61 di Robert Schumann. Sokolov, considerato tra i più talentuosi violinisti della sua generazione, ritorna al San Carlo dopo tre anni di assenza.

Guida all’ascolto di Mauro Mariani

Concerto per violino in re minore di Aram Chačaturjan

Negli anni immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale, la musica dell’armeno Aram Chačaturjan fu accolta con grande favore dal pubblico, che era affascinato dai suoi colori esotici, dai suoi irresistibili ritmi di danza, dalle sue melodie ora ardenti e appassionate ora profondamente malinconiche. In seguito la sua musica fu accusata in Unione Sovietica di essere troppo “avanzata e difficile da capire per le masse”. Viceversa in occidente buona parte della critica la considerava troppo facile, in quanto totalmente estranea alle problematiche dell’avanguardia musicale di quegli anni. Ma ora Chačaturjan sta recuperando il posto che gli spetta come figura di primo piano nel panorama musicale dei decenni centrali del Novecento e viene riconosciuto come musicista rappresentativo dell’Unione Sovietica e anche come musicista di livello internazionale. Ma fu soprattutto un musicista armeno, perché, sebbene sia vissuto quasi sempre a Mosca, non dimenticò mai la sua patria racchiusa tra i monti del Caucaso: una piccola nazione ai margini dell’Europa, schiacciata tra due enormi imperi, la cui esistenza stessa era stata minacciata per secoli. Per la sopravvivenza della cultura e delle tradizioni armene ha avuto un ruolo fondamentale proprio la musica, che per secoli ha espresso e custodito l’anima di quel piccolo popolo ed è un elemento imprescindibile dell’identità armena.

Pur avendo compiuto i suoi studi al conservatorio di Mosca, la città in cui trascorse quasi tutta la sua vita, Chačaturjan non dimenticò mai la musica della sua patria e inserì canti e danze tradizionali armeni in molte sue composizioni. La sua musica dunque celebra il connubio tra solida formazione accademica e sorgenti musicali popolari e ne è un magnifico esempio il concerto in re minore per violino e orchestra op. 46, composto in appena due mesi nel 1940 e dedicato a David Oistrakh, il maggior esponente in quegli anni della gloriosa scuola violinistica russa e uno dei più grandi violinisti del secolo in assoluto. Chačaturjan stesso così descrisse lo stato d’animo con cui vi lavorò:«Ho scritto questa musica come in un’onda di felicità; tutto il mio essere era in uno stato di gioia. Ho lavorato velocemente e facilmente; la mia immaginazione sembrava volare. I temi mi arrivavano con una tale abbondanza che ho avuto difficoltà a metterli in una sorta di ordine». Ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di queste parole dell’autore per percepire chiaramente la felicità e la facilità di scrittura che sprizzano da questo concerto. Si tratta di un lavoro di ampie dimensioni, che riprende, seppur con qualche libertà, la forma classica sia nella successione dei tre movimenti sia nella struttura di ogni singolo movimento. Nel primo movimento vi è un’ampia cadenza del violino solo; lo stesso compositore ne aveva predisposta una, ma Oistrakh, basandosi sulla tradizione che lasciava al solista la realizzazione delle cadenze, ne scrisse una di proprio pugno, che lo stesso Chačaturjan disse di considerare migliore della sua, cosicché oggi gli interpreti scelgono liberamente l’una o l’altra. L’elemento folklorico è particolarmente pronunciato nel vigore e nel marcato ritmo di danza dell’ultimo tempo e quest’atmosfera popolare diventa ancora più evidente quando entra in scena il violino: a tratti sembrerebbe quasi di ascoltare il violinista del villaggio suonare durante una festa paesana, se non fosse per il virtuosismo acrobatico richiesto al solista. La sezione centrale, riproponendo il secondo tema del primo movimento, introduce una pausa in questa scatenata vivacità, che presto fa nuovamente irruzione, conducendo al pirotecnico finale, in cui Chačaturjan combina il tema del primo movimento con quello del terzo, come a chiudere il cerchio.

Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61 di Robert Schumann

Per Robert Schumann la musica si identificò a lungo col pianoforte, cui sono dedicati i suoi primi ventotto numeri d’opus, scritti tra il 1830 e il 1839 e costituiti per la maggior parte da meravigliose collane di pezzi brevi o brevissimi. Nel 1840 si gettò con entusiasmo sul Lied per voce e pianoforte, scrivendone oltre cento in un solo anno. Ma nel 1841 avvenne una svolta e rivolse la sua attenzione alle grandi forme e ai grandi organici orchestrali, componendo in pochi mesi due Sinfonie e una Sinfonietta, oltre a una Fantasia per pianoforte e orchestra. Tutti questi lavori, ad eccezione della prima Sinfonia, furono ampiamente modificati nei mesi e anni successivi. L’aver rimesso mano a questa musica scritta di getto è un indizio del rapporto tormentato di Schumann con le grandi forme e in particolare con la sinfonia, poiché i nove capolavori lasciati da Beethoven in questo campo lo affascinavano e lo spingevano all’emulazione ma allo stesso tempo gli incutevano soggezione e sgomento. Soprattutto la critica più accademica dell’Otto e Novecento riscontrava nelle sinfone di Schumann delle geniali incoerenze e qualcosa di irrisolto, che non sono però un difetto ma al contrario un elemento del loro fascino perenne. Certamente il tentativo di conciliare forme classiche e fantasia romantica, grandi strutture sinfoniche e sentimenti intimi e soggettivi era un progetto utopico, intrinsecamente contraddittorio. Tuttavia non sarebbe affatto giusto liquidare come velleitario il suo approccio alla sinfonia, poiché l’aspirazione a mete irraggiungibili, all’unificazione di ideali inconciliabili e al superamento dei limiti materiali era nella natura stessa dell’arte romantica e quindi anche della musica di Schumann, il più romantico dei musicisti romantici. Dopo il fervore del 1841, la produzione sinfonica di Schumann conobbe quattro anni di sosta e solo alla fine del 1845 iniziò a prendere forma la Sinfonia in do maggiore op. 61, che sarebbe stata completata nell’ottobre del 1846 e pubblicata come seconda, sebbene fosse in realtà la terza ad essere composta, poiché una delle due sinfonie del 1841 fu ampiamente rielaborata e venne pubblicata solamente dieci anni dopo, come Sinfonia n. 4 in re minore op. 120. Per quel che riguarda la forma, la Sinfonia n. 2 è la più classica delle sinfonie di Schumann. Che lo Scherzo preceda l’Adagio non costituisce una novità, Beethoven docet, mentre è insolito che tutti i movimenti siano nella stessa tonalità di do maggiore, tranne la prima parte del terzo movimento, che è in do minore: fu indubbiamente una scelta di Schumann per dare maggiore unità alla Sinfonia. L’introduzione, Sostenuto assai, è un solenne corale degli ottoni, che testimonia il recente interesse di Schumann per Bach. L’Allegro ma non troppo riprende liberamente la forma classica ed è caratterizzato da un’incisiva formula ritmica di quattro note, trattata con la stessa ossessività – ma non con la stessa cupa drammaticità – con cui Beethoven aveva sviluppato il “tema del destino” nella Quinta Sinfonia. A questo movimento mosso e turbolento segue uno scherzo in tempo allegro vivace. La particolarità di questo brillante e fantasioso movimento è la presenza non di uno ma di due trii.

Il primo si basa su vivaci e arguti scambi tra fiati e archi, il secondo, spirituale e rarefatto, è esposto dagli archi ed elaborato in contrappunto con antica abilità artigianale: un altro frutto dell’ammirazione di Schumann per Bach. Il meraviglioso Adagio espressivo inizia con la più struggente e schumanniana delle melodie, che tuttavia deriva da Bach ed è, quasi nota per nota, una citazione dell’offerta musicale, trasformata in un romantico canto senza parole. A questo Bach trasportato nello stile di Schumann segue un altro omaggio a Bach, quando proprio nel cuore del movimento si apre un episodio fugato. È forte il contrasto tra la delicatezza e l’interiorità del terzo movimento e la vitalità e l’energia dell’Allegro molto vivace, che esplode con una folgorante scala degli archi. Rapidamente quest’atmosfera gioiosa e fiduciosa si agita e s’incupisce, finché gli strumenti a fiato introducono il secondo tema, di toccante tenerezza e semplicità. Il ritorno dell’attacco del movimento riporta all’ottimismo, ma tutto si blocca su un potente accordo dissonante: ricompare allora il secondo tema, che con pochi tocchi Schumann trasforma in una citazione di un Lied di Beethoven. Proprio questo motivo è alla base dell’amplissima coda, con il ritorno del tema degli ottoni delle battute inziali che porta a un’apoteosi solenne e festosa.

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