Quando un armeno persiano portò a Trieste il primo bagno pubblico (Triesteallnews 08.05.21)

08.05.2021 – 08.30 – Il nome della dinastia Hermet, il cui ultimo esponente Gabrio Hermet si è spento il 6 maggio 2018, viene solitamente associata alle fortune proto irredentiste di quel “Francesco” al quale non a caso nel novecento venne intitolata una via. In realtà piace ricordare come lascito della – un tempo – nutrita comunità armena triestina un’altra innovazione, a fine settecento: i primi bagni pubblici della città, tanto di acqua dolce, quanto di mare.
In origine ugonotti fuggiti in Persia dopo la revoca dell’editto di Nantes, gli Hermet scelsero di trasferirsi nella seconda metà del Settecento da Isfahan a Trieste, dove Gregorio Hermet (1741-1803) fu tra i pochi immigrati armeni che seppe amalgamarsi bene con la popolazione, ponendo le basi di una dinastia plurisecolare.
Venne così inaugurato, nell’ultimo quarto del settecento, il primo bagno pubblico “ad uso de’ Levantini”. Si trattava di una “fabbrica decorosa, comoda e dispendiosa” costruita nella zona della casa di Piazza San Giovanni n. 6 nel 1777 da Gregorio Hermet definito nei documenti del tempo “persiano di nazione armena”. Hermet volle costruire il bagno pubblico “considerando l’utilità e necessità pubblica per tener netti ed in salute li corpi umani e secondo le orientali costumanze”.
Il giornale L’Osservatore Triestino (1786) pubblicizzava questi “bagni sia all’europea che all’orientale, forniti di ottima biancheria e de’ comodi occorrevoli” garantendo che “ciascheduno rimarrà contentissimo della servitù che gli verrà prestata”.
Il bagno pubblico di Hermet perdurò per vent’anni almeno, affiancato nel 1782 da una “Caffettaria e Osteria”.

Tra gli stabilimenti che raccolsero l’eredità di Hermet nella prima metà dell’ottocento occorre ricordare il bagno Oesterreicher che s’impose rapidamente, dopo il 1823, come uno tra i più lussuosi. Il nome derivava dal proprietario dei fondi, Federico Oesterreicher; era uno stabilimento fornito “di decenti camerini provveduti di vasche marmoree”. Oggigiorno lo possiamo collocare in Salita del promontorio n. 5, tra Via del Lazzaretto Vecchio e Androna Sant’Eufemia.
L’edificio era stato progettato dall’architetto friulano Giovanni Battista de Puppi (1769-1868) con un giardino interno con due fontanelle, dotato di “bella e deliziosa vista” sul mare; l’architettura della facciata conserva ancora, nonostante sia dal ‘900 un magazzino, tracce della perduta eleganza neoclassica. Lo stabilimento offriva bagni d’acqua dolce e marina, calda e fredda; dopo aver rilassato le membra era possibile rifocillarsi nella vicina trattoria che forniva “le più gustose vivande, squisiti vini e birra”. Qui nacque il musicista Giuseppe Rota, figlio del locandiere; secondo la leggenda musicale intratteneva i clienti col suono della fisarmonica.

Ritratto di Francesco Hermet (1811-1883), dal Civico Museo del Risorgimento

L’amore dei triestini per i bagni – che fossero di mare o in acqua dolce – era sempre stato limitato a Trieste all’insufficiente approvvigionamento idrico che venne risolto solo negli anni Trenta (acquedotto dalla Val Medeazza, 1929), non a caso periodo d’oro per tanti bagni pubblici triestini.
Tuttavia, sull’onda dei consigli di medici e salutisti, già nella seconda metà dell’ottocento la città si popolò di istituzioni balneari, solitamente annesse agli alberghi; è il caso dell’Hotel de la Ville e dell’Hotel Garni. Presso il famoso de la Ville operavano, a inizi ‘900, bagni a vapore, russi e turchi. Nelle vicinanze di Via Giulia n. 8 era invece presente uno stabilimento “idroterapeutico” con bagni a vapore russi e inglesi.

La Belle Époque – quel periodo storico oggi tanto bistrattato, ma i cui begli edifici ancora innervano il nostro tessuto cittadino – regalò a Trieste il Bagno Romano, inaugurato il 12 dicembre 1909 dal magiaro Arpad Kiss tra le vie S. Apollinare e Pondares.
La zona era stata una necropoli durante il secondo secolo d.C. e nei decenni a cavallo tra settecento e ottocento aveva ospitato il cimitero della Comunità Greco-Illirica. Gli scavi infatti svelarono importanti resti romani che prontamente fornirono il nomignolo per l’edificio. Come le terme dell’antica Roma, il Bagno costituiva una piccola cittadella a sé stante. Vi si trovavano buffet, sale di lettura, barbiere, manicure, pedicure, spogliatoio, cabine con vasche all’americana, due piscine con acqua fredda e calda in movimento, docce a pressione, un locale per il massaggio, il bagno russo con una gradinata che permetteva la gradazione delle temperature, due sale per il bagno di aria calda e infine un salottino per il riposo.
L’arredamento era particolarmente opulento, con decorazioni nelle sale e piscine di Silvio Buzzi, mobilia di Salcano e maioliche della ditta Greinitz. Chicca finale: una lavanderia a vapore garantiva un servizio di lavatura e stiratura dei vestiti del cliente, mentre questi si rilassava nelle vasche.

Nel 1930 lo stabilimento offriva anche una sezione di Cura, con attrezzature per l’idroterapia, la termoterapia (bagni di luce e di fango) e le fangature. Quest’ultime erano eseguite coi fanghi originali delle Terme Preistoriche di S. Pietro Montagnon (Padova).
Dopo una momentanea pausa per i danni inferti dalla Seconda Guerra Mondiale, il Bagno Romano riaprì il 15 febbraio 1951 rinnovato con due nuove piscine, aria condizionata e un impianto di acqua distillata e depurata. Il rinnovato bagno a vapore, le oltre 250 cabine, le sale di riposo, di lettura, di massaggi e pedicure recuperavano l’eredità primo novecentesca, mentre la sezione Cura con i bagni di luce e la marconiterapia era aggiornata con le ultime novità scientifiche.
In definitiva questo “primo istituto di bellezza e ginnastica correttiva” era giustificato nel definirsi lo “stabilimento più grande e più bello d’Italia”.
Eppure ebbe vita breve: chiuse infatti appena sei anni dopo, nel 1957.

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