Relazioni normalizzate tra Armenia e Turchia: auspicabile ma difficile (Osservatorio Balcani e Caucaso 24.01.22)

In una seduta parlamentare del 13 dicembre, il ministro degli Esteri turco Mevlut Çavuşoğlu ha dichiarato  che Armenia e Turchia sono in procinto di compiere passi decisivi per la normalizzazione delle relazioni bilaterali. Il giorno seguente, Vahan Hunanyan, portavoce del ministero degli Esteri armeno, ha confermato  . Le parti hanno nominato inviati speciali come primo passo in tale direzione e concordato l’inaugurazione di una rotta di voli charter tra Istanbul e Yerevan.

In precedenza, il 27 agosto, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva affermato  , durante una seduta di governo, che l’Armenia avrebbe risposto a segnali pubblici positivi da parte della Turchia con altrettanti segnali positivi e sostenuto una riconciliazione “senza precondizioni”. Nello stesso periodo, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan aveva rilasciato un’intervista  dove sosteneva che, qualora il governo armeno fosse stato disponibile, i due paesi avrebbero potuto normalizzare gradualmente le relazioni bilaterali.

Una ferita centenaria mai sanata

Alla base dei rapporti ostili tra i due paesi vi è la memoria storica del genocidio armeno. Con questa espressione si definiscono i massacri perpetrati dall’Impero ottomano ai danni della popolazione armena tra il 1915 e il 1923; una tragedia costata 1,5 milioni di morti e che Ankara tutt’oggi rifiuta di riconoscere con quel termine, “genocidio”, fatto proprio dalla risoluzione 260 A (III) dell’ONU. La campagna per il riconoscimento del genocidio è stata una delle priorità di politica estera della repubblica armena sin dall’indipendenza. A tal fine, Yerevan si è avvalsa della mobilitazione della “spyurk”, la numerosa diaspora armena presente in molti paesi del mondo.

Ad oggi soltanto 33 paesi hanno riconosciuto il genocidio armeno. Ciò si deve soprattutto al timore di eventuali effetti sui rapporti con Ankara, dato il suo peso economico e geopolitico. James Jeffrey, ex-ambasciatore americano in Turchia, osservò  che “ogni decisione degli Stati Uniti in merito alla classificazione degli eventi del 1915 come genocidio potrebbe provocare una tempesta politica nel paese e gli effetti sulle relazioni bilaterali, incluse quelle politiche, militari e commerciali sarebbero devastanti”. Il persistente negazionismo turco del genocidio causò, tra varie conseguenze, un’onda di attentati terroristici dell’ASALA, organizzazione armata armena che, tra il 1975 (sessantesimo anniversario del genocidio) e il 1986, uccise oltre 30 diplomatici turchi in tutto il mondo.

Dopo aver visto svanire l’esperienza della prima repubblica tra il 1918 e il 1920 e aver vissuto sette decenni in seno all’Unione Sovietica, il 21 settembre 1991 l’Armenia è diventata indipendente. Sebbene la Turchia sia stata uno dei primi paesi a riconoscerla, le tensioni politiche sono emerse subito. Con lo scoppio del conflitto tra Armenia e Azerbaijan per la regione montuosa del Nagorno Karabakh, Ankara diede appoggio all’alleato azero. All’epoca, il presidente dell’Azerbaijan, Heydar Aliyev, coniò l’espressione: “Una nazione, due stati” per descrivere i rapporti del suo paese con la Turchia (“Bir millət, iki dövlət” in lingua azera e “Bir millet, iki devlet” in lingua turca).

In risposta alla presa della regione e dei distretti circostanti da parte dell’esercito armeno, la Turchia chiuse la frontiera con l’Armenia nel 1993. Non solo: impose un embargo economico su Yerevan e co-sponsorizzò la risoluzione 822 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che riconosce il Nagorno Karabakh come parte del territorio sovrano dell’Azerbaijan.

I due paesi tentarono poi di riallacciare i legami nel 2008, quando l’allora Presidente armeno Serzh Sargsyan invitò a Yerevan il suo omologo turco, Abdullah Gül, in occasione di una partita di calcio tra le due nazionali. L’anno successivo, con la mediazione americana e svizzera, Armenia e Turchia siglarono i protocolli di Zurigo, che prevedevano il ripristino di piene relazioni e l’apertura della frontiera comune. Tali sforzi si sono però rivelati vani a causa dell’opposizione dell’Azerbaijan. Come dichiarato dal membro del parlamento azero, Qanira Pashayeva, “l’apertura del confine non è solo contraria agli interessi dell’Azerbaijan, ma anche a quelli turchi. Al momento, la situazione economica e sociale in Armenia è vicina al collasso. L’apertura del confine darebbe di certo impulso allo sviluppo dell’economia armena. Rafforzerebbe il paese. Spero che la Turchia analizzerà più attentamente la questione e non aprirà il confine”. Armenia e Turchia non hanno così ratificato i protocolli e la cosiddetta diplomazia calcistica che tanto aveva fatto sperare nel 2008 non ha portato a risultati concreti.

Le relazioni nella guerra dei 44 giorni

Dopo 44 giorni di scontri iniziati il 27 settembre 2020, il secondo conflitto del Nagorno Karabakh tra Armenia e Azerbaijan è terminato il 9 novembre. In seguito al cessate il fuoco siglato con la mediazione del Cremlino e alla vittoria azera, l’Armenia ha perso sia i distretti che la circondavano e che erano stati occupati dopo la prima guerra del Nagorno Karabakh, sia alcune parti della regione stessa. Dei 4400 chilometri quadrati controllati prima della guerra, agli armeni ne rimangono meno di 3000. A garanzia del mantenimento del cessate il fuoco, il trattato ha previsto il dispiegamento di circa duemila peacekeepers russi per almeno cinque anni, con estensione automatica di altri 5 se Yerevan o Baku non riterranno altrimenti. La principale giustificazione di Ankara per continuare a tenere chiuso il confine con l’Armenia sembra essere dunque venuta a meno.

L’accordo ha inoltre imposto, a vantaggio dell’Azerbaijan, la costruzione di un collegamento che l’unisca con la sua exclave del Nachicevan e con la Turchia attraversando il territorio armeno. La linea ferroviaria che Baku intende costruire utilizzerà l’infrastruttura di quella costruita nel 1941, in età sovietica. Serviva per collegare Mosca ai territori transcaucasici e, grazie al ramo Nachicevan-Julfa, ai porti iraniani sul Golfo Persico. Inutilizzabile dal 1989, quando l’Unione Sovietica era sull’orlo del collasso e le tensioni tra Armenia e Azerbaijan minacciavano già di sfociare in guerra, poco è sopravvissuto alla prima guerra del Nagorno Karabakh. La Turchia potrebbe raggiungere in tal modo l’Azerbaijan sfruttando il confine di circa 17 chilometri con il Nachicevan, senza transitare dall’Iran. Ankara ne trarrebbe un duplice vantaggio strategico: verso Teheran, con cui non sempre è in sintonia nella politica mediorientale, e verso i paesi turcofoni dell’Asia centrale, con cui riuscirebbe così a consolidare i rapporti economici.

Benché il potenziale geopolitico di Ankara sia inibito dall’influenza della Russia nel Caucaso, il ruolo della Turchia, sia per i droni forniti, sia soprattutto per i consiglieri militari di cui si è avvalso l’esercito azero, è stato determinante nelle sorti del conflitto. Non a caso, l’11 novembre Russia e Turchia hanno firmato un memorandum d’intesa per creare un centro di monitoraggio congiunto ad Aghdam, occupata dagli armeni dal luglio 1993 al novembre 2020. Il sostegno militare garantito da Erdoğan agli azeri, simboleggiato dalla sua presenza alla parata della vittoria di Baku al fianco del presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev, è stato retribuito con contratti da 15 miliardi di dollari appaltati dal governo azero a imprese turche per progetti di ricostruzione in Karabakh.

In risposta al sostegno turco all’Azerbaijan, l’1 gennaio 2021 il governo armeno aveva approvato un embargo sulle merci turche. In base alle disposizioni dell’Unione Economica Eurasiatica, di cui l’Armenia è membro, misure simili possono applicarsi per un massimo di sei mesi con possibilità di rinnovo. All’approssimarsi della scadenza, il ministro dell’Economia, Vahan Kerobyan, annunciò che il governo armeno intendeva introdurre nuove restrizioni ai prodotti provenienti dalla Turchia. Al momento l’embargo è stato esteso fino a gennaio 2022.

Normalizzazione, una sfida colma di ostacoli

Durante una visita in Azerbaijan il 12 novembre, il ministro turco Çavuşoğlu ha dichiarato che lo sviluppo del corridoio del Nachicevan porterà benefici a tutti i paesi della regione, Armenia inclusa. A sua volta, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha affermato che il ripristino della vecchia ferrovia d’epoca sovietica aprirà a Yerevan un collegamento diretto con Russia e Iran, favorendo la crescita economica del paese. Nell’opinione pubblica armena aleggia però un certo scetticismo su queste dichiarazioni. Molti ritengono che il ripristino del collegamento con l’Azerbaijan sia un rischio cui non corrispondono sostanziali benefici per l’Armenia.

Per Yerevan, normalizzare i rapporti con la Turchia risponde a due obiettivi: superare l’isolamento fisico e ridurre per quanto possibile la dipendenza da Mosca, cresciuta nel corso della guerra dei 44 giorni, quando l’Armenia ha contato su un cospicuo appoggio della Russia, cui è legata nel quadro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), alleanza difensiva che si estende ai membri dell’Unione Eurasiatica (Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan). Molti armeni, tuttavia, temono l’“agiarizzazione” del loro paese, termine che allude ai massicci investimenti turchi nella Agiara, regione autonoma del sud-ovest della Georgia. Questi hanno portato a una notevole crescita dell’influenza turca nella regione. I timori armeni riguardano perciò una possibile “turchizzazione” della loro economia.

Vi è poi l’ostacolo delle relazioni politiche, che le parti dovranno discutere una volta risolte quelle economiche. In primis la questione del genocidio, di cui Ankara esige la totale depoliticizzazione e Yerevan il riconoscimento. Ad essa si collegano le recriminazioni territoriali. L’Armenia si appella al Trattato di Sévres del 1920, che prevede la creazione di uno stato armeno nelle province di Bitlis, Erzurum e Van in Anatolia Orientale. La Turchia si aspetta che Yerevan accetti il Trattato di Kars del 1921, base degli attuali confini. Il ruolo che l’Azerbaijan potrebbe giocare nella normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Armenia genera anch’esso dissidi. Questa ultima è del tutto contraria alla partecipazione di Baku, visti i cronici scontri alla frontiera tra i due paesi.

Infine, la normalizzazione genera perplessità a Mosca. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha dichiarato il 25 novembre che il suo governo sostiene la riappacificazione tra i due paesi, ma non è chiaro quali benefici si aspetti. Se da un lato il corridoio del Nachicevan offrirà alla Russia un collegamento diretto con la Turchia attraverso l’Azerbaijan e l’Armenia, dall’altro la possibilità che Yerevan diversifichi la sua economia ed espanda la rete di trasporti al di fuori del suo controllo, ne indebolirebbe l’influenza nel Caucaso meridionale, a favore di Ankara. Considerando che una delle ragioni che hanno spinto Mosca ad intervenire per porre fine alla guerra in Nagorno Karabakh è stata il contenimento della Turchia nell’area, è difficile che osserverà senza muovere un dito l’evoluzione dei rapporti turco – armeni.

Dopo il fallimento della diplomazia calcistica del 2008, la normalizzazione dei rapporti sembra di nuovo un punto importante dell’agenda di Armenia e Turchia. Dopo quasi un trentennio senza alcun dialogo e coi confini chiusi, l’inaugurazione della tratta aerea Istanbul-Yerevan, le dichiarazioni dei governi e le nuove prospettive di connettività regionale pongono basi inedite per questo tentativo ambizioso. In caso di successo, la distensione avrebbe forte impatto sulla geopolitica del Caucaso Meridionale. Tuttavia il timore armeno di un’eccessiva esposizione all’influenza economica turca, la persistenza di tensioni politiche tra Yerevan e Ankara e il ruolo di Azerbaijan e Russia nel processo di normalizzazione, sono ostacoli che rendono impervia la strada.

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