“Noi intellettuali suoniamo la cetra mentre l’Occidente brucia” (Newsletter di Meotti 30.09.22)

Intervista a Siobhan Nash-Marshall, studiosa americana autrice di un romanzo sulla crisi. “Non ci resta che batterci: la verità è senza tempo e dà gioia. Impariamo dagli Armeni, che resistono”

Esce in Italia per le edizioni Ares George, il primo romanzo della filosofa e saggista americana Siobhan Nash-Marshall, docente al Manhattanville College di New York. Ispirandosi a Cormac McCarthy, Flannery O’Connor e Walker Percy (gli ultimi tre grandi scrittori religiosi americani), Nash-Marshall ci porta in un mondo contaminato da morte e distruzione, dove un misterioso Drago chiede continui sacrifici ai superstiti. I politici vogliono una tregua, fare accordi “e in un post pieno di emoji arcobaleno riferirono: ‘Il Drago negozierà se tutti si conformeranno’”. Ma c’è qualcuno che non si arrende al male che dilaga e pervade le menti: George, il cui viaggio in cerca della verità e della libertà lo porterà fuori dalla “nuova normalità” in cui gli uomini conducono esistenze opache, chiusi ermeticamente nelle loro case. Nella sua lotta contro il Drago, George incontrerà una misteriosa compagnia di uomini che lo accoglieranno e gli mostreranno un altro modo di pensare e di vivere: sarà l’inizio della sua liberazione. Già autrice del saggio per Guerini I peccati dei padri – straordinario viaggio nelle colpe europee sul genocidio armeno – Siobhan Nash-Marshall è qui a colloquio per la newsletter. E’ una delle saggiste più audaci che conosca.

Perché scegliere il romanzo e non un saggio per penetrare la crisi?

Alcuni anni fa, prima della ‘clausura’ forzata, amavo andare ai convegni, seguire i meandri delle elucubrazioni dei colleghi sui problemi più reconditi. Amavo articolare lunghe dimostrazioni forbite, con proposizioni tutte ben formulate per stabilire con precisione perché l’uno o l’altro non comprendeva il libro B della Metafisica, la Quaestio X della Summa, e così via. Amavo dibattere con i colleghi: rispondere alle citazioni di Locke, di Moore, di Cartesio, di Plantinga, di Kant, di Frege, di Wittgenstein con una falange di altre citazioni, soprattutto di San Tommaso, che le confutavano. La mia era la gioia della caccia: sentirmi i muscoli mentali messi alla prova, correre a fianco degli amici nei boschi, far parte della giostra. E noi, gli amici della giostra, ci consideravamo ‘i buoni’, quelli che ancora nel pensiero ci credono. La mia gioia ai convegni aveva però sempre una punta di amaro. Neanche durante i dibattiti più avvincenti riuscivo a scrollarmi di dosso il sospetto che noi, i pensatori di professione, i paladini della verità, gli eredi di una tradizione millenaria, stavamo suonando la cetra mentre il mondo bruciava attorno. Peggio ancora, non riuscivo a convincermi che una delle cause di quel fuoco non fosse proprio questa nostra giostra. E poi venne la ‘clausura’, e vidi con chiarezza non solo che il fuoco c’era, ossia c’è, ma che noi paladini ne siamo anche almeno in parte responsabili. Un crollo così veloce non poteva che indicare che i nostri dibattiti avevano tanto a che fare con la realtà quanto le leggendarie (e false) brioches di Marie Antoinette con la fame. Perché, allora, non scrivere un altro saggio, un altro libro, in cui articolare i perché della nostra cecità? Rispondo alla domanda con un’altra domanda: perché fare una nuova giostra? Perché rimettermi a suonare la cetra con loro? Perché non aggiungere una postilla in un dibattito accademico? La risposta è semplice: i problemi di oggi sono ovvii, concreti, reali, urgenti, e un ennesimo tomo di mille pagine scritto per pochissimi non serve.

Quale crisi culturale stiamo vivendo? Molti la sentono, anche se pochi sanno dargli un nome. Quasi un nemico oscuro, alla Tolkien.

Quello che stiamo ormai vedendo chiaramente è il collasso di una scena teatrale, lo smascheramento di una sceneggiatura, il rantolo del sogno moderno, rantolo pericolosissimo perché gli attori in scena sanno bene che l’opera è ormai giunta all’aria finale. Chi è stato convinto che lo spettacolo teatrale è la realtà non può che inorridire di fronte alle vicende di oggi: alle guerre in atto, alle guerre ignorate, ai capi di stato infantili, ai loro pronunciamenti incomprensibili, alla loro incoerenza, alla ferocia intestina dei paesi dell’Occidente, e così di seguito. E per quelli che sono stati convinti non intendo solamente gli intellettuali che nella sceneggiatura ci credono pure e tentano di tenere saldo il loro posto sul palcoscenico, di allungare l’ultimo atto, aggiungerne nuove battute. Intendo anche quelli a cui l’opera proprio non piace, ma che la credono comunque la realtà. Sono inorriditi da entrambe le parti. Gli intellettuali perché c’è chi ancora si ostina a credere che di generi ce ne sono solamente due, che il clima ha sempre avuto cambiamenti epocali, che la benzina non è la radice di tutti i mali, che ai bambini non si devono cambiare le fiabe. I contestatori perché vedono crescere le pretese degli intellettuali e le restrizioni governative. Per chi, invece, sa distinguere una scena teatrale dalla realtà, la nostra crisi non è che un’altra puntata nella battaglia di sempre. Basta leggere Platone, la Genesi, Il Libro dei Re, le Cronache, la Città di Dio, la Consolazione della Filosofia, Le Morte d’Arthur, la Divina Commedia, per riconoscerne i segni.

Il nostro “vecchio mondo” sta cedendo, ha già ceduto o ci sono fondamenta che reggeranno al sisma?

La verità dura veramente e dà veramente gioia. Lo ammetteva anche Huxley nel suo cupissimo Brave New World/Il Nuovo Mondo. Il Selvaggio, John, amava Shakespeare, per quanto scritto mille anni prima della sua nascita vivipara. Helmholtz era grato perché veniva esiliato dalla Londra eugenicamente costruita di Mustafa Mond: avrebbe finalmente conosciuto persone vere. Non è un caso che il Gorgia di Platone sembra scritto oggi, o che la Divina Commedia sembra raccontare la nostra stessa storia intima. –  Quante volte mi sono ritrovata in una selva oscura che la diritta via era smarrita? – La verità dura: è senza tempo. Dà gioia. Perché è importante questo fatto? Le fondamenta del nostro “vecchio mondo” sono il ricono­scimento dell’esistenza della verità e la ricerca di essa. Il cedimento del nostro “vecchio mondo”, quindi, non è segno di una debolezza intrinseca alle nostre fondamenta. È invece segno del nostro avere ignorato e tradito le nostre fondamenta. Ed è anche, ironicamente, dimostrazione della loro verità. Se le fondamenta non fossero vere e fonte di gioia, l’averle tradite non ci avrebbe condotto allo stagnante e cupo presente.

Ubi vita veritas.

Cos’è questo “Occidente” che tutti difendono almeno a chiacchiere?

L’Occidente è il luogo in cui confluirono la rivelazione ebraica, la filosofia greca, e la legge romana, e in cui poi nacque la capacità di comprendere che ogni uomo è per natura unico, di valore immisurabile, libero, ricercatore della felicità, e che la felicità è un attività concreta in cui l’uomo contempla e ama ciò che per natura desidera, e gli rende grazie. L’Occidente è il luogo in cui nacquero i concetti di persona, di sostanza, di diritti naturali. L’Occidente è il luogo dove la donna in quanto donna viene onorata. Di più, è il luogo dove si insegna che la più alta delle creazioni è una donna. L’Occidente è luogo dove si celebra a tal punto il valore inestimabile della persona che si considera il dare la propria vita per un altro il più grande atto di amore. L’Occidente è il luogo in cui si ama la verità e si passa la vita a cercarla giosoamente. Non è facile essere figlio dell’Occidente. È una sfida quotidiana. Vedere nell’altro sempre una persona sembra a volte impossibile, come lo è rispettare ciò che si è per natura. Non è facile amare la verità e cercarla sempre. Ecco perché l’Occidente, come Camelot, non ha luogo geografico.

Intanto prolifera indisturbata una storica nemesi della civiltà europea: l’Islam…

La proliferazione indisturbata di una dei volti della nemesi dell’Occidente all’interno dell’Europa è uno dei risultati diretti del tradimento occidentale delle proprie fondamenta: dell’avere gettato la spugna. Essere figlio dell’Occidente non è cosa per i deboli di cuore, per i viziati, per quelli che delegano ad altri la responsabilità di capire o di essere chi si è, per quelli che si crogiolano nell’essere vittima, per quelli che vorrebbero imporre ai più deboli un’ideologia, per gli ipocriti. Non lo è mai stato. Essere figlio dell’Occidente significa non chiudere gli occhi alla verità, alla realtà, ma di cercarla ed amarla con tutto se stesso, anche quando fa male. Essere figlio dell’Occidente significa proteggere ciò che è, e non avere la pretesa di poterlo sostituire con il progresso. Non vediamo, oggi, molti occidentali di spicco sul palcoscenico del mondo. Non abbiamo molti vigorosi figli della terra, come li chiamava il grande poeta armeno Daniel Varujan. Abbiamo invece molti sofisti, i Gorgia moderni, che non sembrano capire che le azioni hanno conseguenze. Quando l’imperatore Valentiniano fece assassinare Ezio condannò a morte Roma. Quando l’Europa tradì i Cristiani d’Oriente fece la stessa cosa a se stessa. Sono passati 144 anni dal Congresso di Berlino, dove le grandi potenze decisero di ignorare gli Armeni, gli Assiri, i Caldei… Sono passati 113 anni dal massacro degli Armeni ad Adana. Sono passati 107 anni da quando furono emanati gli ordini di sterminare gli Armeni, gli Assiri, i Caldei, i Greci: di cancellarli dalla faccia della terra. Sono passati 100 anni dal fuoco di Smirne. Oggi gli stessi Armeni sono ancora nel mirino dei Turchi e degli Azeri, e noi non ne parliamo neppure. Chi oggi parla dell’Artsakh?

Se i nuovi cattivi maestri avranno successo, che tipo di civiltà ci aspetta? Dove troveremo conforto? La fede? Un libro? I figli? 

I cattivi maestri stanno avendo successo da molto molto tempo sul palcoscenico del mondo. Abbiamo parlato del tradimento occidentale dei cristiani d’Oriente che risale a più di 144 anni fa. Non è il primo tradimento occidentale delle proprie fondamenta. Si pensi al vandalismo napoleonico, alla Vandea, e così via. Eppure noi siamo qui ancora oggi a cercare ed amare la verità, e a gioirne. Platone ed Aristotele dimostrarono l’esistenza di Dio. I testi sacri – per non dire i miracoli – costituiscono evidenza incredibile che ciò che la mente umana vede come impossibile è invece realtà. Il conforto È, e non passa. E la gioia che ci sorge dentro quando lo scopriamo ogni giorno basta per rendere irresistibili le persone che la conoscono.

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