Percorsi positivi in Nagorno Karabakh (Osservatorio Balcani e Caucaso 25.01.19)

Non soffiano ancora venti di pace sul processo di risoluzione e pacificazione del conflitto in Nagorno Karabakh, ma sicuramente aria di novità. Il neo eletto governo di Nikol Pashinyan, fresco della conferma dalle urne e del consenso che lo sostiene sta tentando un avvicinamento cauto a Baku, che gli fa sponda.

Il lavorio diplomatico

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliev si sono incontrati il 22 gennaio scorso a Davos, nell’ambito del World Economic Forum, per parlare del conflitto in Karabakh, regione secessionista armena sottrattasi dal 1994 al controllo di Baku. Non è la prima volta che a latere di un evento diplomatico multilaterale i due si ritagliano un incontro rigorosamente bilaterale. Era già successo a Dushanbe, durante la riunione del CIS, e poi di nuovo a Pietroburgo, in un’analoga circostanza. E poi ci sono stati i numerosi incontri dei numero uno dei rispettivi ministeri degli Esteri.

Dall’assunzione dell’incarico il ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan ha incontrato l’omologo azerbaijano Elmar Mammadyarov quattro volte, di cui l’ultima volta a Parigi il 16 gennaio scorso. Un incontro durato ben quattro ore e definito molto proficuo dai copresidenti del Gruppo di Minsk per la regolamentazione del conflitto congelato dal 1994, cioè Francia, Russia e Stati Uniti. Si leggono nel comunicato stampa  parole che non si sentivano pronunciare da più di un decennio in riferimento alle posizioni delle parti: “I ministri hanno discusso un’ampia gamma di questioni relative alla risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh e concordato sulla necessità di prendere provvedimenti concreti per preparare le popolazioni alla pace. Durante le riunioni, i copresidenti hanno esaminato con i ministri i principi e i parametri chiave per la fase attuale del processo di negoziazione […] e hanno preso in considerazione i prossimi passi verso un possibile vertice tra i leader dell’Azerbaijan e dell’Armenia con lo scopo di dare un forte impulso alla dinamica dei negoziati”.

Quindi una valutazione delle proposte avanzate finora, la pianificazione del futuro lavorio diplomatico al massimo livello politico, e – finalmente e forse – la moderazione di quella propaganda nazionalista e violenta che ha reso le popolazioni ostili a qualsiasi compromesso, senza il quale nessuna pace può essere raggiunta. Più volte, proprio sulle pagine di OBC Transeuropa, è emerso come la questione del linguaggio dell’odio stia contribuendo attivamente al deterioramento della sicurezza e delle prospettive di pace, ad esempio nei due articoli Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio e Arzu Abdullayeva: donna di pace tra Azerbaijan e Armenia.

Le reazioni

Nel contesto di relazioni internazionali tese e complesse, un segno positivo in un’area di così grandi criticità è stato accolto con viva soddisfazione e speranza. Ed è proprio il Segretario Generale ONU António Guterres ad aver commentato  con una sua dichiarazione pubblica il 17 gennaio il lavoro diplomatico in corso elogiando il costante impegno delle parti a trovare una soluzione negoziata e pacifica al conflitto e accogliendo con particolare favore l’accordo dei ministri azerbaijano e armeno sulla necessità di adottare misure concrete per preparare le popolazioni alla pace. La dichiarazione della massima carica dell’ONU è un tassello importante per capire quanto il processo in corso possa essere qualcosa di sostanziale.

Alle parole di Guterres hanno fatto seguito le dichiarazioni europee. Il Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso Meridionale Toivo Klaar ha scritto sul suo profilo twitter che “preparare le popolazioni per la pace è fondamentale e l’UE è impegnata a sostenere questo processo”.

Lo European Union External Action Service  di Federica Mogherini ha ribadito la posizione dell’Unione e l’importanza della questione del Karabakh per tutta la regione, sottolineando che tutti trarrebbero beneficio da una pace duratura che contribuirebbe a consentire alla regione del Caucaso meridionale di realizzare il proprio potenziale.

Se la comunità internazionale è unanime nell’accogliere la possibilità di costruire la pace, il tema delle concessioni necessarie al raggiungimento di un compromesso ha acceso il dibattito a livello nazionale. In Armenia sono i Repubblicani in particolare a punzecchiare il governo. Il vice-presidente del partito Armen Ashotyan dal suo profilo Facebook ha posto cinque domande al nuovo governo, accusandolo già di aver tradito le promesse fatte, in particolare quella di riportare le autorità de facto del Nagorno Karabakh al tavolo negoziale, dando così legittimazione politica internazionale alla loro esistenza.

Un campo minato

Nagorno Karabakh – mappa OBC – In verde è indicato il territorio che la regione autonoma del Nagorno Karabakh occupava in epoca sovietica, in giallo i territori occupati dalle autorità de facto di Stepanakert e a cui si fa riferimento nei “principi di Madrid”

Che costruire la pace in Nagorno Karabakh e fra Armenia e Azerbaijan non sia una passeggiata è evidente, e non solo per le dichiarazioni dell’opposizione politica interna nei due paesi interessata ovviamente a screditare l’azione di governo su un tema così avvertito e delicato. La fiducia fra i due paesi passa sotto il fuoco incrociato, letteralmente: il cessate il fuoco viene violato quotidianamente lungo una linea di contatto fra eserciti che ormai si insinua entro i confini di stato riconosciuti, tra Armenia ed Azerbaijan, e non solo lungo la linea che demarca il confine de facto del Karabakh. Sono state 180 le violazioni del cessate il fuoco registrate dalle autorità della regione secessionista  solo dal 13 al 19 gennaio di quest’anno, corrispondenti ad una pioggia di 1300 proiettili, e nel solo weekend del 19 gennaio il ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha registrato una settantina di violazioni  . E questo è considerato un periodo di netta distensione militare.

Un campo minato mai sanato, il Karabakh, anche in questo caso letteralmente. Se si continua a sparare, si continua anche a morire o rimanere feriti per le mine disseminate trent’anni fa. L’ultimo caso il 16 gennaio scorso quando Arman Mikaelyan, residente a Tavush, ha perso una gamba a causa di una mina  .

Una diffidenza che passa non solo per il fuoco, ma anche per tutta una serie di misure restrittive. Sono chiusi ad esempio i confini tra Armenia e Azerbaijan ed è limitata la libertà di movimento, con un numero crescente di soggetti coinvolti, incluse cittadinanze terze. È di questi giorni poi la polemica fra Russia e Azerbaijan riguardante cittadini russi di origine armena che non sarebbero stati ammessi nel paese. La Russia ha denunciato  una violazione della normativa vigente per motivi di discriminazione etnica. L’Azerbaijan ha risposto  che a fronte di numerosi russi regolarmente accolti non accetta né critiche né ultimatum. Toni inusitatamente ostili fra i ministeri degli Esteri dei due paesi che dimostrano come il vecchio conflitto si innesti in dinamiche tutte attuali e contribuisca a estendere l’area di tensione.

Un campo minato da bonificare, e una strada verso la pace che è tutta in salita. Ma – dopo una decade in cui si è parlato più di guerra che di pace – pare che almeno su questa strada si stia provando a incamminarsi.

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