Piano Mattei, c’è scritto Azerbaijan ma si legge Norvegia (Lospacialegiornale.it 27.02.23)

Diversificare i partner per evitare di ritrovarsi in futuro in “relazioni tossiche” monogame come quella con la Russia. È questa la strategia del Piano Mattei, con il quale Giorgia Meloni sta ricostruendo la politica energetica dell’Italia. Dopo gli accordi raggiunti dall’Eni con Algeria e Libia è ora il turno dell’Azerbaijan, la cui produzione di gas dovrebbe aumentare grazie al rafforzamento del gasdotto Tap.

A regime il Tap – che sta per Trans Adriatic Pipeline – sarà in grado di trasportare 20 miliardi di metri cubi di gas a fronte dei 10 attuali, segnando un altro punto importante nella politica di emancipazione da Mosca, che nel 2022 ci ha fornito 13 miliardi di metri cubi di gas, meno della metà di quanti ne erano stati pompati nel 2021. La domanda è; ma siamo sicuri che rifornirsi dall’Azerbaijan significa davvero allontanarsi da Putin? La realtà, come spesso accade quando si parla di equilibri geopolitici, è più sfumata.

Dall’agosto scorso infatti la guerra a bassa intensità con l’Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh è di nuovo esplosa, dando vita a scontri che finora sono passati quasi del tutto inosservati perché le preoccupazioni della stampa erano tutte rivolte all’Ucraina. Un grave errore, perché proprio sull’Armenia la Russia continua a esercitare una forte influenza, mentre Baku si fa appoggiare dalla Turchia. Uno degli elementi più critici è lo status del Naxçıvan, una regione autonoma politicamente parte dell’Azerbaijan che però si trova nel territorio dell’Armenia, del tutto separata dal paese di appartenenza. Una situazione insomma persino più complicata di quella del Donbass. Il conflitto territoriale è poi complicato da questioni religiose, perché l’Armenia è un paese a maggioranza cristiana, mentre l’Azerbaijan è per il 96% musulmano. Ci sono insomma tutti gli ingredienti perché in questa area del Caucaso scoppi l’ennesimo conflitto in un territorio ex sovietico. E ora anche gli americani hanno cercato un coinvolgimento: il 18 febbraio, alla conferenza di pace di Monaco, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha favorito un incontro tra i leader di Armenia, Azerbaijan  e Georgia, il primo dal crollo dell’Urss.

Ecco perché il piano della Meloni, basato sull’affidabilità di paesi martoriati dalla guerra civile (la Libia), alle prese con conflitti territoriali (l’Azerbaijan) o in pessimi rapporti coi vicini (l’Algeria con il Marocco), rischia di dimostrarsi molto meno solido di quanto sembri.

È forse per questo che, senza i grandi strombazzamenti mediatici che hanno accompagnato gli annunci di accordi con questi governi, l’Italia si sta in realtà avvicinando a un altro partner, che certo non entusiasmerà i sovranisti nostrani ma promette di essere parecchio più affidabile. Parliamo della Norvegia, le cui forniture di gas sono aumentate in un anno del 353%, passando da 1,6 miliardi metri cubi a 7,4. La premier non ha motivo di parlarne perché Oslo, anche se non fa parte della Ue, è associata dal suo elettorato a quell’Europa nordica e “frugale” cui il nostro esecutivo si contrappone, e anche perché rifornirsi di gas che arriva dal Nord è in contrasto con l’immagine dell’Italia potenza mediterranea che si sta cercando di affermare. Ma c’è da star certi che le forniture dalla Norvegia non sono messe a rischio da lotte intestine, rischio di tensioni al confine con la Svezia o disordini interni. Quanto basta per inserirla, anche se senza metterla in copertina, nel piano Mattei.

Vai al sito