Novità in libreria: Raccontami dei fiori di gelso, di Aline Ohanesian

Una storia per raccontare la tragica sorte di centinaia di migliaia di armeni. Il ricordo di una donna che diventa il ricordo di più di un milione di persone, deportate e uccise durante il genocidio pianificato dal sultano ottomano alle soglie della Prima guerra mondiale.

Raccontami dei fiori di gelso

Raccontami dei fiori di gelso

Raccontami dei fiori di gelso (Garzanti) è il tributo che Aline Ohanesian offre alla memoria di questo popolo. Scrittrice all’esordio, anche lei trova le sue origini nel popolo armeno.

Il filo rosso della storia è il ricordo. Quello di Seda, ora anziana donna che vive negli Stati Uniti, in un ricovero popolato di testimoni del massacro armeno come lei, e che fa di tutto per dimenticare. Seda ha sotterrato la memoria – e con lei la sofferenza – sotto una spessa corazza, impenetrabile persino per l’adorata nipote, che rappresenta tutto ciò che è rimasto della sua famiglia.

Ma un giorno, al ricovero, si presenta un giovane turco di nome Orhan che dice di essere alla ricerca di risposte. Suo nonno Kemal è appena morto e ha lasciato la casa di famiglia proprio a Seda. La famiglia turca non capisce perché la propria casa debba finire nelle mani di una sconosciuta, e Orhan è arrivato negli Stati Uniti per conoscere Seda e scoprire il motivo del lascito del nonno.

Orhan riesce a vincere la reticenza di Seda e a farsi raccontare tutta la storia: la storia di una famiglia di cristiani armeni, rispettata e con una buona posizione sociale, quella di un giovane Kemal, musulmano, innamorato della figlia del suo datore di lavoro, e quella di Seda, che a poco a poco scopre di ricambiare questo amore sbocciato all’ombra di un gelso in fiore.

Ma l’idillio si interrompe troppo presto. È il 1915 e il genocidio armeno ha inizio: la famiglia di Seda viene espropriata dei suoi beni e costretta a intraprendere una marcia della morte, una deportazione che costringerà la giovanissima Seda ad assistere impotente al perpetrarsi di una violenza senza senso contro il suo popolo e la sua famiglia. Il suo coraggio sarà la sola arma che le permetterà di sottrarsi alla morte, ma non basterà a cancellare le cicatrici che il dolore ha inflitto alla sua anima. La sua vita è destinata ad incrociarsi di nuovo con quella di Kemal, ma in un modo che lascia al lettore un sapore dolceamaro.

Questa è una storia che va letta perché sia possibile coglierne tutte le sfaccettature. Nell’insieme delicata, cruda quando serve, rispettosa del dolore di un popolo che ha subito un’ingiustizia spesso dimenticata: è questa la scrittura di Aline Ohanesian. Il libro alterna il racconto del passato alle azioni dei personaggi nel presente, lasciando il giusto tempo per assimilare il racconto di una tragedia che merita di essere ponderata.


Presentazione

Quando i ricordi ritornano alla mente, a volte non si è preparati ad accoglierli. Soprattutto se si è fatto di tutto per far tacere la loro voce, per nascondere le sensazioni che portano con sé. È così per Seda, che credeva di aver finalmente seppellito il passato per sempre. Ma ora è tornato e parla del paese da cui si è allontanata senza voltarsi indietro. Parla della Turchia dove affondano le sue radici, il paese di cui sente ancora il profumo delle spezie e il rumore dei telai al lavoro nell’azienda della sua famiglia. Da lì proviene il giovane Orhan, che adesso vuole delle risposte. Vuole sapere perché suo nonno, Kemal, ha lasciato la loro vecchia casa a Seda, una sconosciuta che vive in America. Lei capisce che è arrivato il momento di scendere a patti con la sua memoria e con quella colpa che non ha mai confessato a nessuno. Decide di affidare a Orhan la sua storia. La storia di lei ancora ragazzina che si innamora di Kemal all’ombra di un grande albero di gelso, i cui rami si innalzavano fino a voler raggiungere il cielo. Un amore spezzato dalle deportazioni degli armeni, all’alba della prima guerra mondiale. Un amore che ha costretto Seda a scelte difficili i cui rimpianti non l’hanno mai abbandonata. Solo con Orhan ha trovato il coraggio di riaprire quelle vecchie ferite. Di rivelare una verità da cui possa nascere una nuova speranza. Perché il passato, anche se doloroso, va ascoltato e deve insegnare a non dimenticare. Raccontami dei fiori di gelso è un esordio che ha conquistato gli editori di tutto il mondo. Venduto in 15 paesi, è stato recensito dalla stampa più autorevole. Un romanzo profondo e intenso che dà voce alla Storia quando diventa più oscura e scuote le coscienze. Un romanzo su uno dei più crudeli genocidi che l’uomo abbia mai commesso. Un romanzo in cui l’amore resiste agli urti del tempo e alle ferite della guerra.

Aline Ohanesian, nata in Kuwait da genitori armeni, vive in California con il marito e i figli. Il suo romanzo, segnalato da tutte le classifiche dei librai americani e pubblicato in tutto il mondo, è stato selezionato per il Flaherty-Dunnan First Novel Prize e finalista del PEN/Bellwether Prize for Fiction.

PARTE PRIMA
1990

1.
UN’ASCIA NELLA FORESTA

L’avevano trovato all’interno di uno dei diciassette calderoni in cortile, immerso in una tintura indaco di due tonalità più scura del cielo estivo. Le braccia e il mento erano appoggiati al bordo di rame, mentre il resto di Kemal Türkoğlu, novantatré anni, era di un grazioso azzurro pallido. A Orhan hanno detto che i vecchi del paese se ne stavano davanti al cadavere fradicio, sgranando i loro rosari, mentre i figli aspettavano stringendo in mano i dadi delle partite di backgammon interrotte. La decenza vietava che fossero presenti spettatrici donne, ma nel giro di qualche ora la notizia si era diffusa tra le cucine e tra i banchi di vendita delle botteghe. Il dede* di Orhan, nudo tranne le brache, si era immerso in una botte di tintura per tessuti fuori dalla loro casa di famiglia.

Orhan sprofonda nel sedile posteriore dell’auto privata, un lusso che si è concesso quando l’orrore di sette ore di viaggio in autobus per tornare al paese ha avuto la meglio sul dolore. Voleva piangere da solo, lontano dalle galline, dai vecchi, dai venditori ambulanti o, peggio ancora, dai conoscenti casuali che s’incontravano solitamente su un autobus diretto in Anatolia centrale. Poteva permettersi un piccolo lusso, ma l’auto si è presentata con un’ora di ritardo, l’aria condizionata guasta e il conducente che puzzava di sudore e di acqua di colonia dozzinale. Orhan si accende una sigaretta e chiude gli occhi per schermarsi dall’odore pungente.

«Va in visita alla famiglia?» chiede l’autista.

«Sì», risponde Orhan.

«È gentile da parte sua. Tanti giovani lasciano il loro paese e non vi fanno più ritorno.»

La verità è che sono passati tre anni dalla sua ultima visita. Se Dede avesse avuto il buonsenso di andarsene da quel posto sperduto, non avrebbe motivo di ritornarci, adesso. L’auto esce dalla strada principale e s’immette in una strada da poco asfaltata per dirigersi verso la città di Sivas, alla cui periferia si trova il paese di Karod. Il conducente rallenta e apre un finestrino, lasciando aleggiare all’interno del veicolo il profumo del suolo carico di aromi. Diversamente da Istanbul, la cui maestosità si riflette nel Bosforo, l’Anatolia centrale è la quintessenza dell’altra Turchia, dove è molto più difficile imbattersi in tracce di grandiosità o di progresso. Qui i pastori seguono i belati delle capre dal pelo lungo e le donne tarchiate del paese portano sulla schiena fascine di legna da ardere. Il tempo e il progresso sono parenti ormai lontani che di tanto in tanto si fanno vivi con una lettera. Le strade antiche della provincia di Sivas, che in passato facevano parte della famosa Via della Seta, sono state calpestate dai piedi degli assiri, dei persiani, dei greci e dei romani. Legno marcio, lastre di stagno corrugato e blocchi di cemento sono posati in modo precario su antiche strutture bizantine in pietra la cui complessità architettonica rievoca un passato più glorioso. Strati su strati di terra e di civiltà spazzati via dalle acque torbide del Kızılırmak, il Fiume Rosso, producono un’estetica sedimentaria. Orhan pensa al caldo insopportabile delle estati anatoliche che fa da collante per tutti quei diversi strati.

«Ha fratelli o sorelle?» chiede l’autista.

«No», risponde Orhan.

«Solo i genitori, allora?» domanda lanciando un’occhiata dallo specchietto retrovisore.

«Mio padre, mio nonno e una zia», dice Orhan guardando il paesaggio arido. Com’è possibile che, senza una struttura che vi gravi sopra, il terreno sia così pesante e l’atmosfera così compressa da rendere faticoso respirare? Sono stati proprio quei campi, oberati da una storia che non era in grado di definire, a dargli l’idea di usare per la prima volta la Leica di Dede. Intorno ai quindici anni Orhan scoprì che se sfocava abbastanza l’immagine nella lente, Karod non aveva più un’aria minacciosa. Attraverso la lente, i declivi e le valli della sua infanzia cominciarono ad assomigliare a quadri astratti, ampie pennellate di giallo e di verde, macchie nascoste di lavanda, sullo sfondo di un cielo azzurro e arancione in perenne mutazione. Solo più tardi si rese conto che imponeva un significato al mondo a seconda di come sceglieva di catturarlo. Quelle prime fotografie erano simili a farfalle sospese su lastre di vetro.

«Sono cresciuto vicino a Sivas», continua il conducente. «Qual è il suo cognome? Magari lo conosco.»

In Turchia non si può sfuggire a questo bisogno costante di trovare una reciproca collocazione. Era una delle poche cose che Orhan amava di quando viveva in Germania: l’anonimato. «Türkoğlu», dice infine.

L’espressione dell’autista, incorniciata nello specchietto retrovisore, cambia. «Le faccio le mie condoglianze. Kemal Bey era un uomo straordinario. È vero che ha combattuto a Ctesifonte?»

Orhan annuisce facendo un altro tiro dalla sigaretta.

«Non ci sono più persone così. Quella generazione era piena di uomini veri. Hanno combattuto contro tutta l’Europa e la Russia, hanno fondato una repubblica e messo in piedi intere industrie. Mica male, eh?»

«Sì», ammette Orhan. «Mica male.»

«Il giornale sostiene che si è immerso nella tintura a scopi medici», dice il conducente.

Non è la prima volta che Orhan sente questa teoria assurda. È una storia inventata dalla sua astuta zietta, non c’è dubbio. Benché Dede fosse un eroe venerato della prima guerra mondiale, divenuto poi uomo d’affari, era anche un personaggio eccentrico che viveva in un luogo in cui le eccentricità andavano spiegate o insabbiate.

In paesi come Karod ogni persona, oggetto e pietra devono avere una specie di rivestimento, uno strato protettivo fatto di tessuto, mattoni o polvere. Gli uomini e le donne si coprono la testa con zucchetti o veli. Questi modelli di decenza si applicano anche agli animali, ai discorsi, alle idee. Perché la morte di Dede avrebbe dovuto costituire un’eccezione?

L’auto svolta a sinistra in una strada ghiaiosa con delle buche che conduce all’interno. Orhan cerca il palo di legno che un tempo indicava il nome del paese in discrete lettere bianche dipinte a mano, ma non lo trova da nessuna parte. Un ragazzino con una camicia arancione brillante e corti pantaloni verdi cammina dietro una mandria di vacche. Con un lungo ramo le spinge per la groppa, dirigendole in uno dei numerosi e stretti vicoli che s’infilano tra le case incrostate di fango.

«È qui?» chiede l’autista.

«Sì», dice Orhan. «Segua questa strada finché non vede la casa con le colonne grandi.»

Il rumore della ghiaia che scricchiola cessa quando l’auto si ferma. Orhan spegne la sigaretta. Sente il canto lamentoso delle prefiche e il loro ritmo lo attira fuori dalla macchina: due, forse tre, voci femminili cariche di una specie di dolore e vulnerabilità che si sviluppano solo con la pratica. La casa di famiglia a due piani sarebbe, secondo qualsiasi standard, una vecchia rovina scrostata, ma in questa zona depressa e dimenticata dell’Anatolia centrale è considerata solida e grandiosa. Uno strato sottile di intonaco color senape avanza e retrocede su pietre grigio gesso tagliate a mano, che a Orhan ricordano un frutto rinsecchito e sbucciato a metà. La casa di aspetto vittoriano, completa di soggiorno e scantinato, è il luogo di nascita della Tarik Inc., che aveva esordito come un insieme di laboratori e che, negli ultimi sessant’anni, si è trasformata in una fabbrica automatizzata dedita all’esportazione di tessuti fino all’Italia e alla Germania. Secondo la leggenda familiare, tra queste mura in rovina il bisnonno di Orhan aveva tessuto un kilim per il sultano in persona. Questo era accaduto prima che l’impero diventasse una repubblica, prima che la democrazia e l’occidentalizzazione rivoluzionassero il significato dell’essere turchi. Nel cortile a sinistra della casa gli enormi calderoni di rame fanno la guardia alla struttura in sfacelo. Nel corso dei decenni sono passati dal contenere la tintura per i tessuti all’ospitare i bambini che giocano a nascondino e al conservare le ceneri dei narghilè e delle sigarette. Questi recipienti hanno custodito molti pezzi e frammenti della vita di Dede e forse è giusto che abbiano accolto anche il suo ultimo respiro.

Orhan intreccia un sentiero familiare attorno ai calderoni. Tutti vuoti tranne uno che contiene un intruglio scuro simile a tintura, apparentemente più nero che blu, il colore di un addio.

Sopra l’intelaiatura di legno della porta principale, un arco di pietra con incise una scritta indecifrabile e la data 1905 accoglie gli ospiti in un’altra dimensione temporale. Nessuno sa davvero che cosa proclamino quelle lettere sopra la porta o in quale lingua siano scritte. Orhan china il suo metro e ottanta di statura per infilarsi in casa e tuffarsi in un mare di abitanti della città e del paese venuti a rendere omaggio e a pascersi di cibo e pettegolezzi. Il capo delle prefiche – una donna ricca, a giudicare dai denti d’oro – orchestra un’atmosfera potente di lamenti intonando un canto del Corano.

«È annegato», sussurra qualcuno.

«Se è annegato perché non ha il viso blu?» chiede un altro.

«Guarda come ha piegato ordinatamente i vestiti», dice un altro ancora, come se ciò dimostrasse qualcosa.

«A quanto pare, la tintura medica fa furore a Istanbul.»

«È sempre stato un uomo in anticipo sui tempi.»

Orhan riconosce solo una manciata di persone nella stanza. Chiunque abbia un po’ di buonsenso o di prospettive ha abbandonato Karod da tempo, liberandosene come di una giacca che gli stava stretta. Pochi uomini e donne anziani, i genitori invecchiati dei suoi amici d’infanzia, persone che gentilmente chiama zia e zio, gli fanno dei buffetti in faccia e gli stringono la mano. Le ragazze del paese, nessuna delle quali ha più di vent’anni, si aggirano per la stanza offrendo tè e biscotti su vassoi di plastica, la testa coperta da veli neri che incorniciano palpebre abbassate per pudore. Sotto i vestiti di cotone dai colori sgargianti indossano i tradizionali calzoni cascanti, gli şalvar. Orhan crede di riconoscerne una o due. Improvvisamente consapevole del suo abito e dei suoi mocassini italiani, afferra una tazza di tè e si dirige in soggiorno, dove ogni superficie piana – i tavoli, la libreria, le mensole del camino e persino la televisione – è ricoperta di centrini fatti a mano. I loro intricati disegni geometrici e floreali in varie sfumature di beige conferiscono una certa decenza a ogni superficie orizzontale esposta.

Una ragazza giovane, affiancata su entrambi i lati da donne più mature – tra le quali riconosce la sensale di matrimoni del paese –, gli porge in silenzio un vassoio di baklava*.

«Mashallah», dice la sensale con ammirazione, scandagliandolo con gli occhi per tutta la lunghezza del corpo. «Abbiamo saputo che ha noleggiato un’auto privata.» Fa un cenno solenne di compiacimento con la testa. Mentre la ragazza alla sua sinistra tiene gli occhi incollati al vassoio di plastica con i dolci, gli rivolge un sorriso cospiratorio. Orhan alza una mano per protestare, sicuro che il gesto sia sufficientemente universale per declinare sia il baklava che la ragazza.

Sei anni prima, quando Orhan era tornato per la prima volta dalla Germania, le stesse «ziette» lo scansavano come un lebbroso. Lo chiamavano «comunista» alle spalle e, a volte, anche in faccia. Adesso fanno sfilare le loro figlie nubili davanti a lui e fantasticano di diventare la suocera del nipote prodigo e dell’uomo d’affari di successo. La combinazione del loro disprezzo e di quello di suo padre l’aveva spinto a stabilirsi a Istanbul, dove nessuno sapeva nulla del suo passato. Per i suoi amici in città, la permanenza di Orhan in Germania non era stata un esilio forzato e vergognoso, ma una tappa legittima della formazione di un uomo ricco.

La ragazza è ancora in piedi davanti a lui e regge imbarazzata il vassoio di baklava tra le mani callose, che sembrano molto più vecchie di lei. Queste ragazze sono di una specie completamente diversa rispetto alle gazzelle che costituiscono l’élite sociale di Istanbul, una folla moderna di cui fa parte anche l’ex fidanzata di Orhan, Hülya. Forse, vista l’eredità imminente, Orhan potrebbe fare una corte serrata a Hülya, con il suo eccellente lignaggio e l’abbronzatura perfetta, nel modo in cui era abituata, e riconquistarla. Benché in base alle leggi turche sulle successioni la maggioranza del patrimonio di Dede debba andare senza dubbio a quell’incapace di suo padre, Orhan è certo che gli spetterà qualcosa. Hülya potrebbe trasferirsi nel suo appartamento, le cui pareti antiche sono coperte da quella che gli amici snob di lei reputavano grande arte. Avrebbe dovuto comprare una vetrinetta per tutte le sue adorate reliquie dell’Occidente: un piatto da collezione con la faccia di Lady Diana al centro e la sua raccolta di album dei Duran Duran esposta in grande evidenza sullo scaffale. Tutti i sintomi del capitalismo occidentale senza le sue fastidiose virtù, tipo la libertà di espressione o i diritti delle minoranze.

Orhan beve quel che resta del tè, posa la minuscola tazza sul vassoio di baklava della ragazza e si sposta nel salotto, dove c’è meno ressa. Nella stanza ci sono solo tre persone: sua zia, suo padre e un uomo in abiti moderni in cui riconosce l’avvocato di Dede. Siedono in un silenzio impacciato che non viene disturbato nemmeno dal suo arrivo alla porta. La zia Fatma è seduta contro il muro in fondo, con il suo solito abbigliamento – un vestito scuro da contadina a maniche lunghe di viscosa sugli şalvar sformati –, e fa del suo meglio per restare invisibile. Orhan è sorpreso dal velo di cotone nero che le copre la testa e le incornicia il volto, simile a una prugna secca. Sebbene sia abitudine per le donne del paese di una certa età coprirsi la testa, sua zia non è mai stata il tipo da seguire le convenzioni.

Fatma tiene in equilibrio sulle ginocchia un grande vassoio d’alluminio e intanto svuota all’interno una dozzina di minuscole zucche. Le sue mani lavorano a un ritmo serratissimo, ma Orhan sospetta che ascolti con grande attenzione ogni parola detta. Si china e le dà un rapido bacio sulla guancia. Quando lo vede, la sua faccia si apre in un sorriso e rivela una bocca piena di denti d’oro. Orhan occupa in silenzio il posto più vicino a lei. La luce rimbalza dal vassoio alla sua bocca dorata e viceversa. Nell’aria aleggia odore di aglio e di peperoncino rosso. Fatma infila polpette di manzo tritato all’interno di ogni ortaggio, le gambe larghe per tenere fermo il vassoio. Le zucche gialle e verdi rilucono come gemme in una scatola di gioielli. Istintivamente, la mano di Orhan corre al centro del torace dove una volta teneva appesa la macchina fotografica, prima di ricordarsi che non ne ha una con sé. È un riflesso automtico che non si manifesta quasi mai a Istanbul, dove vive ora. Il suo corpo rammenta ancora quell’oggetto perduto da tempo come l’arto reciso di un amputato.

Probabilmente la sua Leica è in casa da qualche parte. Orhan non la usa da quando è stato arrestato, dodici anni fa, e non vuole nemmeno vederla. È un’amante esperta. Se si avvicinasse ancora a lei e premesse con un dito deciso il pulsante dell’otturatore, lei lo aprirebbe quel tanto da permettere alla luce di penetrare e poi lo chiuderebbe di nuovo. Produrrebbe quel suono familiare e inebriante, a metà strada tra un colpo secco e un gemito, e aspetterebbe di essere ricaricata da lui. Indubbiamente quell’azione sarebbe divina, ma finirebbe male. Finiva sempre male. L’ultima volta che aveva scattato una fotografia a Karod, il paese stava affrontando il colpo di stato militare del 1980. Orhan aveva solo diciannove anni. Era il contrasto stridente dei colori e della trama a interessarlo. Era così concentrato su quelle astrazioni da non riuscire a vedere il mondo circostante. Lo faceva la Leica, che gli rubava tutta la prospettiva.

Sì, molto meglio tenersene alla larga.

Orhan si sforza di non guardare suo padre seduto all’angolo opposto, sulla sedia preferita di Dede. Tiene un bastone in equilibrio sulle ginocchia e sgrana un komboloi, il rosario che gli pende dalla mano sinistra. È metà agosto e, come sempre, Mustafa Türkoğlu è vestito secondo gli standard rurali: zucchetto beige, camicia in tessuto Oxford, maglione senza maniche e una giacca sportiva di lana grigio scura combinata con gli şalvar sformati. Orhan non ricorda un periodo in cui suo padre non fosse vestito così. Il caldo soffocante del sole dell’Anatolia filtra attraverso la finestra, minacciando di risucchiargli l’ossigeno dai polmoni, ma suo padre resta seduto imperturbabile. Nulla, nemmeno la morte del genitore e tantomeno un po’ di caldo, può produrre il benché minimo cambiamento in quell’uomo.

Mustafa non si accorge della presenza di Orhan. I suoi occhi, due piccole biglie dure e piene di disprezzo, fissano dritto davanti a sé. Probabilmente è la posizione che ha assunto per tutta la giornata, durante il lungo servizio funebre e gli interminabili lamenti delle prefiche, la processione delle strette di mano e dei volti afflitti. Quando gli ospiti se ne vanno, torna a essere l’uomo rissoso di sempre. In tutti quegli anni di esilio era suo nonno che lo aveva sostenuto, gli aveva scritto lunghe lettere e aveva accettato le sue telefonate. Che ironia restare con suo padre, un ometto rabbioso la cui pelle bruciata dal sole si è indurita come il suo cuore.

Il notaio di Dede si schiarisce la voce. A Istanbul deve avere una bella scrivania di mogano, ma oggi il dottor Yılmaz è stato relegato su una sedia di legno dallo schienale dritto, così piccola che con le ginocchia praticamente si tocca il petto. È una testimonianza della notevole capacità che ha Mustafa di soggiogare il prossimo.

«Posso cominciare?» chiede il notaio.

Il padre di Orhan fa un cenno con la testa.

«Alla mia morte», legge il notaio, «lascio in eredità il palazzo di Nişantaşı a mio figlio Mustafa, con la clausola che mantenga la nostra amata Fatma Cinoğlu per tutta la sua vita.»

La zia Fatma non reagisce quando viene menzionato il suo nome. A capo chino, continua implacabile a farcire le zucche.

«La totalità del mio patrimonio, incluse le fabbriche tessili di Ankara e Izmir, oltre che tutte le altre proprietà e gli altri beni appartenenti alla Tarik Incorporated, sarà affidata a mio nipote, Orhan Türkoğlu.»

Queste parole investono Orhan come una secchiata d’acqua calda. Orhan si sente galleggiare nel loro calore e la tensione nei suoi muscoli si rilassa. Tranne che per il rumore della zia Fatma che raschia, il mondo e tutti i suoi suoni annegano nelle sillabe che scorrono dalle labbra del notaio. Ecco come ci si sente a essere riconosciuti. Ora l’azienda è completamente sua. Non è ciò che si aspettava. Poiché le leggi di successione turche sono ancora pesantemente influenzate dalla Sharia islamica, potrebbe anche non reggere in tribunale, ma è quello che suo nonno voleva.

Mustafa si china in avanti sulla sedia di Dede e, stringendo il bastone con entrambe le braccia, ha l’aria di un uomo sul punto di affogare. Ha le labbra serrate, come se trattenesse il respiro. Le parole di Dede contengono il disprezzo, che dura da una vita, di un padre per il figlio e, per un frammento di secondo, Orhan prova pena per lui.

«Infine, lascio in eredità la casa di famiglia ubicata nel paese di Karod a…» Il notaio fa una pausa, si guarda attorno nella stanza, fissando le persone una a una prima di procedere. «Alla signora Seda Melkonian.»

“Chi?”

«Che bastardo», dice il padre di Orhan. «Figlio di puttana!»

Orhan non capisce bene alla madre di chi siano diretti quegli insulti: se alla sua, a quella del notaio o a quella di Dede. O forse a tutte le madri, ovunque.

«Chi?» Orhan sente sé stesso chiedere.

«Tu ascoltami, pezzo di merda.» Mustafa si rivolge al legale facendo schizzare la saliva dai baffi. «Quel testamento te lo spingo su per il culo fino a fartici fare i gargarismi!»

Orhan prova una sensazione di nausea. Deve assumere il controllo della situazione, calmarsi e concentrarsi. Com’è possibile che Dede cacci sua zia e suo padre dall’unica casa che abbiano mai conosciuto? Orhan si alza e si guarda attorno nella stanza, esterrefatto.

«Non ha senso», dice.

 

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